UDIENZA GENERALE – Aula Paolo VI, 10 Settembre 2008
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- La catechesi di Benedetto XVI all’udienza generale: San Paolo insegna che essere apostoli significa annunciare la “gioia di Cristo” nel mondo, identificandosi con il Vangelo
In precedenza, Benedetto XVI aveva svolto una nuova catechesi su San Paolo, oggi
dedicata in particolare alle caratteristiche del suo essere ‘apostolo’ e
conclusa dall’augurio che i testimoni del Vangelo di ogni tempo siano,
essenzialmente, ‘apostoli della gioia di Cristo’. Il servizio di Alessandro De
Carolis: (Download 00:01:31:30)
- La catechesi di Benedetto XVI all’udienza generale: San Paolo insegna che essere apostoli significa annunciare la “gioia di Cristo” nel mondo (Link all’articolo – Download del file mp3)
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 10 settembre 2008
San Paolo (4)
Cari fratelli e sorelle,
mercoledì scorso ho parlato della grande svolta che si ebbe nella vita di san
Paolo a seguito dell’incontro con il Cristo risorto. Gesù entrò nella sua vita e
lo trasformò da persecutore in apostolo. Quell’incontro segnò l’inizio della sua
missione: Paolo non poteva continuare a vivere come prima, adesso si sentiva
investito dal Signore dell’incarico di annunciare il suo Vangelo in qualità di
apostolo. E’ proprio di questa sua nuova condizione di vita, cioè dell’essere
egli apostolo di Cristo, che vorrei parlare oggi. Noi normalmente, seguendo i
Vangeli, identifichiamo i Dodici col titolo di apostoli, intendendo così
indicare coloro che erano compagni di vita e ascoltatori dell’insegnamento di
Gesù. Ma anche Paolo si sente vero apostolo e appare chiaro, pertanto, che il
concetto paolino di apostolato non si restringe al gruppo dei Dodici.
Ovviamente, Paolo sa distinguere bene il proprio caso da quello di coloro “che
erano stati apostoli prima” di lui (Gal 1,17): ad essi riconosce un posto
del tutto speciale nella vita della Chiesa. Eppure, come tutti sanno, anche san
Paolo interpreta se stesso come Apostolo in senso stretto. Certo è che,
al tempo delle origini cristiane, nessuno percorse tanti chilometri quanti lui,
per terra e per mare, con il solo scopo di annunciare il Vangelo.
Quindi, egli aveva un concetto di apostolato che andava oltre quello legato
soltanto al gruppo dei Dodici e tramandato soprattutto da san Luca negli Atti (cfr
At 1,2.26; 6,2). Infatti, nella prima Lettera ai Corinzi Paolo
opera una chiara distinzione tra “i Dodici” e “tutti gli apostoli”, menzionati
come due diversi gruppi di beneficiari delle apparizioni del Risorto (cfr
14,5.7). In quello stesso testo egli passa poi a nominare umilmente se stesso
come “l’infimo degli apostoli”, paragonandosi persino a un aborto e affermando
testualmente: “Io non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho
perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la
sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io
però ma la grazia di Dio che è con me” (1 Cor 15,9-10). La metafora
dell’aborto esprime un’estrema umiltà; la si troverà anche nella Lettera ai
Romani di sant’Ignazio di Antiochia: “Sono l’ultimo di tutti, sono un
aborto; ma mi sarà concesso di essere qualcosa, se raggiungerò Dio” (9,2). Ciò
che il Vescovo di Antiochia dirà in rapporto al suo imminente martirio,
prevedendo che esso capovolgerà la sua condizione di indegnità, san Paolo lo
dice in relazione al proprio impegno apostolico: è in esso che si manifesta la
fecondità della grazia di Dio, che sa appunto trasformare un uomo mal riuscito
in uno splendido apostolo. Da persecutore a fondatore di Chiese: questo ha fatto
Dio in uno che, dal punto di vista evangelico, avrebbe potuto essere considerato
uno scarto!
Cos’è, dunque, secondo la concezione di san Paolo, ciò che fa di lui e di altri
degli apostoli? Nelle sue Lettere appaiono tre caratteristiche
principali, che costituiscono l’apostolo. La prima è di avere “visto il Signore”
(cfr 1 Cor 9,1), cioè di avere avuto con lui un incontro determinante per
la propria vita. Analogamente nella Lettera ai Galati (cfr 1,15-16) dirà
di essere stato chiamato, quasi selezionato, per grazia di Dio con la
rivelazione del Figlio suo in vista del lieto annuncio ai pagani. In definitiva,
è il Signore che costituisce nell’apostolato, non la propria presunzione.
L’apostolo non si fa da sé, ma tale è fatto dal Signore; quindi l’apostolo ha
bisogno di rapportarsi costantemente al Signore. Non per nulla Paolo dice di
essere “apostolo per vocazione” (Rm 1,1), cioè “non da parte di uomini né
per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre” (Gal 1,1).
Questa è la prima caratteristica: aver visto il Signore, essere stato chiamato
da Lui.
La seconda caratteristica è di “essere stati inviati”. Lo stesso termine greco
apóstolos significa appunto “inviato, mandato”, cioè ambasciatore e
portatore di un messaggio; egli deve quindi agire come incaricato e
rappresentante di un mandante. È per questo che Paolo si definisce “apostolo di Gesù Cristo” (1 Cor 1,1; 2 Cor 1,1), cioè suo
delegato, posto totalmente al suo servizio, tanto da chiamarsi anche “servo di
Gesù Cristo” (Rm 1,1). Ancora una volta emerge in primo piano l’idea di
una iniziativa altrui, quella di Dio in Cristo Gesù, a cui si è pienamente
obbligati; ma soprattutto si sottolinea il fatto che da Lui si è ricevuta una
missione da compiere in suo nome, mettendo assolutamente in secondo piano ogni
interesse personale.
Il terzo requisito è l’esercizio dell’“annuncio del Vangelo”, con la conseguente
fondazione di Chiese. Quello di “apostolo”, infatti, non è e non può essere un
titolo onorifico. Esso impegna concretamente e anche drammaticamente tutta
l’esistenza del soggetto interessato. Nella prima Lettera ai Corinzi Paolo esclama: “Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro?
E non siete voi la mia opera nel Signore?” (9,1). Analogamente nella seconda Lettera ai Corinzi afferma: “La nostra lettera siete voi…, una lettera di
Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio
vivente” (3,2-3).
Non ci si stupisce, dunque, se il Crisostomo parla di Paolo come di “un’anima di
diamante” (Panegirici, 1,8), e continua dicendo: “Allo stesso modo
che il fuoco appiccandosi a materiali diversi si rafforza ancor di più…, così
la parola di Paolo guadagnava alla propria causa tutti coloro con cui entrava in
relazione, e coloro che gli facevano guerra, catturati dai suoi discorsi,
diventavano un alimento per questo fuoco spirituale” (ibid., 7,11).
Questo spiega perché Paolo definisca gli apostoli come “collaboratori di Dio” (1
Cor 3,9; 2 Cor 6,1), la cui grazia agisce con loro. Un elemento
tipico del vero apostolo, messo bene in luce da san Paolo, è una sorta di
identificazione tra Vangelo ed evangelizzatore, entrambi destinati alla medesima
sorte. Nessuno come Paolo, infatti, ha evidenziato come l’annuncio della croce
di Cristo appaia “scandalo e stoltezza” (1 Cor 1,23), a cui molti
reagiscono con l’incomprensione ed il rifiuto. Ciò avveniva a quel tempo, e non
deve stupire che altrettanto avvenga anche oggi. A questa sorte, di apparire
“scandalo e stoltezza”, partecipa quindi l’apostolo e Paolo lo sa: è questa
l’esperienza della sua vita. Ai Corinzi scrive, non senza una venatura di
ironia: “Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo
posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli
angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi
deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. Fino a questo momento soffriamo
la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in
luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo;
perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la
spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti fino a oggi” (1 Cor 4,9-13). E’
un autoritratto della vita apostolica di san Paolo: in tutte queste sofferenze
prevale la gioia di essere portatore della benedizione di Dio e della grazia del
Vangelo.
Paolo, peraltro, condivide con la filosofia stoica del suo tempo l’idea di una
tenace costanza in tutte le difficoltà che gli si presentano; ma egli supera la
prospettiva meramente umanistica, richiamando la componente dell’amore di Dio e
di Cristo: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione,
l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio
come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo
trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che
vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né
morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né
altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di
Dio, in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 8,35-39). Questa è la certezza,
la gioia profonda che guida l’apostolo Paolo in tutte queste vicende: niente può
separarci dall’amore di Dio. E questo amore è la vera ricchezza della vita
umana.
Come si vede, san Paolo si era donato al Vangelo con tutta la sua esistenza;
potremmo dire ventiquattr’ore su ventiquattro! E compiva il suo ministero con
fedeltà e con gioia, “per salvare ad ogni costo qualcuno” (1 Cor 9,22). E
nei confronti delle Chiese, pur sapendo di avere con esse un rapporto di
paternità (cfr 1 Cor 4,15), se non addirittura di maternità (cfr Gal 4,19), si poneva in atteggiamento di completo servizio, dichiarando
ammirevolmente: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo
invece i collaboratori della vostra gioia” (2 Cor 1,24). Questa rimane la
missione di tutti gli apostoli di Cristo in tutti i tempi: essere collaboratori
della vera gioia.
* * *
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In
particolare, saluto i partecipanti al Seminario sulle comunicazioni sociali,
promosso dalla Pontificia Università della Santa Croce, i fedeli della
parrocchia San Giovanni Bosco, in Marconia e i sacerdoti provenienti dalla
Puglia, che ricordano il 45° anniversario di Ordinazione presbiterale. A tutti
auguro di cuore che quest’incontro e la visita alle tombe degli Apostoli
suscitino una sempre più generosa testimonianza evangelica nell’odierna società.
Mi rivolgo infine ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. L’altro ieri
abbiamo celebrato la festa liturgica della Natività della Beata Vergine Maria e
tra qualche giorno celebreremo la memoria del Nome di Maria. Il Concilio
Vaticano II dice che la Madonna ci precede nel cammino della fede perché “ha
creduto nell’adempimento delle parole del Signore” (Lc 1,45).
Per voi giovani chiedo alla Vergine Santa il dono di una fede sempre più
matura; per voi malati, una fede sempre più forte e per voi sposi
novelli una fede sempre più profonda.
[Cari fratelli e care sorelle,
Venerdì prossimo intraprenderò il mio primo viaggio pastorale
in Francia come Successore di Pietro. Alla vigilia del mio arrivo, desidero
rivolgere il mio cordiale saluto al popolo francese e a tutti gli abitanti di
questa amata nazione. Vengo fra voi come messaggero di pace e di fraternità. In
diverse occasioni ho avuto la gioia di recarmi nel vostro paese e di apprezzare
la sua generosa tradizione di accoglienza e di tolleranza, e anche la solidità
della sua fede cristiana e la sua elevata cultura umana e spirituale. Questa
volta il motivo della mia venuta è la celebrazione del centocinquantesimo
anniversario delle apparizioni della Vergine Maria a Lourdes. Dopo aver visitato
Parigi, la capitale del vostro paese, sarà per me una grande gioia unirmi alla
folla dei pellegrini che seguono le tappe del cammino del Giubileo, sull’esempio
di santa Bernadette, fino alla grotta di Massabielle. La mia preghiera diverrà
intensa ai piedi di Nostra Signora per le intenzioni di tutta la Chiesa, in
particolare per i malati, le persone più emarginate, ma anche per la pace nel
mondo. Che Maria sia per tutti voi, soprattutto per i giovani, la Madre sempre
disponibile verso i bisogni dei suoi figli, una luce di speranza che illumini e
guidi i vostri cammini! Cari amici di Francia, vi invito a unirvi alla mia
preghiera affinché questo viaggio rechi frutti abbondanti. Nella felice attesa
di trovarmi prossimamente fra voi, invoco su ognuno di voi, sulle vostre
famiglie e sulle vostre comunità, la protezione materna della Vergine Maria,
Nostra Signora di Lourdes. Che Dio vi benedica!]
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