XXXI Convocazione Nazionale del Rinnovamento nello Spirito

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XXXI CONVOCAZIONE NAZIONALE
dei Gruppi e delle Comunità del RnS Fiera di
Rimini
, 1 – 4 maggio 2008

«Rigenerati
dalla Parola di Dio»
(1 Pt 1, 23)
Relazione sulla chiamata a evangelizzare: «Lo Spirito di verità mi renderà testimonianza, e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me» (Gv 15, 26-27)
Relatore: p. Raniero Cantalamessa, Predicatore della Casa Pontificia

La testimonianza di Gesú è lo spirito di profezia (Ap 19,10)

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Pensavo in questi giorni che io ho continuato per tutta la vita a fare
quello che facevo da bambino. I miei nonni materni avevano un grande
campo in collina, seminato a grano. La mietitura si faceva ancora tutta
a mano, con la falce, nella calura estiva. Io e una schiera di
cuginetti eravamo incaricati di portare acqua ai mietitori. Era un
continuo andare e venire dalla fonte al campo. Gli operai di
rialzavano, tracannavano caraffe d’acqua con uno spicco di limone
dentro e si rimettevano a mietere cantando.

È quello che ho continuato a fare, dicevo, tutta la vita: portare acqua
ai mietitori, l’acqua della parola di Dio, ai mietitori del campo del
Signore che siete voi! Altri sostengono il peso della fatica e del
caldo, io faccio quello che fanno i bambini: portare il refrigerio di
un po’ d’acqua. Oso fare mie le parole che il mio padre Francesco
d’Assisi scriveva in una lettera a tutti i fedeli: “Poiché sono servo
di tutti, sono tenuto a servire a tutti e ad amministrare le fragranti
parole del mio Signore” [1]. Lui parla di pani, non di acqua, ma è la
stessa realtà.

Molti, mi è stato detto, non hanno trovato posto in questo pur immenso
padiglione della fiera di Rimini e sono in un altro padiglione davanti
al video. È comprensibile che si sentano un po’ delusi. Io però ho una
buona notizia per loro. Il libro dei Numeri narra cosa successe quando
Mosè, nella tenda del convegno, trasmetteva lo Spirito profetico ai
settanta anziani: due uomini, Eldad e Medad, non erano con gli altri
nella tenda, ma lo Spirito Santo scese su di loro in maniera ancora più
visibile che su quelli che erano nella tenda e cominciarono a profetare
(cf. Num 11, 24-30).

“Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di
verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche
voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal
principio” (Gv 15, 26-27). È il testo evangelico proposto alla nostra
meditazione per questo incontro.

Dopo la Pentecoste vediamo questo annuncio di Gesú perfettamente
realizzato nella Chiesa. Pietro conclude il suo discorso davanti al
Sinedrio, dicendo: “Di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito
Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui” (At 5,
30-32). Non si tratta però di due testimonianze distinte e
indipendenti, ma di una sola testimonianza. Il senso è: il Paraclito mi
renderà testimonianza attraverso di voi. Lo Spirito Santo è il
testimone interiore invisibile; gli apostoli e, dopo di loro, i vescovi
e, in modo diverso, tutti i discepoli sono i testimoni esteriori,
visibili. Prestano la voce allo Spirito.

Riflettiamo su questo compito che oggi è anche il nostro: che genere di
testimonianza si aspetta Gesú da noi? Una frase dell’Apocalisse sembra
rispondere direttamente a questa domanda: “La testimonianza di Gesú,
dice, è lo spirito di profezia” (Ap 19,10). Uno studioso ha commentato
così questa frase lapidaria: “Il possesso dello Spirito profetico, che
costituisce il vero profeta, si manifesta in una vita di testimonianza
a Gesú…Ogni vero profeta è testimone di Gesú; e chiunque ha la
testimonianza di Gesú è profeta nel senso più alto del termine” [2].

1. Cos’è la profezia?

Cos’è la profezia? Una prima idea, vaga ma suggestiva, è contenuta
nella formula con cui Balaam introduce i suoi oracoli nel libro dei
Numeri:

“Oracolo di Balaam, figlio di Beor,
oracolo dell’uomo dall’occhio penetrante,
oracolo di chi ode le parole di Dio
e conosce la scienza dell’Altissimo,
di chi vede la visione dell’Onnipotente,
e cade ed è tolto il velo dai suoi occhi.
(Num 24, 15-16).

Profeta è uno a cui è dato un occhio penetrante che gli permette di
avere accesso alla mente di Dio e di vederne i segreti progetti.
Einstein diceva di volere conoscere il pensiero di Dio, perché tutto il
resto non era ai suoi occhi che dettagli. Quello che non è concesso
allo scienziato è concesso al profeta.

All’origine della profezia troviamo le due grandi forze che insieme
creano e muovono il mondo secondo la Bibbia: lo Spirito e la Parola, la
ruach e il dabar. I profeti sono visti ora come gli uomini della
parola, ora come gli uomini dello Spirito. Ora è la parola che “viene”
su di essi e li costituisce profeti, ora è lo “Spirito del Signore” (Is
61,1). “Il mio spirito che è sopra di te e le parole che ti ho messo in
bocca non si allontaneranno mai dalla tua bocca”, dice Dio a Isaia (Is
59,21).

Alla profezia si applica in modo eminente ciò è scritto
dell’ispirazione biblica in genere. Nella seconda lettera a Timoteo è
contenuta la celebre affermazione: “Tutta la Scrittura è ispirata da
Dio” (2 Tm 3, 16). L’espressione che viene tradotta con “ispirata da
Dio”, o “divinamente ispirata”, nella lingua originale, è una parola
unica, theopneustos, che contiene insieme i due vocaboli di Dio (Theos)
e di spirare (pneo). Tale parola ha due significati fondamentali: uno
molto noto e un altro invece abitualmente trascurato, sebbene non meno
importante del primo.

Il significato più noto è quello passivo, messo in luce in tutte le
traduzioni moderne: la Scrittura è “ispirata da Dio”. Un altro passo
del Nuovo Testamento spiega così questo significato: “Mossi da Spirito
Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio” (2 Pt 1, 21). È,
insomma, la dottrina classica dell’ispirazione divina della Scrittura,
quella che proclamiamo come articolo di fede nel Credo, quando diciamo
che lo Spirito Santo “ha parlato per mezzo dei profeti”.

Possiamo rappresentarci con immagini umane questo evento in sé
misterioso dell’ispirazione: Dio “tocca” con il suo dito divino – cioè
con la sua vivente energia che è lo Spirito Santo – quel punto
recondito, dove lo spirito umano si apre all’infinito e da lì quel
tocco – in sé semplicissimo e istantaneo come è Dio che lo produce – si
diffonde come una vibrazione sonora in tutte le facoltà dell’uomo
-volontà, intelligenza, fantasia, cuore -, traducendosi in concetti,
immagini, parole.

Così arriviamo all’altro significato, quello meno noto,
dell’ispirazione biblica. Per sé, grammaticalmente, il participio
theopneustos è attivo, non passivo. La Scrittura, diceva sant’Ambrogio,
è theopneustos non solo perché è “ispirata da Dio”, ma anche perché è
“spirante Dio”, traspira Dio! [3]

La costituzione conciliare “Dei Verbum” riunisce i due significati
quando dice che “le sacre Scritture ispirate da Dio (ispirazione
passiva!) e redatte una volta per sempre, comunicano immutabilmente la
parola di Dio stesso e fanno risuonare nelle parole dei profeti e degli
apostoli la voce dello Spirito Santo” (ispirazione attiva!) [4].

2. Lingue come di fuoco

Della ispirazione biblica è messo in luce, di solito, quasi solo un
effetto: l’inerranza, cioè il fatto che la Bibbia non contiene errori.
Ma l’ispirazione biblica fonda molto di più che la semplice inerranza
della parola di Dio (che è qualcosa di negativo); fonda, positivamente,
la sua efficacia e vitalità divina.

È qui la principale differenza tra la parola di Dio e la parola degli
uomini. Nel vangelo di Matteo è riportata una parola di Gesù che ha
fatto tremare i lettori del Vangelo di tutti i tempi: “Ma io vi dico
che di ogni parola inutile gli uomini renderanno conto nel giorno del
giudizio” (Mt 12,36).

Il termine tradotto con “inutile nell’originale è argòn che vuol dire
“senza effetto (a privativo più ergos, opera). Alcune traduzioni
moderne, tra cui quella italiana della CEI, rendono il termine con
“infondata”, quindi con valore passivo: parola che non ha fondamento:
quindi, calunnia. È un tentativo per dare un senso più rassicurante
alla minaccia di Gesù. Non c’è nulla di nuovo infatti se Gesù dice che
di ogni calunnia si deve rendere conto a Dio! Ma il significato di
argòn è piuttosto attivo e vuol dire: parola che non fonda niente, che
non produce nulla: quindi, vuota, sterile, senza efficacia [5].

Basta, per rendersene conto, confrontare questo aggettivo con quello
che, nella Bibbia, caratterizza costantemente la parola di Dio:
l’aggettivo energes, efficace, che opera, che è seguita sempre da
effetto (ergos), lo stesso aggettivo da cui deriva la parola
“energico”. San Paolo loda i Tessalonicesi, perché hanno accolto la
parola divina della predicazione, non quale parola di uomini, ma, come
è veramente, quale “parola di Dio che opera (energeitai) in coloro che
credono” (cf. 1 Ts 2, 13). Anche la Lettera agli Ebrei definisce “viva
ed efficace (alla lettera, energica,energes) è la parola di Dio” (Eb 4,
12).

La parola inutile, di cui gli uomini dovranno rendere conto nel giorno
del giudizio, non è dunque ogni e qualsiasi parola inutile; è la parola
inutile, vuota, pronunciata da colui che dovrebbe invece pronunciare le
“energiche” parole di Dio. È, insomma, la parola del falso profeta, che
non riceve la parola da Dio e tuttavia induce gli altri a credere che
sia parola di Dio. Di ogni parola inutile su Dio, dovrà rendere conto
l’uomo!: ecco dunque il senso del grave ammonimento di Gesù. Gli
“uomini che dovranno rendere conto di ogni parola inutile sono gli
uomini di Chiesa; quelli che sono chiamati a essere testimoni di Gesú,
siamo noi.

I falsi profeti sono coloro che non presentano la parola di Dio nella
sua purezza, ma la annacquano ed estenuano in mille parole umane. Gesù,
a Cana di Galilea, trasformò l’acqua in vino, cioè la morta lettera
nello Spirito che vivifica (così interpretano spiritualmente il fatto i
Padri); i falsi profeti sono coloro che fanno tutto l’opposto e cioè
trasformano il vino puro della parola di Dio in acqua che non inebria
nessuno, in lettera morta, o in parole di sapienza umana (cf. 1 Cor
2,4).

Ma vediamo invece come si attua un parlare profetico e come lo si
riconosce. Mentre l’annunciatore sta parlando, a un certo momento non
deciso da lui, avverte una interferenza, come se un’onda di diversa
frequenza si inserisse nella sua voce. Egli se ne accorge per via di
una commozione che lo investe, una forza e una convinzione che
riconosce chiaramente come non sue. La parola si fa più ferma,
incisiva. Sperimenta un riflesso di quella “autorità” che tutti
percepivano quando ascoltavano parlare Gesù.

Se sta parlando, per esempio, del peccato, sente uno zelo per Dio, uno
sdegno tale, come se Dio in persona l’avesse designato suo avvocato di
fronte al mondo. Gli pare che, con quella forza, potrebbe resistere al
mondo intero e far davvero “impazzire i colpevoli e tremare gli
innocenti” [6]. Se parla dell’amore di Dio o della passione di Cristo,
la sua voce trasmette qualcosa del pathos stesso di Dio. L’apostolo
Paolo descrive benissimo questo fatto:

“La mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi
persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della
sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza
umana, ma sulla potenza di Dio” (1 Cor 2, 4-5); “Il nostro vangelo non
si è diffuso tra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con
potenza e con Spirito Santo e con profonda convinzione, come ben
sapete” (1 Ts 1,5).

L’Apostolo parla di un’esperienza comune a lui e agli ascoltatori.
Difatti, quando è lo Spirito che mette sulle labbra una parola, gli
effetti, anche se di natura squisitamente spirituale, sono ben
percepibili. L’ascoltatore è raggiunto in un punto dell’essere, dove
non giunge nessun’altra voce; si sente “toccato” e non di rado un
brivido, o una sensazione di calore, lo attraversa in tutto il corpo.
L’uomo e la sua voce, a questo punto, scompaiono per far posto a
un’altra voce.

Si costata la verità del detto di Filone Alessandrino, un autore ebreo
contemporaneo degli apostoli: “Il vero profeta, quando parla, tace”
[7]. Tace perché, in quel momento, non è più lui che parla, ma un
altro. Si è fatto dentro di lui un misterioso silenzio; come quando ci
si fa rispettosamente da parte per far passare il re. Lui stesso è
trascinato dalla parola che pronuncia, e se delle considerazioni umane
cercano di trattenerlo dall’esternare un certo pensiero, sente nelle
ossa “un fuoco ardente che non riesce a contenere” (cf. Ger 20,9) e
pronuncia quella frase in tono ancor più alto del resto. Si rimane
confusi e intimoriti davanti a Dio che dice al suo annunciatore, povera
creatura peccatrice: “Tu sarai come la mia bocca” (Ger 15,19).

Questo non avviene con la stessa intensità nel corso di un intero
discorso o predica. Sono momenti; a Dio basta una frase, una parola.
Annunciatore e ascoltatori hanno la sensazione come di gocce di fuoco
che, a un certo punto, si mescolano alle parole del predicatore,
rendendole incandescenti. Il fuoco è l’immagine che meno
imperfettamente esprime la natura di questa azione dello Spirito. Per
questo, a Pentecoste, egli si manifestò sotto forma di “lingue come di
fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro”. Di Elia si
legge che era “simile al fuoco e la sua lingua bruciava come fiaccola”
(Sir 46, 1) e in Geremia Dio stesso dichiara: “La mia parola non è
forse come il fuoco -oracolo del Signore- e come un martello che spacca
la roccia?” (Ger 23, 29).

3. La nuova profezia

Ma adesso voltiamo pagina, passiamo dall’Antico al Nuovo Testamento.
Annunciando la nascita del Precursore, il padre Zaccaria dice: “E tu,
bambino sarai chiamato profeta dell’Altissimo” (Lc 1, 76) e Gesú dice
di lui che è “più che un profeta” ( Mt 11, 11). Ma dov’è la profezia
nel caso di Giovanni Battista? I profeti antichi annunciavano una
salvezza futura; ma il Precursore non è uno che annuncia una salvezza
futura; egli indica uno che è presente. In che senso allora si può
chiamare profeta?

Qui sta la novità. Isaia, Geremia, Ezechiele aiutavano il popolo a
oltrepassare la barriera del tempo; Giovanni Battista aiuta il popolo
ad oltrepassare la barriera, ancora più spessa, delle apparenze
contrarie, dello scandalo, della banalità e povertà con cui l’ora
fatidica si manifesta.

E’ facile credere a qualcosa di grandioso, di divino, quando si
prospetta in un futuro indefinito: "in quei giorni", "negli ultimi
giorni", in una cornice cosmica, con i cieli che stillano dolcezza e la
terra che si apre per fare germogliare il Salvatore. È più difficile
quando si deve dire: "Eccolo! E’ lui!" e questo di un uomo di cui si sa
tutto: di dove viene, che mestiere ha fatto, chi ha avuto per madre.
L’altro giorno, nella festa di san Giuseppe operaio abbiamo ascoltato
nel vangelo, la reazione della gente di Nazareth: “Non è egli forse il
figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria?…Da dove gli
vengono tutte queste cose? E si scandalizzavano di lui” (Mt 13, 54 s.).

Con le parole: "In mezzo a voi c’è uno che voi non conoscete!" (Gv
1,26), Giovanni Battista ha inaugurato la nuova profezia, quella del
tempo della Chiesa, che non consiste nell’annunciare una salvezza
futura e lontana, ma nel rivelare la presenza nascosta di Cristo nel
mondo.

La novità della profezia cristiana non sta nella natura del parlare
profetico che resta la stessa di prima; sta nel suo contenuto che è la
persona di Cristo. Il contenuto non è più il futuro, ma il presente.
Balaam diceva: “Io lo vedo, ma non ora, io lo contemplo, ma non da
vicino: Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele”
(Num 24, 17). Giovanni Battista non lo contempla da lontano, ma lo
addita presente. Nel suo grido: “Ecco l’Agnello di Dio!” c’è la massima
concentrazione profetica, un lampo come da corto circuito. Vuole dire:
“Ricordate l’agnello che i vostri padri immolarono in Egitto e
l’agnello mansueto condotto al macello che non apre bocca? Ebbene
quello di cui tutto questo era figura è qui davanti a voi.

È avvenuta la svolta escatologica, cioè definitiva. Gesú stesso lo
mette in luce parlando del Battista: “In verità vi dico: tra i nati di
donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il
più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui… La Legge e tutti i
Profeti infatti hanno profetato fino a Giovanni” (Mt 11, 11-14).

Tra la missione di Giovanni Batista e quella di Gesú è avvenuto
qualcosa di così decisivo da costituire uno spartiacque tra due epoche.
Il baricentro della storia si è spostato: la cosa più importante non è
più in un futuro più o meno imminente, ma è “ora e qui”, nel regno che
è già operante nella persona di Cristo. Tra le due predicazioni è
avvenuto un salto di qualità: il più piccolo del nuovo ordine è
superiore al più grande dell’ordine precedente.

Questo tema del compimento e della svolta epocale trova conferma in
molti altri contesti del vangelo. Basta ricordare alcune parole di Gesù
come: “Ecco, ora qui c’è più di Giona! […]. Ecco, ora qui c’è più di
Salomone!” (Mt 12 41-42). “Beati i vostri occhi perché vedono e i
vostri orecchi perché sentono. In verità vi dico: molti profeti e
giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e
ascoltare ciò che voi ascoltate, e non l’udirono!” (Mt 13, 16-17).
Tutte le cosiddette “parabole del regno”, -si pensi a quelle del tesoro
nascosto e della perla preziosa – esprimono la stessa idea di fondo:
con Gesú è scoccata l’ora decisiva della storia, davanti a lui si
impone la decisione dalla quale dipende la salvezza.

In Gesú si ha la identificazione tra il soggetto e l’oggetto della
profezia. Il Gesú che annuncia la buona novella durante la sua vita
terrena (il “Gesú che predica”) è il soggetto della profezia, cioè il
profeta per eccellenza, definitivo, “il profeta di Nazareth”, come lo
chiamano nei vangeli (Mt 21,11); il Gesú annunciato dagli apostoli (il
"Gesú predicato”) è l’oggetto della profezia.
L’inaugurazione solenne della nuova profezia che ha per oggetto Cristo
si ha nel discorso di Pietro il giorno di Pentecoste: “Uomini
d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret – uomo accreditato
da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio
stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete, dopo che,
secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a
voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete
ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della
morte…Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha
costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!” (At 2,
22-36).

Ogni volta che leggo queste parole mi vengono i brividi. Siamo davanti
al culmine del parlare profetico. Si sta realizzando la parola di Gesú:
“Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di
verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche
voi mi renderete testimonianza”. Ora soltanto è tolto interamente “ il
velo dagli occhi”, perché il velo, ci dice Paolo, non cade se non
quando c’è la conversione al Signore” (cf. 2 Cor 3, 15-16).

Quando Pietro dice: “Accade ora quello che predisse il profeta Gioele”,
si ha di nuovo un corto circuito, come nella predicazione di Giovanni
Battista, ma immensamente più potente perché c’è stata di mezzo la
Pasqua e la Pentecoste. È come se Pietro dicesse: Tutto quello che i
patriarchi hanno atteso, i profeti hanno annunciato, i salmi hanno
cantato è diventato realtà, “accade ora”. “Per voi è la promessa e per
i vostri figli” (At 2, 39).

4. Il Rinnovamento carismatico, movimento profetico

Ora ci domandiamo: Come si situa il Rinnovamento carismatico in
rapporto a quello che abbiamo detto della profezia in genere e della
profezia cristiana in specie? Qual è il suo significato e la sua
responsabilità? Diamo un breve sguardo alla storia di questo carisma
per rispondere a queste domande.

Stando alle parole di san Pietro nel discorso di Pentecoste, la Chiesa
nasce tutta quanta come realtà profetica. Tutti – figli e figlie,
giovani e anziani – sono profeti (cf. Atti 2, 14 ss.). Questa accezione
estensiva non annulla, tuttavia, quella più specifica, tanto che Paolo
può affermare: “Forse che tutti sono profeti?“ (1 Cor 12,29). Ci sono
dunque, all’inizio della Chiesa, alcune persone particolarmente dotate
del carisma che vengono abitualmente chiamate profeti (cf. Atti 11,27;
13,1; 15,32; 21, 9-10).

In questa accezione più ristretta, i profeti, insieme con gli apostoli
e, talvolta, con i dottori o maestri, costituiscono una funzione
costitutiva della Chiesa (cf. Atti 13,1-3; 1 Cor 12,29). Tale
profetismo specifico conobbe due realizzazioni: la forma comunitaria,
costituita dai profeti che vivono stabilmente in una comunità e quella
dei profeti itineranti che conosciamo soprattutto dalla Didachè.

Dopo la metà del II secolo il profetismo va rapidamente in crisi,
cominciando proprio dai profeti itineranti. Il fattore determinante
della crisi fu il fenomeno del Montanismo scoppiato in Asia Minore. I
montanisti rivendicavano ai loro profeti e alle loro profetesse una
autonomia assoluta, cadendo in eccessi che squalificarono il carisma
agli occhi del resto della Chiesa (eccetto Tertulliano che fu il loro
accanito difensore!).

La crisi del primitivo profetismo non portò a una sua scomparsa dalla
Chiesa, ma piuttosto ad una sua istituzionalizzazione, cioè a un suo
assorbimento nell’orbita della gerarchia. Il carisma profetico – come
del resto quello dell’insegnamento – viene sempre più spesso messo in
connessione con l’ufficio, cioè con l’episcopato e con la gerarchia.
Quando non indica il dono di alcuni santi di predire il futuro, la
profezia, specie in seguito alla polemica con i protestanti, si riduce
alla prerogativa del magistero di interpretare autenticamente la
Scrittura e insegnare la vera dottrina.

Se nell’ambito ecclesiastico la profezia viene istituzionalizzata, nel
campo laico essa viene secolarizzata. Rifacendosi a certi profeti
dell’Antico Testamento che avevano esercitato una funzione critica nei
confronti delle strutture sociali e religiose del loro tempo, il titolo
di profeta viene dato a chiunque abbia rotto con le convenzioni comuni
e aperto nuovi orizzonti alla coscienza umana, anche se atei
dichiarati. Profeti sono stati definiti Marx, Nietzsche, e molti altri
in questa linea. È caduto ormai ogni connotato religioso della profezia
e ogni riferimento allo Spirito Santo.

La riscoperta della profezia biblica, come in quella dei carismi in
genere, si ha con il Concilio Vaticano II. Con il suo accento sulla
Chiesa-popolo di Dio, il concilio ha ricreato uno spazio per la
dialettica fra istituzione e carisma e ha rimesso in luce il carattere
profetico di tutto il popolo cristiano. Cristo, dice un testo
conciliare, compie il suo ufficio profetico nella Chiesa “non solo per
mezzo della gerarchia, la quale insegna in nome e con la potestà di
Lui, ma anche per mezzo dei laici che perciò costituisce suoi
testimoni” [8].

Il Rinnovamento nello Spirito, insieme con altre realtà del
post-concilio, rappresenta l’attuazione di questa riscoperta nella vita
della Chiesa. Segna il passaggio dai documenti alla vita. Esso è un
movimento profetico ancora prima che un movimento carismatico. È la
riscoperta e la proclamazione della signoria di Cristo che, abbiamo
visto, rappresenta la quintessenza della profezia cristiana. A
trent’anni di distanza ancora ritrovo dentro di me l’emozione al
sentire quarantamila persone intonare di sera, nello stadio di Kansas
City: “He is Lord, He is Lord. He’s risen from the dead and He is Lord.
Every kneel shall bow, every tongue confess that Jesus Christ is Lord”.
Che cosa ci impedisce di ripetere qui quell’esperienza? Gesú non ha
cessato nel frattempo di essere il Signore e noi lo vogliamo proclamare
cantando quelle solenni parole, prima in inglese (chi lo sa) e poi in
italiano…

Lo scorso Venerdì Santo, parlando dell’unità dei cristiani, nella
Basilica di S. Pietro, alla presenza del Santo Padre, ho rievocato un
momento di quell’incontro. Una sera, al microfono, uno degli animatori
cominciò a parlare in un modo, per me, a quel tempo, strano: “Voi
sacerdoti e pastori, piangete e fate lamento, perché il corpo del mio
Figlio è spezzato… Voi laici, uomini e donne, piangete e fare lamento
perché il corpo del mio Figlio è spezzato”.
Cominciai a vedere le persone cadere una dopo l’altra in ginocchio
intorno a me e molte di esse singhiozzare di pentimento per le
divisioni nel corpo di Cristo. E tutto questo mentre una scritta
campeggiava da una parte all’altra dello stadio: “Jesus is Lord, Gesú è
il Signore”. Io ero lì come un osservatore ancora assai critico e
distaccato, ma ricordo che pensai tra me: Questa è una profezia per la
Chiesa. Se un giorno tutti i credenti saranno riuniti a formare una
sola Chiesa, sarà così: mentre saremo tutti in ginocchio, con il cuore
contrito e umiliato, sotto la grande signoria di Cristo.

Paolo VI, ricevendo il Rinnovamento carismatico, nel 1975, disse che il
suo motto avrebbe potuto essere la frase dell’inno di sant’Ambrogio:
“Laeti bibamus sobriam profusionem Spiritus”: sperimentiamo con gioia
la sobria ebbrezza dello Spirito. Io però ho sempre pensato che un
motto ancora più pertinente è la frase del salmo che qualcuno applicò
fin dagli inizi al Rinnovamento: Reddite Deo potentiam suam (Sal 67,
35): Restituire il potere a Dio!

C’è un contributo specifico del Rinnovamento alla riscoperta della
dimensione profetica della Chiesa. Consiste nell’aver riportato alla
luce, accanto ai molti significati della parola profezia, il
significato e le manifestazioni che essa aveva nella primitiva comunità
cristiana. Basta rileggere 1 Corinzi 14 per renderci conto di quanto
simile alla loro è stata l’esperienza fatta nel Rinnovamento, nei suoi
momenti migliori:

“Aspirate pure anche ai doni dello Spirito, soprattutto alla profezia…
Chi profetizza parla agli uomini per loro edificazione, esortazione e
conforto…Vorrei vedervi tutti parlare con il dono delle lingue, ma
preferisco che abbiate il dono della profezia…Se, per esempio, quando
si raduna tutta la comunità, tutti parlassero con il dono delle lingue
e sopraggiungessero dei non iniziati o non credenti, non direbbero
forse che siete pazzi? Se invece tutti profetassero e sopraggiungesse
qualche non credente o un non iniziato, verrebbe convinto del suo
errore da tutti, giudicato da tutti; sarebbero manifestati i segreti
del suo cuore, e così prostrandosi a terra adorerebbe Dio, proclamando
che veramente Dio è fra voi”.

Quante volte questo che dice Paolo si è ripetuto qui a Rimini, o in
altri incontri simili! Persone non credenti o scettiche, capitate per
caso a una di queste convocazioni o perché spinte da qualcuno, si sono
ritrovate ad esclamare tra sé: “Qui c’è Dio!” Successe anche a me. Era
il 1975. Fui invitato a un gruppo di preghiera delle Comunità Maria a
Roma. Ero lì come con atteggiamento assai critico tanto che il
responsabile diceva alle persone: “Non andate da quel frate lì; è un
nemico del Rinnovamento!”. Però vedendo tra loro un sacerdote, alcuni
mi chiesero di ascoltare le loro confessioni. Fu il primo vero shock
carismatico nella mia vita. Io non avevo mai visto un pentimento così
genuino. I peccati sembravano cadere dalle anime come sassi, e alla
fine lacrime di gioia. Non potei fare a meno di dire tra me: “Qui c’è
Dio!”.

Ma, diceva già Origene, “ipsa novitas innovanda est” [9], anche la
novità ha bisogno di essere rinnovata. Anche il Rinnovamento ha bisogno
di essere rinnovato! Cosa resta della forte carica profetica dei primi
tempi? Anche a noi è rivolta l’esortazione dell’Apostolo a Timoteo: ”Ti
ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle
mie mani” (2 Tim 1, 6). “Ravvivare” (anazopurein): alla lettera
soffiare sulla fiamma, rimuovere le ceneri per riportare alla luce il
fuoco. Non passiamo alle nuove generazioni che si accostano alla realtà
del Rinnovamento una fiamma smorta e un lucignolo fumigante…

5. I requisiti umani della profezia: umiltà e amore

A questo punto dovrei dire qualcosa sugli “ingredienti” umani della
profezia, cioè sulle disposizioni d’animo che ne favoriscono
l’esercizio. In altre parole, cosa dobbiamo fare perché il carisma
profetico possa “ravvivarsi” in noi.

Il primo requisito è la preghiera. Abbiamo sentito cosa dice Gesú agli
apostoli: “Anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con
me fin dal principio”. Bisogna prima essere stati “con Gesú”, in
ascolto e in contemplazione del suo volto per percepire le sue parole e
intravedere i suoi disegni. Senza preghiera, niente profezia!

Ma non insisto su questo tema che è pacifico. Dobbiamo accennare a due
altri requisiti, anch’essi vitali: umiltà e amore. Il profeta, si
diceva, è uno che “mentre parla, tace”, cioè scompare per far posto a
un’altra voce. La ricerca della propria gloria spegne la profezia, come
la sabbia e la polvere che si gettano sulle fiamme e le soffocano. Al
contrario, la rinuncia alla propria gloria da via libera allo Spirito.

Ne abbiamo l’esempio più lampante negli stessi apostoli. Tutti sanno
che con l’insistenza sul fenomeno delle lingue, l’autore degli Atti ha
voluto stabilire un parallelismo e un’antitesi con Babele. A Babele
tutti parlavano ancora una stessa lingue e a partire da un certo
momento nessuno capisce più l’altro; a Pentecoste parlano tutti lingue
diverse (per questo quel lungo elenco di popoli in Atti 2, 5 ss.),
eppure tutti capiscono gli apostoli. Perché? Riascoltiamo cosa dicono i
costruttori di Babele nell’accingersi all’opera: “Venite, costruiamoci
una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un
nome, per non disperderci su tutta la terra” (Gen 11, 4). Vogliono
costruire un tempio alla divinità (tale era infatti la famosa torre,
una ziccurat, un tempio a terrazze), ma per farsi un nome, per la
propria gloria, non quella di Dio. Dio è strumentalizzato. Da qui la
confusione delle lingue.

Adesso passiamo a Pentecoste. Tutti comprendono gli apostoli perché
essi proclamano “le grandi opere di Dio” (At 2, 11). Prima della venuta
dello Spirito anch’essi volevano farsi un nome e discutevano chi era il
più grande. Adesso non più. Si sono dimenticati di se stessi, sono
completamente presi e abbagliati dalla gloria di Dio. Questo conferisce
quell’irresistibile forza profetica al loro annuncio: “Voi avete
crocifisso Gesú di Nazareth, Dio l’ha risuscitato! Pentitevi, dopo
riceverete il dono dello Spirito Santo” (At 2, 37). È tracciata la via
alla profezia: decentrarsi da se stessi e ricentrarsi su Cristo.

Poi, dicevo, l’amore. Dio è amore e parla per amore. L’amore è la
frequenza d’onda su cui si trasmette la sua parola. Amore, anzitutto,
per il popolo a cui si è mandati. Ricordate l’episodio di Giona. C’è in
esso un messaggio che spesso ci sfugge. Perché Giona cerca in tutti i
modi di non andare a predicare a Ninive? Perché non ama i niniviti;
erano i nemici d’Israele. Quando finalmente è costretto ad andare a
Ninive comincia a predicare: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà
distrutta!” (Giona 3,4). E si capisce che la prospettiva non gli
dispiace affatto.

Ma che succede? Dio si commuove e perdona i niniviti. Giona entra in
crisi e Dio deve spiegargli, con pazienza, perché non poteva
distruggere tutta quella povera gente ignorante che non sapeva
distinguere la destra dalla sinistra. (Dio, a volte, fa più fatica a
convertire il predicatore che tutto il popolo a cui lo manda!). Mancava
l’amore. Quando non c’è amore, le parole che pronunciamo diventano
pietre e la gente si difende dalle pietre.

Dio dice a Mosè: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho
udito il suo grido…; conosco le sue sofferenze” (Es 3,7); Cristo si
commuove guardando le folle, perché le vede “stanche e sfinite, come
pecore senza pastore” (Mt 9, 36). Il profeta è uno che condivide il
pathos di Dio e la commozione di Cristo. Se non proviamo in noi questi
sentimenti, c’è una sola cosa da fare: chiedere allo Spirito Santo di
metterli nel nostro cuore, di parteciparci un po’ dell’amore di Cristo
per gli uomini redenti dal suo sangue. “L’amore di Cristo ci spinge al
pensiero che uno è morto per tutti” (2 Cor 5, 14).

6. Tutti profeti!

Nel Nuovo Testamento, dicevo, si parla di due tipi di profeti: quelli
che nella comunità hanno un riconosciuto carisma profetico e i profeti
in senso generale. Non tutti sono profeti nel primo senso, tutti lo
sono invece nel secondo. Conosciamo la profezia di Gioele che Pietro
vede realizzata a Pentecoste:

“Io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona;
i vostri figli e le vostre figlie profeteranno,
i vostri giovani avranno visioni
e i vostri anziani faranno dei sogni.
E anche sui miei servi e sulle mie serve
in quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi
profeteranno” (At 2, 17-18).

Si realizza finalmente il desiderio espresso da Mosè nella circostanza
ricordata all’inizio: “Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e
volesse il Signore dare loro il suo spirito!” (Num 11, 29). Il Concilio
Vaticano II ha riaffermato la vocazione profetica di tutto il popolo di
Dio:
“Ciascun membro della Chiesa, dice, deve rendere testimonianza a Gesù
con spirito di profezia” [10]. Proprio in ciò sta la novità creata
dalla venuta di Cristo e l’effusione del suo Spirito. Nell’Antico
Testamento solo alcuni, e solo in circostanze particolari, erano
profeti; ora tutti condividono tale vocazione.

La prospettiva non deve spaventarci. Non si è profeti solo parlando;
meglio, sì, si è profeti parlando, ma parlando non solo con la bocca,
ma anche con gli occhi, con le mani, con la vita. “La Chiesa, diceva
Paolo VI, ha bisogno della sua perenne Pentecoste; ha bisogno di fuoco
nel cuore, di parola sulle labbra, di profezia nello sguardo” [11].

Profezia nello sguardo! Una volta, agli inizi del Rinnovamento, un
sacerdote tornava in treno dopo avere partecipato a un ritiro
carismatico: risuonavano ancora dentro di lui le note dei canti
carismatici. A un certo punto una distinta signora che gli stava
davanti chiuse il giornale che stava leggendo, lo fissò e disse: “Lo
sa, Padre? Lei ha una faccia che fa credere in Dio”. Come vorrei che
molti potessero dire o pensare la stessa cosa incontrando la gente che
torna da Rimini!

Giovanni Battista ci insegna che per essere profeti, nel senso
cristiano del termine, non occorre una grande dottrina ed eloquenza.
Egli non è un grande teologo; ha una cristologia povera e rudimentale.
Non conosce ancora i titoli più alti di Gesù: Figlio di Dio, Verbo,
Figlio dell’uomo… Ma come riesce a fare sentire la grandezza e
unicità di Cristo! Usa immagini semplicissime, da contadino. “Non sono
degno di sciogliere i legacci dei suoi sandali”. Il mondo e l’umanità
appaiono, dalle sue parole, contenuti dentro un vaglio che egli, il
Messia, regge e scuote nelle sue mani. Davanti a lui si decide chi sta
e chi cade, chi è grano buono e chi è pula che il vento disperde.

Ma attenti a non dimezzare il contenuto della profezia cristiana. È
vero che essa consiste essenzialmente nell’annunciare la signoria di
Cristo, ma lui stesso ci ha insegnato che questa signoria è
inseparabile dall’attenzione ai poveri e ai sofferenti. “Lo Spirito del
Signore, diceva, è du di me: mi consacrato con l’unzione per annunziare
ai poveri un lieto messaggio” (Lc 4, 18). Il lieto messaggio è: “Beati
voi poveri perché vostro è il regno di Dio…Ma guai a voi, ricchi perché
avete già la vostra consolazione” (Lc 6, 20.24).

Non possiamo, per scendere al concreto della nostra situazione
italiana, proclamare “Gesù è il Signore!” e poi gridare: “Via da noi
tutti gli extra comunitari!” Non possiamo rimanere insensibili di
fronte allo spettacolo di alcuni pochi fortunati (spesso solo furbi e
spregiudicati) che hanno tutto e ne fanno sfoggio, e di centinaia di
migliaia di famiglie che non hanno di che sfamare i propri figli e si
presentano alla casa del supermercato con un solo pomodoro in mano,
perché è tutto quello che possono permettersi.

È un episodio che ho raccontato altre volte, ma lo ripeto in questa
occasione. Nel 1995 predicavo un ritiro in Messico a quasi duemila tra
vescovi e sacerdoti dell’America latina. In una omelia parlai del
bisogno vitale che la Chiesa ha di profeti. Dopo la comunione ci fu la
preghiera per una nuova effusione dello Spirito. Vescovi, sacerdoti e
laici, a piccoli gruppi pregavano gli uni per gli altri. Io ero rimasto
seduto sul presbiterio. Un giovane sacerdote mi venne incontro, mi si
inginocchio davanti e con uno sguardo che non dimenticherò mai, mi
disse: “Bendígame, Padre, quiero ser profeta de Dios!”, Benedicimi,
Padre, voglio essere un profeta di Dio!”.

Dopo che il profeta Isaia fu purificato dal carbone ardente e riconobbe
di essere un uomo dalle labbra impure, udì una voce misteriosa che
diceva: “Chi manderò e chi andrà per noi?” e ripose senza esitazione:
“Eccomi, manda me!” (Is 6, 4-8). Quell’appello è ancora in atto.
Gridiamo anche noi, ma solo se siamo decisi a prendere sul serio ciò
che diciamo: “Eccomi, Signore, manda me!”.

[1] Lettera ai fedeli, 2 (Fonti Francescane, 180).
[2] J. Sweet, cit. da P. Prigent, L’Apocalisse di S. Giovanni, Borla, Roma 1985, p. 570.
[3] S. Ambrogio, De Spiritu Sancto, III, 112.
[4] Dei Verbum, 21.
[5] Cf. M. Zerwick, Analysis philologica Novi Testamenti Graeci, Romae 1953, ad loc.
[6] W. Shakespeare, Amleto, II, sc. 2.
[7] Filone Alessandrino, Quis rerum, 266 (Les Oeuvres de Philon d’Alexandrie, 15, Parigi 1966, p. 300).
[8] Lumen gentium, 35.
[9] Origene, In Rom. 5,8 (PG 14, 1042).
[10] Presbyterorum ordinis, 2.
[11] Discorso all’udienza generale del 29 Novembre 1972 (Insegnamenti
di Paolo VI, Tipografia Poliglotta Vaticana, X, pp. 1210s.).

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Fonte:
www.cantalamessa.org