VIA CRUCIS Meditata da don L. M. Epicoco

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Grazie alla generosità di una persona che è voluta restare anonima, qui di seguito potete trovare la trascrizione delle meditazioni di don Luigi sulla Via Crucis pubblicate in questi giorni nei diversi video nella sua pagina Facebook, oppure potete scarcare il file Word da questo link.

VIA CRUCIS

Meditata da don L. M. Epicoco

 

Prima sosta

SENTIRSI SOLI

Dal Vangelo secondo Matteo

Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani, e disse ai discepoli: “Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare”.  E, presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia. E disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me”. Andò un poco più avanti, cadde faccia a terra e pregava, dicendo: “Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!”.

 La solitudine è una di quelle esperienze umane indescrivibili. Solitamente ci sentiamo soli proprio perché certe volte ci mancano anche le parole per poter raccontare quello che stiamo vivendo. E nella solitudine abita anche l’angoscia, la paura. Il Vangelo ci racconta che Gesù ha provato tutto questo. Gesù sa. Questa è una cosa molto importante perché forse non abbiamo difficoltà ad ammettere che Lui è il Figlio di Dio, ma delle volte pensiamo che non è veramente uomo, che non conosce le cose da dentro, così come le viviamo noi. Gesù conosce benissimo l’ora buia della solitudine e dell’angoscia, sa come ci si sente quando non ci si sente compresi dagli altri, quando nonostante lo sforzo delle persone che ci stanno di fianco sia quello di esserci accanto, noi ci sentiamo comunque soli. Gesù cerca di tirare nella sua solitudine Pietro, Giacomo e Giovanni. Ha bisogno di loro, ha bisogno di questi amici. E i suoi amici dormono, si addormentano. Allora la solitudine di Gesù diventa una paura tremenda: la paura della morte, la paura della sofferenza. Ed è così grande questo dolore che lui prova dentro di sé che suda sangue.

C’è una disperazione che Gesù prova in quel momento, Lui che è il Figlio di Dio sa come si sente un uomo o una donna quando non trovano vie d’uscita, quando toccano con mano cosa significa avere a che fare con la morte o la paura. Gesù conosce tutto questo, per questo può comprendere la nostra solitudine. Per questo la notte del Getsemani è una notte che contiene una nuova novella. Soltanto chi ci è passato può capire l’inferno, e Cristo per amore nostro attraversa questo inferno, ma non lo attraversa con gli effetti speciali della divinità, ma con tutta la fragilità e la debolezza del suo essere veramente uomo. Nella tradizione cristiana noi volgiamo costantemente lo sguardo alla passione di Cristo, non semplicemente perché non conosciamo la storia (sappiamo benissimo la storia, ne conosciamo tutte le pieghe, i risvolti, sappiamo anche come finisce questa storia), ma ricordarci questa storia, spostare il nostro sguardo su questa storia ci dà consolazione, perché si crea sempre una grande solidarietà tra persone che hanno vissuto la stessa sofferenza. Cristo per rendersi solidale con la nostra sofferenza non ce la spiega. Si carica di quella sofferenza, la vive Lui in prima persona. Allora pensare a quei momenti bui in cui ci sentiamo così soli, in cui non troviamo più le parole, in cui anche gli amici, le persone che ci vogliono bene sono addormentati, o semplicemente non hanno gli strumenti per esserci accanto… Quanta rabbia e quanto rancore noi accumuliamo perché pensiamo che gli altri non riescono a fare niente per noi, ma a volte una persona per quanto possa volerti bene non ha tutti i mezzi per poter esserti utile in quel momento. E se siamo capaci di perdonare è perché ci ricordiamo di Cristo. Perché ci ricordiamo come ci si sta in quella solitudine, come si vive quell’angoscia e quella paura. Cristo non ci ha liberati dalla paura, ma ci ha liberati dalla paura di avere paura. Cristo ci ha detto che c’è un modo esatto di vivere un’ora del genere. È l’ora in cui non si comprende, è l’ora in cui si dice a Dio quello che secondo noi è la via d’uscita. “Se è possibile allontana da me questo calice”. 

Ma Gesù conclude la sua preghiera dicendo: “Non come voglio io, ma come vuoi Tu”. E la sua non è sottomissione, è fiducia. Come si rischiara il buio della nostra solitudine quando le nostre preghiere che a volte sono preghiere disperate, si concludono con questo atto di affidamento. 

Signore io non capisco perché sto vivendo questo. Non capisco perché la nostra famiglia è arrivata a questo punto. Non capisco perché non troviamo vie d’uscite. Se puoi cambia. Tu puoi cambiare tutto, tu puoi risolvere tutto, tu puoi guarire questa persona, puoi guarire me, però non fare secondo quello che penso io. Accasa secondo quello che è la tua volontà, perché io so che la tua volontà è sempre meglio di quello che io penso. La tua volontà possiede il vero bene per la mia vita. 

Soltanto quando nella nostra angoscia troviamo il coraggio di pronunciare la parola “Abba, Padre”, significa che ci stiamo ricordando che se c’è un motivo per cui vale la pena vivere, anche una cosa difficile, anche il buio, la solitudine, l’angoscia, è perché abbiamo un Padre a cui possiamo raccontare tutto. Con cui possiamo anche arrabbiarci, con cui possiamo anche chiedere che le cose cambino. Ma un Padre che ci offre la possibilità di poter fidarci alla fine di questa notte e di poter affidare la nostra notte a qualcuno. Mi piacerebbe dirvi che la fede è qualcosa di luminoso. In realtà la fede serve quando non c’è la luce. La fede è ciò che il Signore ci dà per guidarci nel buio. La fede non è una luce accesa, ma è un senso donato, dentro di noi, è un sesto senso, che ci guida proprio lì dove noi non capiamo e non vediamo. Quando la luce è accesa non c’è bisogno di fede, basta usare la testa, basta usare il buon senso. Ma quando non si capisce più niente nella propria vita solo la fede può salvarci. E non perché è l’ultima via d’uscita umanamente parlando, ma semplicemente perché alla fine di quello che non capiamo, soltanto fidandoci possiamo venirne fuori e possiamo trasformare la nostra vita in qualcosa di umano, nonostante che certe volte le nostre vite sono private di tutto ciò che le rendono degne di essere vissute. 

 

Seconda sosta

IL TRADIMENTO

Dal Vangelo secondo Matteo

Mentre ancora egli parlava, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una grande folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo.  Il traditore aveva dato loro un segno, dicendo: “Quello che bacerò, è lui; arrestatelo!”.  Subito si avvicinò a Gesù e disse: “Salve, Rabbì!”. E lo baciò.  E Gesù gli disse: “Amico, per questo sei qui!”. Allora si fecero avanti, misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono.

La cosa che brucia di più di questo racconto non è il tradimento di Giuda. Se questa cosa fosse la cosa più importante dovremmo scandalizzarci anche del tradimento di Pietro, dei nostri tradimenti costanti. La cosa che brucia di più in questo racconto è un dettaglio che non è di poco conto, è in un bacio. Quel bacio brucia tantissimo in questo racconto, perché il bacio dice un’intimità e Giuda sceglie quell’intimità per tradirlo. La rabbia e l’odio nascosto che tante volte noi riserviamo a Giuda, sono una rabbia e un odio nascosto nei confronti di noi stessi, anche se non lo sappiamo, è qualcosa che ci accade inconsciamente. Giuda è il capro espiatorio, in realtà, di tutta quella parte di noi che non ci piace, di tutta quella parte di noi che sa essere capace di tradire. Ma è nella qualità di questo tradimento la cosa che fa più male, perché Giuda sceglie un bacio per tradire Gesù. Sapete cosa significa? Che non è l’intimità con Cristo che ci tiene al sicuro e basta. “Sai io vado a messa, mi accosto alla comunione, ai sacramenti, ascolto la parola, prego, dico il rosario…”. Questa è una garanzia che sono dalla parte giusta, ma no. Quest’uomo ha frequentato per tre anni, notte e giorno, Gesù Cristo. Ha sentito le sue parole, ha mangiato dei pani moltiplicati, ha visto risorgere Lazzaro, il figlio della vedova di Nain, lo ha visto pregare. E tante altre cose che il Vangelo non ci ha raccontato Giuda le ha viste, le ha toccate, ne ha fatto esperienza. Lui era un intimo. Lui era un praticante.

Basta praticare il cristianesimo per dirci dalla parte giusta? Giuda ci dice di no. E sappiate che quando il tradimento viene da noi che dovremmo essere i praticanti, gli intimi, il nostro tradimento fa più male, perché assume il contorno dell’ipocrisia. Indossiamo un’intimità ma nel cuore lo tradiamo. Sapete, il tradimento di Giuda non è un tradimento diabolico nel senso astratto del termine: Giuda che odia Gesù allora lo consegna… No, non odia Gesù, semplicemente Giuda tradisce Gesù perché frequenta Gesù in intimità, ma ragiona alla maniera del mondo. Giuda vuole usare Gesù per debellare i romani. Questo è il suo pensiero. E deve provocare Gesù affinché si manifesti come Messia, affinché realizzi la preghiera di essere liberati dai romani. Vorrei dirvi che noi tradiamo Gesù con i nostri peccati. Sì, è vero, ma attenti: guardate che noi tradiamo Gesù non tanto con i nostri peccati, non innanzitutto, ma quando nonostante siamo cristiani, preghiamo, frequentiamo i sacramenti, ascoltiamo la Parola, ripetiamo le Ave Marie, il nostro modo di pensare è un modo di pensare mondano, è del mondo.

Ed è bello pensare che accanto a questo bacio, potremmo accostare un altro racconto del Vangelo, è il racconto in cui Cristo dà il primato a Pietro. “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno mai su di essa”. E Gesù si sente rasserenato che almeno uno, uno, anche se non è la sua carne e il suo sangue che glielo hanno rivelato ma è il Padre che è nei cieli, uno lo sa, uno ha detto la cosa giusta, l’ha detta bene. E allora abbassa le difese e racconta che Lui dovrà arrivare a Gerusalemme, essere rigettato dagli anziani, dai sacerdoti, soffrire, morire. E Pietro prende sotto braccio Gesù e lo rimprovera: “Non devi fare questi discorsi, sono cose bruttissime quelle che tu dici. Che cosa è ‘sta morte, ‘sta sofferenza? No!”. Quello stesso Cristo che pochi minuti prima aveva detto “tu sei Pietro”, a quest’uomo dice: “Vade retro satana, perché tu mi sei di scandalo, mi sei d’intralcio, mi sei da ostacolo, perché non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini”.

Io credo che la lezione di Giuda e di Pietro sia un esame di coscienza profondissimo innanzitutto per noi che siamo in questa bellissima cattedrale, noi che abbiamo l’opportunità di baciarlo, anzi vorrei dire di sorpassare anche la soglia del bacio. Noi Gesù lo mangiamo: non lo baciamo, non ci limitiamo ad adorarlo. Entra dentro di noi attraverso l’Eucarestia. Fratelli miei, noi non siamo al sicuro, perché i sacramenti non sono amuleti, non basta dire: “Ho preso l’Eucarestia e questo mi tiene al sicuro”. No! Se non ci convertiamo. Se non convertiamo la nostra mentalità, se non abbandoniamo i ragionamenti del mondo, se non cominciamo a pensare da Dio. Perché uno che ha cambiato davvero vita, uno che si è convertito, non è uno che non sbaglia, ma uno che ragiona come ragiona Dio. Questa è una cosa che possiamo solo imparare e portarla fuori, e dire: il mondo come tratta la sofferenza? La mette da parte, in periferia. E Cristo? Cristo mette al centro le persone malate. Il mondo come tratta la povertà? La nasconde. E Cristo? Cristo si occupa dei poveri. Il mondo come tratta i problemi in una famiglia? Attraverso le recite, le machere. Cristo chiama per nome i demoni, li scaccia. Ragionare cristianamente significa ragionare come Cristo e questo io credo sia la cosa più grande che noi possiamo fare mentre ci diciamo intimi.

La fede viene dall’ascolto, non dai baci. Possiamo baciare all’infinito Cristo, possiamo avere all’infinito una pratica cristiana, ma senza un vero ascolto e un cambiamento del nostro modo di pensare noi siamo semplicemente dei Giuda attrezzati, pronti a colpire. Senza rendercene conto infliggiamo a Cristo un’altra sofferenza come quella di Giuda, perché è la sofferenza di chi approfitta di quella vicinanza, ma la ignora completamente in termini di scelte, di vita, di ragionamenti.

Credo che tutti insieme dobbiamo chiedere al Signore non tanto di non farci essere traditori, come Pietro e come Giuda, delle nostre scelte, ma soprattutto di morire innanzitutto i nostri modi di ragionare, i nostri ragionamenti, la nostra visuale del mondo. Questo è un dono che si riceve soltanto a patto di essere umili, a patto di comprendere che noi non smettiamo mai di imparare che cosa significa ragionare come Cristo ragiona ed è l’unico valido motivo per cui andiamo a Messa la domenica. Perché se qualcuno di noi viene a Messa la domenica perché è un precetto e basta, questo non ci salva. Un giorno quando ci troveremo davanti al Signore ci sentiremo dire: “Non ti conosco”.

“Ma Signore io andavo a Messa alla cattedrale di san Lorenzo a Bruxel, hai presente quella facciata bellissima con i marmi bianchi e rosa?”

“La cattedrale me la ricordo, ma tu no!”.

Perché ciò che ci rende cristiani, dice Cristo, è chi ascolta la Parola e la mette in pratica. Quel Giuda che è nascosto dentro di noi, lo si combatte soltanto a patto che noi capiamo che cristiani si è non perché si frequenta Cristo ma perché lo si ascolta e si mette in pratica quello che ci dice.

 

Terza sosta

IL CIRENEO

Dal Vangelo secondo Matteo

Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a portare la sua croce.

Oh, se si potesse correggere il Vangelo, quante cose dovremmo rettificare! Perché si spera sempre ci siano dei refusi, parole che sono scappate mentre qualcuno scriveva. Ad esempio quanto sarebbe bello cancellare “costrinsero un tale che passava…”. Quanto più bella e romantica è l’idea invece che Simone di Cirene dice: “Ma no, poveretto, lo aiuto io! Lo aiuto io, povero Gesù, che è schiacciato dalla croce. Vengo io! Lo aiuto io!”. Il Vangelo ci dice che costrinsero un tale che passava a portare la croce di Gesù. E questo per un motivo molto semplice: la maggior parte del bene che il Signore ci chiede di fare, noi non riusciamo a riconoscerlo immediatamente. Lo viviamo sempre come una costrizione. A volte siamo costretti a occuparci di qualcuno, costretti ad affrontare un problema, costretti ad aver cura di qualcuno che è schiacciato da una croce. Se potessimo scegliere sceglieremmo un’altra vita, non quella in cui ci sentiamo carcerati perché siamo ostaggio della croce anche di qualcun’altro, non soltanto della nostra. Non meravigliatevi se certe volte ci sentiamo costretti o in gabbia o carcerati. Si può diventare dei buoni cirenei anche se a volte ci si sente costretti, ma in quella costrizione, in quel prendersi la responsabilità di cose che non abbiamo scelto si compie la santità. Perché la santità non è “mi piace fare il bene”. La santità è accogliere quello che la vita ci riserva, nonostante che le cose che la vita ci riserva, per la maggior parte noi non le abbiamo scelte. E sono lì presenti. Avremmo scelto forse figli migliori, famiglie migliori, un padre migliore, una madre migliore, avremmo scelto la salute invece della malattia, avremmo scelto di avere un buono stipendio invece di essere disoccupati, di abitare in un posto invece che in un altro. Sì, sono tutte le nostre vite ipotetiche, ma non sono le nostre vite, perché la nostra vita è questa: imperfetta, contraddittoria, piena di cose che non ci siamo scelti, eppure siamo chiamati a farci santi lì, nelle cose che non abbiamo scelto. Siamo chiamati a farci santi in una vita in cui ci sentiamo costretti. Il Vangelo ci dice questa parola per dirci che ci si può far santi pur sentendo che la vita a volte ci sta stretta, che ci costringe, che ci soffoca. Eppure in questa storia, mi piace sempre ricordare che tutto il cammino di Gesù, quella che noi chiamiamo la Via Crucis, la via della croce, la via che lo porta fino alla morte è costellata di gente inutile. Come Simone di Cirene. Come la Madonna. Personaggio inutile. Come San Giovanni. Personaggio inutile. Come Maria di Cleofa, Maria di Magdala… personaggi inutili. Sapete perchè inutili? Perchè non salvano la vita a Gesù. Eppure è grazie a loro che quella via, quella via dolorosa, quella via della croce, non è disumana. Non sono utili nel senso che non risolvono il problema di Cristo, ma restano nella vita di Cristo in quel momento difficile, non avendo nessuna soluzione, offrendo la loro inutilità rispetto a una soluzione, e ci insegnano una santità bellissima: è la santità di essere servi inutili.

A volte come cristiani pensiamo che dobbiamo avere la soluzione a tutto, che dobbiamo risolvere i problemi delle persone. Molto spesso noi non possiamo risolvere i problemi di nessuno, perché molto spesso non riusciamo a risolvere nemmeno i nostri di problemi. Ma la santità che ci insegna il vangelo è saper restare – anche a volte inutilmente – nella sofferenza degli altri, nella vita degli altri, nelle vie crucis delle persone che ci stanno accanto. La santità di quest’uomo è portare un po’ la croce di Cristo, anche se non gli salva la vita. La santità di Maria è rimanere confitta sotto quella croce, anche se non gli salva la vita. La santità di Giovanni è raccogliere le parole di un moribondo, di Gesù sulla croce, lì, anche se non gli salva la vita. Non siamo chiamati a salvare gli altri. Ma a esserci nella vita degli altri. Questa è la santità inutile e meravigliosa di Simone di Cirene, di Giovanni, nella Madonna… perché c’è un modo altro di dire inutile: è gratuito. Il loro modo di stare nella sofferenza di Cristo è gratuito, non ha nessun guadagno, non porta a nulla, è gratis. E l’amore vero è sempre inutile, cioè, è sempre gratuito, è sempre gratis, è sempre uno spreco agli occhi del mondo. Come cristiani dobbiamo imparare forse di nuovo questo spreco, questa gratuità, questo amare inutilmente, amare senza avere la pretesa di risolvere la vita delle persone. E reimparare quella parola che Maria pronuncia all’inizio della storia della salvezza: il nostro eccomi, il nostro esserci. 

 

Quarta sosta

IL BUON LADRONE

Dal Vangelo secondo Luca

Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!”. L’altro invece lo rimproverava dicendo: “Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male”. E disse: “Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno”. Gli rispose: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso”.

Non sappiamo molto di questo personaggio che affettuosamente chiamiamo “il buon ladrone”. Siamo certi però che era un ladro e lo sappiamo per certo perché ha avuto la capacità di rubare il Regno di Dio all’ultimo momento, morendo sulla croce accanto a Gesù, ed è l’esempio più bello di cosa dovrebbe essere un cristiano. Un cristiano non è uno che nega la propria miseria, la propria storia. Fratelli miei, molte cose che abbiamo fatto nella vita non possiamo più aggiustarle; alcune cose che abbiamo rotto non possiamo più metterle insieme; la stragrande maggioranza di quello che abbiamo vissuto a volte è irreversibile. Ha ragione questo ladro buono a dire che certe volte ci troviamo sulla croce per giusta condanna, seppure è vero che la croce rimane un mistero. Ma che cos’è uno che ha conosciuto la misericordia di Dio? Chi è il “misericordiato”, per usare questa parola così cara a papa Francesco? È uno che si è convertito, e che significa che si è convertito? Guardate che è facilissimo convertirsi quando stai per morire e sei appeso sulla croce. Ti dici: “Guarda, da questo momento in poi voglio essere molto buono.” Ma la conversione non è in termini morali, non è innanzitutto fare il bene. Sì, è anche questo, ma la conversione – lo dicevamo anche prima quando parlavamo di Giuda – è cambiare il punto di vista, la visuale. Quest’uomo si salva perché ha il coraggio di spostare il suo sguardo dalla sua miseria a Cristo. Le sue parole dicono una professione di fede bellissima, che potremmo tradurre così: per quanto io abbia sbagliato, tu Gesù sei più importante, Tu vali di più. L’altro ladro che è arrabbiato, che è rancoroso, è perché ha gli occhi fissi sulla sua storia, non riesce a guardare nient’altro che la sua storia, ed è arrabbiato. Manifesta quella rabbia e quell’odio nei confronti di Cristo perché è arrabbiato con sé stesso forse. Uno ha incontrato la misericordia quando ha smesso di guardare la propria miseria e ha cominciato a guardare l’amore di Cristo. L’argomento più interessante per un cristiano non è la cronologia dei propri peccati, ma è Cristo, Gesù. Non so se ci avete mai riflettuto, ma nella maggior parte dei passi del Vangelo, quando la gente si rivolge a Gesù lo chiama Maestro, Rabbì, Signore. Quest’uomo nella sua semplicità gli dice semplicemente “Gesù”, va al cuore delle cose, riesce a capire che uno cambia vita quando si rende conto che Cristo è sempre più grande della nostra storia, Cristo è più grande dei nostri sbagli, Cristo è più grande di quello che abbiamo rotto, Cristo è più grande di quello che non possiamo più aggiustare, Cristo è più grande. Noi invece facciamo confessione di fede ai nostri peccati e certe volte diciamo che siamo indegni, che è un modo altro di dire che il nostro Dio è la nostra storia, non il Dio di Gesù Cristo. 

Non si può perdonare uno che non si perdona. Non si può perdonare uno che non accetta di essere perdonato. Questa è la bestemmia contro lo Spirito Santo, perché non si accoglie qualcosa che ci vuole essere donata con una gratuità assoluta e con il ristabilire il primato: per quanto possiamo essere state le persone peggiori al mondo, Cristo è più grande. A chi vuoi credere? Alla tua storia sbagliata o a Lui? Se vuoi credere alla tua storia sbagliata sappi che morirai così: arrabbiato, rancoroso, triste, angosciato, incattivito. Io sono sempre dell’idea che nessuno nasce cattivo, nessuno è cattivo, però ci si incattivisce a volte nella vita. A volte è una sofferenza che stiamo vivendo che ci incattivisce; a volte sono le situazioni che non ci siamo scelti e che ci capitano addosso, che ci girano intorno, che ci incattiviscono; ma quel diventare cattivi non viene tanto dal fatto che facciamo cose sbagliate, ma che teniamo gli occhi fissi solo su di noi, sulle nostre capacità, sulla nostra polvere, sulla nostra miseria. Non so se vi siete accorti, ma la nostra vita non è interessante, e non so voi ma io da prete, e credo anche gli altri confratelli presenti, sentiamo sempre una frase, e forse la diciamo anche noi quando ci andiamo a confessare: “Padre, io faccio quasi sempre gli stessi peccati”. Quanto siamo monotoni: combattiamo quasi sempre con le stesse cose, perché quelli siamo. Non c’è niente di interessante nei nostri peccati. Ricordatevi che il male è ripetitivo. Se c’è una novità questa è l’amore, l’amore di Cristo: “Non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa”, che belle queste parole che diciamo nella Messa. È un po’ come voler dire al Signore quello che dovremmo fare noi: aiutaci a non guardare più i nostri peccati, aiutaci a guardare il tuo amore. Questo ci salva. Questo fa rivolgere a ciascuno di noi parole piene di vita eterna, parole che spiegano che cosa è la misericordia. “Gesù – dice questo ladro buono – ricordati di me”. Credo che non ci sia preghiera più sintetica e più bella: “Ricordati di me”. Egli rispose: “In verità ti dico oggi stesso sarai con me in Paradiso”.

 

Quinta sosta

LA CROCIFISSIONE

Dal Vangelo secondo Matteo

A mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio.  Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: “Elì, Elì, lemà sabactàni?”, che significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.  Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: “Costui chiama Elia”.  E subito uno di loro corse a prendere una spugna, la inzuppò di aceto, la fissò su una canna e gli dava da bere.  Gli altri dicevano: “Lascia! Vediamo se viene Elia a salvarlo!”. Ma Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito.

È sempre molto difficile aggiungere parole a questo forte grido di Cristo. È il grido di una fine, o forse di un inizio. Quando un bambino nasce grida, piange, perché inizia a respirare. Questo Vangelo finisce con un grido, e ci dice che Gesù spirò. È un movimento del nostro respiro. Eppure la morte di Gesù sulla croce ci ricorda che lui ha occupato l’ultimo posto. Non c’è nessuno più lontano da Dio Padre di Gesù Cristo. Nessuno. Lui è sceso fino all’ultimo posto, nessuno di noi può più dire di essere l’ultimo. Nessuno di noi può dire di essere più solo, perché Gesù ha occupato l’ultimo posto. “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”. Sono le parole di uno che è lontano, di uno che sente che il Padre è lontano. Di uno che sente sopra di sé non l’eroismo della croce, ma il fallimento della croce. Gesù Cristo non è un eroe greco che sale impavido sul legno della croce. Ma è un uomo che vive l’angoscia e la paura della morte e con mitezza e mansuetudine stende le sue braccia su quella croce ed è disposto a provare la solitudine più grande di tutte, che è la solitudine della morte. Quell’ora in cui nemmeno le carezze delle persone che ci amano possono raggiungerci. C’è un momento in cui siamo davvero soli. Gesù ha distrutto questa solitudine radicale che è presente dentro ciascuno di noi. Lui è l’ultimo. Noi possiamo solo essere penultimi, ma mai ultimi. Se c’è un posto diverso, nella storia, un luogo teologico di distanza dal Padre, questo posto lo ha riempito il Figlio. E da quel momento in poi il Padre e il Figlio in un grande abbraccio d’Amore hanno chiuso tutto. Non c’è niente lontano da Dio che non sia abbracciato da questo abbraccio dato dal Padre e dal Figlio obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo non siamo soli, mai. Per questo aveva ragione papa Benedetto quando ci diceva che chi crede non è mai solo. Noi non siamo soli mai, anche quando ci sentiamo soli, ma quello è il sentimento dell’assenza, non è l’assenza. A volte essere cristiani vuol dire ricordarsi delle cose quando ne sentiamo altre. Ricordarsi che non siamo soli quando ci sentiamo invece soli. Ricordarsi che non siamo così lontani da casa, perché c’è uno che è ancora più lontano, che è all’ultimo posto, che è il figlio. È lui che chiude la fila. È lui che si mette tra noi e il vuoto più assoluto. Dov’è o morte la tua vittoria? Dov’è? 

Eppure la viviamo questa morte, eppure viviamo questa solitudine, questa angoscia, ancora sentiamo nelle nostre orecchie il grido di questo crocifisso perché Gesù continua ad essere crocifisso nelle nostre croci, continua a morire nelle nostre morti. E questo perché nessuno di noi si dica solo. Io credo che sia la più bella notizia di tutto il Vangelo, la più bella notizia e ce n’è una sola più grande, che è la Resurrezione, ma la più grande notizia è che Gesù ha riempito di compagnia la nostra solitudine. Nessuno di noi è solo. E quando alziamo lo sguardo verso il crocifisso sappiamo che c’è sempre qualcuno dietro le nostre spalle, qualcuno che ha deciso di coprirci queste spalle, qualcuno che ha scelto appositamente quell’ultimo posto, quando nemmeno l’Amore di chi ci sta accanto può raggiungerci, quella è l’ora in cui Gesù Crocifisso è l’unica vera nostra compagnia. Quel Gesù trafitto, quel Gesù piagato, quel Gesù confitto è nascosto misteriosamente dentro la nostra vita e dentro le nostre croci, così come sacramentalmente e misteriosamente è nascosto nel pane eucaristico. Quando prendiamo quel pezzo di pane e diciamo “il corpo di Cristo” che cosa vedono i nostri occhi? Pane. Che cosa sente la nostra bocca? Pane. La nostra fede sa che in fondo, nella sostanza si quel pane, è realmente presente Gesù. Che cosa vede il mondo quando vede qualcuno che soffre? Che cosa vede il mondo quando vede qualcuno in un letto di ospedale? Che cosa vede il mondo quando vede qualcuno in carrozzina? Che cosa vede il mondo quando vede me, che vivo una vita piena di tanti problemi, magari? Una vita dove non riesco a trovare vie d’uscita? Vede il fallimento, vede la fragilità, vede l’uomo, vede la sua miseria. Ma la nostra fede ci ricorda che al fondo di quello che noi vediamo è nascosto lui, Gesù crocifisso. non siamo soli, mai. E questa è la memoria che ci salva nell’ora in cui ci sentiamo soli. 

 

Sesta sosta

EMMAUS

Dal Vangelo secondo Luca

Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, 14 e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. 15 Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. 16 Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. 17 Ed egli disse loro: “Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?”.

Abbiamo deciso di concludere la meditazione, lo sguardo sulla passione di Cristo raccontando questi racconti della Risurrezione cosi come Luca ce ne dà traccia.

 È sempre molto più facile credere alla morte che alla vita. I nostri occhi riescono ad accettare di più Gesù Crocifisso di Gesù Risorto. Per noi è più semplice piangere con la Maddalena fuori dal sepolcro, è più facile aggrapparci, baciare, sostare, vegliare, pregare fuori dal sepolcro che accettare che quel sepolcro è vuoto. Perché la Resurrezione significa innanzitutto che non c’è lì, dove noi crediamo che il Signore sia. Non è lì dentro. E che la più bella notizia della Pasqua è che quando accade la Pasqua non lo sa nessuno. Tutti sono convinti, assuefatti, segnati dal Venerdì Santo, tutti hanno ancora impressa nella memoria la sua morte violenta, il suo grido sulla croce. Chi lo ha accompagnato fino alla fine ha ancora davanti agli occhi la pietra rotolata davanti all’ingresso di quel sepolcro. Eppure Gesù all’alba di Pasqua, quando risorge nessuno lo sa. È Pasqua e non lo sa nessuno! Tutti sono convinti della croce ma nessuno sa che è già Pasqua. Se ne accorgeranno dopo, molto dopo, un po’ alla volta.

Ed è bello pensare che noi che oggi abbiamo nella nostra vita, per quello che stiamo vivendo, gli occhi pieni dei nostri venerdì santo, noi che siamo disposti a credere alle nostre mani oltrepassate da quei chiodi che la vita ci ha riservato, per noi che siamo assuefatti da tutto quel buio, il Vangelo ci dice che è già Pasqua. Ma noi non lo sappiamo, non ce ne accorgiamo. E persino queste donne che vedono Gesù, vengono tacciate di essere delle credulone, un vaneggiamento dice il Vangelo, Non credettero ad essi. È sempre più facile credere a una brutta notizia che ha una buona notizia. E solitamente quando arrivano le buone notizie, e cominciamo a capire che sono vere, le diciamo sottovoce. Il male è convincente, il bene è sempre precario, è la mentalità del mondo. Ma la storia più affascinante è quella di questi discepoli, di questi due giovani che se ne stanno tornando a casa con la coda fra le gambe. Anche loro sono rimasti delusi da questo Rabbi che li aveva affascinati, anche loro forse avevano pensato che in lui c’era una risposta a quell’anelito che sentivano nel cuore. Eppure questo Gesù muore, Crocifisso, in malo modo, fuori dalla città di Gerusalemme, fuori le mura.

E parlano tra di loro, è già bello che sono insieme, ricordatevi che solitamente la sofferenza ci fa scegliere di essere isolati e questi discepoli invece ci insegnano che quando soffriamo dobbiamo imparare a farlo insieme. E che ci fa molto bene parlare tra di noi, di quello che è successo, anche se non abbiamo le chiavi di lettura. E Gesù Risorto, quello che loro credono morto, si accosta a loro e loro non lo riconoscono. Il Vangelo dice: “I loro occhi erano incapaci a riconoscerlo”, lo percepiscono come uno straniero. È bello pensare che Cristo costantemente travestito da straniero – diceva un teologo “travestito da caso” – passeggia dentro la nostra vita, ci fa visita. Noi non lo sappiamo che è Gesù Risorto, ci sembra un evento qualunque, uno qualunque, eppure questo straniero che si fa così vicino, fisicamente vicino ai discepoli, parla con loro, li tocca, fornisce a loro una chiave di lettura e loro si accorgono che questa chiave di lettura è vera perché gli arde il cuore.

È un augurio che voglio fare a me e a ciascuno di voi, forse non siamo ancora capaci di riconoscere la Risurrezione che già è operante in questo momento della storia, nella nostra storia, però ci accorgiamo che la Risurrezione è vera quando troviamo qualcuno che ci riaccende il cuore. E non sappiamo il motivo, non sappiamo dirlo. È come se qualcuno riaccendesse dentro di noi una fiamma che la vita ha spento. Dovremmo essere logicamente rassegnati eppure c’è qualcosa che ci mantiene vivi. Non sappiamo spiegarlo ma lo sentiamo.

Noi diffidiamo molto spesso del cuore, io sono dell’idea che facciamo una grande confusione tra la pancia e il cuore, cioè tra le emozioni e tra il cuore, ma diffidiamo del cuore perché la vita è sempre più concreta del cuore. Ma ricordatevi che certe volte il cuore vede subito e vede più lontano di quanto la nostra testa è capace di fare in quel momento. Che dovremmo forse mettere in pratica quelle bellissime parole di Antoine de Saint-Exupéry , dice che l’essenziale è invisibile agli occhi e non si vede bene se non con il cuore. I nostri occhi sono pieni di tanti ragionamenti rassegnati. “Eh ormai c’è la crisi! La politica? Sono tutti ladri. La chiesa? Non ci sono vocazioni. Problemi a destra e a manca… la città, la parrocchia, la famiglia… Eppure c’è una parte dentro di noi che non sa essere rassegnata. È lì che sta agendo la Risurrezione. È lì che i bagliori di Gesù Risorto cominciano a farsi spazio dentro di noi. E piano piano ci nasce una cosa che solitamente addomestichiamo con gli psicofarmaci, sono le crisi. Non dobbiamo avere paura delle crisi. Non dobbiamo avere paura dei nostri attacchi di panico, della nostra ansia… perché tutto questo ci dice che siamo ancora vivi, vivi a tal punto che stiamo male per le cose. Vivi a tal punto che c’è una parte di noi, tipo la nostra ansia, che ci sta dicendo qualcosa, che sta suonando un campanello di allarme. Solo Cristo è l’unico che può parlare a quell’ansia, a quella paura, a quell’inquietudine. Nasce dentro di noi la nostalgia, la nostalgia di un finale diverso, la nostalgia di un pieno nel vuoto che proviamo, la nostalgia di una risposta alle nostre domande. Cristo è la risposta vera alla nostra nostalgia. Però sapete una cosa? Prima di rispondere a qualunque domanda, Cristo suscita le domande. Se noi soffochiamo queste domande, Cristo per noi è inutile cosi come è inutile la risposta a uno che non ha nessuna domanda.

Non abbiate paura delle crisi, non abbiate paura della vostra nostalgia, del fatto che non siete contenti. Cristo rispolvera tutto questo a patto che ci mettiamo in cammino con Lui. A patto che ci facciamo spiegare le scritture da Lui. A patto che lo tratteniamo. Mane nobiscum Domine, fermati qua, resta con noi Signore! Ed entrando dentro lo costringono alla Messa. Capite? Costringono Gesù alla Messa, qua sembra il contrario che Gesù costringe noi alla Messa. Lo costringono, perché hanno bisogno di Lui. E quando Gesù spezza quel pane, lo riconobbero e scomparve dalla loro vista.

Vorrei concludere proprio cosi, ricordatevi che si diventa dei buoni credenti quando non si vede più Cristo. Si è credenti quando non si ha più bisogno dei segni. Perché quello che abbiamo sperimentato ci ha convinto. Non cerchiamo più prove, certificazioni sulla nostra fede, noi sappiamo che Lui è vivo e sappiamo tornare indietro, sappiamo raccontarlo, sappiamo dirlo persino agli apostoli a Gerusalemme.

“Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme dove trovarono riuniti gli undici e gli altri che erano con loro i quali dicevano: davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone. Ed essi raccontarono loro ciò che era accaduto lungo la via e come lo avevano riconosciuto nello spezzare il pane.”

Perché l’ultimo sintomo vero di ogni Pasqua ricordatevi che è la testimonianza, cioè è l’incapacità a tenere per noi ciò che abbiamo sperimentato vero. E questo non ve lo potrà spiegare nessun prete, nessuna assemblea diocesana, nessun sussidio. La testimonianza di cui parlo è un incontro reale con Gesù Risorto, e questo possiamo solo desiderarlo, chiederlo e lasciarci raggiungere da tutto questo.