Vangelo del giorno – 7 luglio 2017 – don Antonello Iapicca

IL DIGIUNO E’ DOVE LA SPOSA SI DONA ALLO SPOSO CON L’AMORE CHE LA TRASFORMA NELL’AMATO

I discepoli di Gesù non digiunano come gli altri, ma per amore e in libertà. Il digiuno cristiano non è solo una pratica religiosa in vista di una purificazione. Il digiuno dei discepoli di Gesù è memoria. E’ inginocchiarsi dinanzi al Crocifisso e implorare il suo ritorno. E’ una condizione essenziale dell’esistenza, perché digiunare è vivere in pienezza la vita terrena, che è già e non ancora. Lo Sposo è con noi, ma, contemporaneamente, non è qui, perché la pienezza è riservata al Cielo. La terra è un cammino, passi che si susseguono verso la meta, mentre il desiderio di pienezza si acuisce all’avvicinarsi del traguardo. E’ vero che le nostre nozze con il Signore sono indissolubili, eppure vi sono giorni nei quali lo sposo ci è tolto. Allora la vita si addentra nel mistero di una compiutezza pregustata ma non ancora completamente assaporata. E’ il mistero della Chiesa, sposa e vedova allo stesso tempo, che esplode di gioia intorno alla mensa eucaristica, ma che digiuna in attesa del compimento; che prega, perché “la vera vedova mette la sua speranza nel Signore, e persevera notte e giorno nella preghiera e nell’orazione”” (1 Tm 5, 5); che per lo per lo Sposo getta ogni avere, gli spiccioli che ha per vivere, perché Lui è la sua vita. Tutto è per Gesù, perché La Chiesa vive del memoriale del suo Signore, l’eucarestia, presenza viva del suo Sposo amatissimo, talamo casto dove si unisce a Lui; ma sa che la terra è solo un passo al cielo; meraviglioso, perché Lui è con lei tutti i giorni sino alla fine del mondo. Ma resta uno spazio e un tempo che la separa dalle nozze eterne, per le quali sa di essere nata. La vocazione di due ragazzi è il matrimonio, non il fidanzamento; la vocazione di un ragazzo è il presbiterato, non il seminario…. Così, nel mezzo del banchetto pasquale che, rinnovato ogni settimana, anticipa il suo destino eterno, la Chiesa erompe in un grido di nostalgia e speranza: maranathà, vieni, ritorna Signore Gesù. Il digiuno è il nostro maranathà, le lacrime appassionate della Maddalena presso la tomba del suo Signore; è l’attesa fatta preghiera che implora lo Sposo perché torni presto per portarci con Lui, verso il posto che ha preparato per noi. E’ l’offerta dei propri beni per dirgli che non abbiamo alcun desiderio che quello di unirci a Lui per sempre. Presentando il calice nell’ultima cena, Gesù ha detto: «In verità vi dico, non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio» (Mc 14,25). Dopo quella cena, infatti, lo Sposo sarebbe stato “tolto” ai discepoli, inaugurando così il “digiuno” nell’attesa del suo ritorno, quando busserà alla porta dei suoi, per cenare con loro e servirli nell’eterno «banchetto delle nozze dell’Agnello » (Ap 19,9). Il nostro digiuno partecipa così a quello di Gesù. E’ una promessa, un appuntamento d’amore, la speranza di bere con Lui il vino nuovo del Regno di Dio. Per questo San Paolo scriveva che “il morire è meglio del vivere”; chi ha conosciuto Cristo desidera ardentemente il Cielo, la terra gli sta stretta. “Muoio perché non muoio” diceva Santa Teresa d’Avila, e non era disprezzo della vita. Anzi, più si vive intensamente la vita più si desidera addormentarsi per risvegliarsi in Cielo. Più la vita è perduta per amore, più forte è l’ansia d’un amore perfetto e definitivo: “Uomini che hanno in sé un desiderio così possente che supera la loro natura, ed essi bramano e desiderano più di quanto all’uomo sia consono aspirare, questi uomini sono stati colpiti dallo Sposo stesso; Egli stesso ha inviato ai loro occhi un raggio ardente della sua bellezza. L’ampiezza della ferita rivela già quale sia lo strale e l’intensità del desiderio lascia intuire Chi sia colui che ha scoccato il dardo” (N. Kabasilas). Feriti dal dardo d’amore del loro Sposo, illuminati dal bagliore del raggio della sua bellezza, i figli delle nozze vivono un’attesa di pienezza che nulla può colmare. Amare Cristo è l’unica verità, e chi non ama Cristo sia anatema scriveva San Paolo. Perché se hai gustato la dolcezza del suo perdono, la tenerezza della sua misericordia, la cura dei dettagli, la sollecitudine e la provvidenza, la pace e la gioia della sua presenza, se hai davvero sperimentato l’amore di Cristo, e in Lui sei stato rigenerato in una vita nuova, nulla di quella vecchia può farti davvero gola. 

Certo, le tentazioni di tornare indietro a cipolle e agli d’Egitto ci accompagnerà sempre, e la carne ferita dal peccato cercherà la terra perché la concupiscenza è una forza di gravità potente; ma se sei risorto con Cristo cercherai le cose di lassù, dove si trova il tuo Sposo, perché il suo profumo è inebriante e ti ha fatto venire i brividi, e, innamorato, ne seguirai la scia, con il cuore in gola; ti ha messo i brividi la fragranza che ha spanto quando ha salvato il tuo matrimonio, o quando ha aiutato tuo figlio liberandolo da quella situazione difficile, o quando, durante gli anni di crisi, ha provveduto alla tua famiglia non facendole mancare nulla? Se sei stato perdonato e hai sperimentato la bellezza, la pienezza, la pace, la gioia della vita nuova nella libertà dell’amore, cercherai di seguirlo dove Lui è, ti lascerai prendere da Lui che, attraverso gli eventi difficili e di dolore, viene a cercarti ogni giorno per portarti a posto che ha preparato per te. Se ti senti amato da Lui non puoi non dirgli: “Attirami dietro e te, corriamo! M’introduca il re nelle sue stanze: gioiremo e ci rallegreremo per te, ricorderemo le tue tenerezze più del vino. A ragione ti amano!” (Ct. 1,4). Ecco, se la gioia piena è riservata alle stanze del re, se le nozze saranno compiute e consumate solo nell’intimità celeste, allora si comprende come il digiuno sia la condizione del cristiano. Cercare qui, nelle persone e nelle cose, il Paradiso è cucire una toppa di tessuto grezzo su un vestito vecchio; preoccuparsi idolatricamente del presente e del futuro, significa essere ancora schiavo del nemico, desiderare di soddisfare il principe del mondo gettato fuori dal Paradiso, consumare con lui le nozze di morte e corruzione, la passione e l’avidità, la cupidigia e la concupiscenza di cui sono fatti gli “otri vecchi”, nei quali è inutile versare la vita santa e celeste del “vino nuovo” di Cristo. Ma chi ha camminato nella Chiesa sperimentando il suo amore nei fatti concerti della sua vita; chi è “andato” dietro a Lui e “ha imparato cosa vuol dire misericordia io voglio e non sacrifici”, beh è stanco dei sacrifici, degli sforzi, desidera abbeverarsi a sazietà alle fonti della Grazia. La sua vita è un “otre nuovo”, costruito con una mentalità rinnovata, con il discernimento e la sapienza, che sa leggere in tutto ciò che gli accade il digiuno che lo separa dal Cielo; il dolore ad esempio, è l’occasione per pensare desiderare le cose di lassù; un’umiliazione? è una carezza dello Sposo che ti vuole per sé, e ti impedisce di dare il tuo cuore a un altro, purificandolo. Per questo, quando più intensa è l’esperienza della sofferenza e la presenza assoluta dello Sposo è questione di vita o di morte, quando siamo incastrati sul legno della Croce, è naturale digiunare. Non mangiare, non fumare, non parlare, non è così solo una pratica ascetica per ingrassare l’uomo vecchio che fa anche della religione qualcosa di carnale. Digiunare è un’esigenza, un grido dalla Croce, l’eco stesso delle parole del Signore Crocifisso: “Dio mio, Dio mio, Sposo mio perché mi hai abbandonato?”. Il digiuno sono le lacrime che sperano il suo amore. E’ questa l’ascesi, l’ascesa al trono di misericordia che sappiamo non deludere mai. Digiunare è lasciare che la verità prenda il posto delle menzogne, delle fughe e delle alienazioni. La fame che il digiuno suscita è la verità, la nostra realtà, nella quale il Corpo benedetto e risorto del Signore è l’unico vero cibo capace di saziarci. Digiunare è spogliarci in attesa d’essere una sola carne redenta con il nostro Sposo, nell’ansia del santo e castissimo amplesso, quell’amore eterno per il quale siamo stati creati. E’ la novità della vita nuova, di un rapporto nuovo con Dio, non più basato sul timore ma sull’amore. Un “abito nuovo”, una nuova forma di vita. Un “vino nuovo”, una festa e un’allegria nuove che scaturiscono dall’amore. Digiunare in ogni relazione, a casa, al lavoro, nei rapporti d’amore, ovunque, significa non chiedere agli altri quella pienezza che non possono darci; digiunare dalla comprensione, dall’accoglienza, dalle parole quando divengono ingombranti ed inutili, germe di polemica e litigi sterili; digiunare dall’affetto che la nostra carne reclama, guardando e vivendo ogni relazione nell’orizzonte del Cielo, nella consapevolezza che sulla terra la debolezza della carne ci fa vedove cui è stato sottratto lo sposo: quando l’altro si fa ostile e non corrisponde a quanto desidereremmo, o quando ci stringe la tentazione di appropriarcene attraverso la sessualità, il digiuno è l’unica via, la verità sulla nostra e l’altrui vita, il perimetro dell’incompiutezza che ci fa vigili, prudenti, casti e sobri. Anche se felicemente sposati, siamo vedove, il nostro vero Sposo non è qui, ci precede in Galilea, in un costante più in là che ci fa uscire da noi stessi per donarci senza riserve nell’attesa della pienezza che solo in Lui potremo trovare. Le persone che ci sono accanto, anche quelle a cui abbiamo consegnato la nostra vita sacramentalmente, sono immagine e presenza di Cristo, ma circoscritte nei limiti della carne. Digiunare è avere e fare memoria di questa realtà. Per questo, il digiuno è amore all’altro, così come è, nel rispetto, pazienza e misericordia. Digiunare è la radice di ogni rapporto vissuto nell’autenticità e nella libertà, segnato dal già e non ancora, la nostalgia struggente di chi cerca Cristo, unico e vero Sposo capace di rispondere pienamente ad ogni desiderio. Digiunare è la sapienza che ci slega dalle catene affettive che scambiano il Creatore con la creatura, per vivere ogni momento della nostra esistenza con la pace e la misura, la libertà e la moderazione che non fa di ogni relazione un assoluto, ma che in tutto attende, dal Cielo, il compimento. E’ questo “l’abito nuovo” dei figli di Dio, il “vino nuovo” delle nozze con cui Cristo sposa ognuno di noi. Per questo, digiunare è obbedire a Gesù, che, per l’intercessione materna di Maria nostra Madre e immagine della Chiesa, anticipa qui sulla terra la sua “ora” celeste. Oggi è l’ora di Gesù; nella situazione in cui siamo, ancora una volta, nella Chiesa, ci dona di gustare il suo Mistero di Pasqua, un frammento prezioso della sua Croce e resurrezione. Ma occorre obbedire, che è l’amore più vero: e digiunare, ovvero mettere nelle giare della Chiesa attraverso i sacramenti, l’acqua della nostra povertà e debolezza, della situazione in cui siamo. Digiuniamo allora, smettiamola di cercare la gioia nell’acqua di passioni, gelosie e compromessi affettivi, la bellezza indossando vestiti vecchi di rancori e invidie. Buttiamola quest’acqua in Cristo, digiuniamo seriamente dai pensieri e dalle parole che ci insinua il demonio, e spogliamoci dell’uomo vecchio per indossare l’abito nuziale, lavato nel sangue dell’Agnello.

La vita di un buon cristiano è tutta un santo desiderio. Ma se una cosa è oggetto di desiderio, ancora non la si vede, e tuttavia tu, attraverso il desiderio, ti dilati, cosicché potrai essere riempito quando giungerai alla visione. Ammettiamo che tu debba riempire un grosso sacco e sai che è molto voluminoso quello che ti sarà dato; ti preoccupi di allargare il sacco o l’otre o qualsiasi altro tipo di recipiente, più che puoi; sai quanto hai da metterci dentro e vedi che è piccolo; allargandolo lo rendi più capace. Allo stesso modo Dio con l’attesa allarga il nostro desiderio, col desiderio allarga l’animo e dilatandolo lo rende più capace. Viviamo dunque, o fratelli, di desiderio, poiché dobbiamo essere riempiti. 

Sant’Agostino. Commento alla prima lettera di san Giovanni

Eucharistòmen: in quel momento l’amico [Rupert] Berger voleva accennare non solo alla dimensione del ringraziamento umano, ma naturalmente alla parola più profonda che si nasconde, che appare nella liturgia, nella Scrittura, nelle parole gratias agens benedixit fregit deditque. Eucharistòmen ci rimanda a quella realtà di ringraziamento, a quella nuova dimensione che Cristo ha dato. Lui ha trasformato in ringraziamento, e così in benedizione, la croce, la sofferenza, tutto il male del mondo. E così fondamentalmente ha transustanziato la vita e il mondo e ci ha dato e ci dà ogni giorno il pane della vera vita, che supera il mondo grazie alla forza del suo amore. Alla fine, vogliamo inserirci in questo “grazie” del Signore, e così ricevere realmente la novità della vita e aiutare per la transustanziazione del mondo: che sia un mondo non di morte, ma di vita; un mondo nel quale l’amore ha vinto la morte.

Benedetto XVI nel 65simo anniversario della sua ordinazione presbiterale

don Antonello Iapicca

LEGGI IL BRANO DEL VANGELO

Mt 9, 14-17
Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù i discepoli di Giovanni e gli dissero: «Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?».
E Gesù disse loro: «Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno. Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo porta via qualcosa dal vestito e lo strappo diventa peggiore. Né si versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si spaccano gli otri e il vino si spande e gli otri vanno perduti. Ma si versa vino nuovo in otri nuovi, e così l’uno e gli altri si conservano».

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

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