Sul cammino di Sant’Antonio. Diario di un pellegrino

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Un diario minuzioso, ricco di descrizioni dettagliate, che narra chilometri di cammino solitario, dal Veneto alla Toscana, attraverso oasi naturalistiche, parchi regionali e meraviglie dell’arte. Unici compagni i ricordi che si accavallano, i pensieri e l’enciclica “Laudato si'” di papa Francesco. Il viaggio di un uomo che da “peregrino”, camminando per campi, calcando sentieri e carrarecce, superando torrenti e risalendo cortine montuose, sotto la calura opprimente di una torrida estate, ricerca il senso dell’esistenza nella religione, nella storia, nell’arte e nella natura dell’Italia minore.

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Presentazione di fra Giovanni Voltan

È nel «Cammino di Sant’Antonio» che ho incontrato Giannino ed è nata la stima e l’affetto per l’uomo, il professore, il pellegrino in ricerca di senso. Permettetemi, prima di cedere la parola a lui, alle pagine che seguono, di dire come tutto iniziò. Come sant’Antonio ci fece incontrare. Era l’estate 2011.

Volevo proprio farlo questo cammino. Perché è di sant’Antonio, perché abito a Padova, al Santo, il convento presso la basilica che custodisce il suo corpo. Volevo farlo perché è un cammino nato da pochi anni e bisognava pure che un frate ci andasse. Volevo farlo, ma non da solo per condividere la strada con altri pellegrini. Così, col passaparola, eccoci: Giannino, Andrea, Luisa, Laura B., Laura M. e io, tutti reduci da quel grande imprinting che è El camino de Santiago, nostalgia e ali per altri passi. Ma qui è diverso. Non ci sono gli albergue, né tanti pellegrini. C’è il caldo umido dell’estate padana, zanzare, campagna e poi colline. Insomma, partiamo e vediamo. Sì, dopo la colazione e la preghiera del mattino, ognuno con il suo passo, guardandoci a vista, aspettandoci per due parole, un caffè, il panino di mezza giornata, l’ennesimo furto di frutta, lo stare insieme per la cena.

Già, ma chi è sant’Antonio e che cosa è quell’eremo sperduto verso cui siamo diretti: Montepaolo? In che provincia è?

Lungo la via racconto un po’ di frate Antonio: portoghese, capitato quasi per sbaglio in Italia e a Montepaolo, sua prima dimora italiana, dopo che al primo «capitolo» del 1221 presieduto da frate Francesco in Assisi, viene ingaggiato per andare lassù in una piccola comunità di frati francescani… Racconto di come nessuno lo conoscesse, lui che era maestro  di Bibbia, finché un giorno nella vicina Forlì, Antonio, a sorpresa predicatore di scorta in una celebrazione solenne (forse per un malinteso tra chi doveva predicare), viene scoperto per chi è.

La strada intanto è bella, le indicazioni scaricate dal sito internet sono perfette, passo dopo passo   si sta bene assieme. Nessuno di noi si conosceva prima di questo cammino e ci si apre un po’ il cuore. Anche sulle ferite dell’anima ben più doloranti delle vesciche. Il cammino ha il dono di disarmare, semplificare, aiutare a essere se stessi, anche nel poter sorridere dei propri e altrui difetti e manie. E poi le discussioni: «Scusa fra, ma perché la Chiesa, il Papa…?». Ho con me tutto per la celebrazione della messa, che ogni sera diventa sintesi e rendimento di grazie per chilometri sudati, panorami, dialoghi condivisi. Come spesso capita in esperienze forti, il vangelo di quel giorno è quello giusto per ciò che vivi, per le domande del cuore.

«E domani? A che ora, visto il caldo?». Saliscendi dopo saliscendi si aprono orizzonti silenti, spaziando su disegni sempre nuovi dei calanchi sospesi tra campi e nuvole birichine, ecco, non senza commozione, Montepaolo, la chiesetta, la grotta di frate Antonio. Sono passati tredici giorni, tanti come quelli della Tredicina in onore del Santo (rigorosamente pregata ogni giorno). Lui discretamente ci ha messi assieme e accompagnati. Ora ci vien il desiderio di andare fin da san Francesco ad Assisi. «Dai, lo facciamo da qui il prossimo anno?» (e così andò).

Da almeno tre anni il «Cammino di Sant’Antonio» arriva sino alla Verna (monte sacro ove frate Francesco divenne alter Christus: a lui configurato con le stimmate della passione), con la possibilità pure di partire da là sino a Padova e questo grazie alla passione dell’«Associazione del Cammino di Sant’Antonio», costituitasi dopo il nostro pellegrinaggio. È sempre più lunga la strada che da Antonio va a Francesco, da Padova ad Assisi, dal discepolo al maestro (e viceversa), un sentiero di letizia francescana che abbraccia città, campagne, colline e montagne. Un pezzo d’Italia.

Passi da condividere in semplicità. Quelli delle gambe, ma più ancora quelli del cuore. È il dono di ogni cammino. Frate Antonio, discepolo di frate Francesco, non mancherà di farsi compagno in quest’avventura.

Sono grato a Giannino, che stimo da allora, perché la racconta in queste pagine con uno stile avvincente. Anche lui è un buon dono di frate Antonio: da allora – con lui e con gli altri (anche i pellegrini degli anni successivi) – non ci siam più persi di vista e facciamo parte di un gruppo whatsapp (non di quelli invadenti, ma discreti) il cui nome dice tutto: sempre in cammino.

fra Giovanni Voltan

LEGGI IL PRIMO CAPITOLO

PRIMO GIORNO
LA BASILICA E IL SACRO MONTE

COINCIDENZE

Prima tappa. Entro in casa,  tolgo  zaino,  scarpe e calzini, e, seppur sudaticcio,  mi  sdraio  subito sul divano. Il polpastrello scorre lieve sulla pianta del piede; indugia e insiste su di un punto poco sotto l’attaccatura delle dita, al centro di un ampio rigonfiamento. Con una torsione del busto, afferrando con entrambe le mani la caviglia cerco di osservare la pelle: è arrossata. Premo, con decisione, per un’ultima verifica. Il doloroso riscontro conferma che il pizzicore avvertito, e qualche ora prima sottovalutato, è dovuto al più frequente e banale degli inconvenienti del pellegrino: la vescica. Effetti del caldo torrido, del ghiaino o dell’asfalto  e, soprattutto, delle scarpe troppo piccole; nonché conseguenze, nel mio caso, di presunzione e sottovalutazione. Presunzione e sottovalutazione, continuo a ripetermi, mentre i ricordi di un precedente viaggio interrotto si affacciano sinistri: fasciti dolorose, vesciche multiple e sanguinolente, infezioni latenti.

Il «Cammino di Sant’Antonio» è così iniziato da Padova, la città del «Santo senza nome», del «Caffè senza porte» e del «Prato senza erba». Nella Basilica di Sant’Antonio sosto, a lungo, nei pressi della tomba del Santo, pensando intensamente nell’intima preghiera. Poi, appoggiando le mani sulla consunta lastra marmorea del monumentale sepolcro che ne protegge le spoglie, rinnovo il rito nella genuina forma popolare di affidamento al Santo di tutte le persone care e in difficoltà.

Nel Chiostro della Magnolia, albero centenario che per imponenza oramai quasi si confronta con le possenti strutture architettoniche della Basilica,

incontro padre Giovanni, pellegrino compostellano e romeo, con il quale avevo condiviso, per alcune settimane, strade polverose e sentieri impervi. Con una certa sfacciataggine, contando però nell’amicizia, confidatogli che stavo proprio in quel momento per riprendere il cammino, gli chiedo una speciale benedizione.

Con alcuni «santini» e la credenziale – il documento rilasciato dai Frati minori conventuali che hanno in cura la Basilica – che attesta identità, meta e modalità del pellegrinaggio, sono pronto per partire. Un ultimo sguardo alla composita struttura del santuario, una cortesia chiesta a una ragazza per la foto di rito, e via! Pochi passi oltre il sagrato, il primo segnale del «Cammino di Sant’Antonio» – una freccia gialla su campo marrone e il candido giglio antoniano – mi indica il percorso. È la tappa che mi porterà a Monselice.

Dopo aver attraversato il Prato Della Valle imbocco i portici che conducono al Santuario di San Leopoldo Mandić e, in un’ora improbabile per il passeggio, incontro Luisa e Laura B. con le quali – insieme a padre Giovanni – avevo camminato, anni prima, da Monselice fino all’Eremo di Montepaolo (Dovadola [FC]). Coincidenza insolita a tal punto da indurmi a pensare che, tramite whatsapp, sia intercorso un repentino scambio di informazioni con padre Giovanni per offrirmi un singolare viatico.

Dopo il commiato, supero le mura della città e i vari ponti che scavalcano l’ampio confluvio costituito dai canali Alicorno e Scaricatore e dal Fiume Bacchiglione dove esili e affusolate barche fendono veloci l’acqua sotto la ritmica spinta di atletici canottieri. Accompagnato dal volo apparentemente caotico di uno stormo di gabbiani mi porto sull’alzaia del Canale Battaglia. Un’asta rettilinea, quest’ultimo, quasi pensile, con il fondo al livello del piano campagna e gli argini sopraelevati realizzati con terra di riporto sul finire del XII secolo.

Un ruolo importante quello ricoperto da questa via d’acqua nei secoli scorsi: usata dai signori di Padova, prima, dai patrizi veneziani, poi, sia per il trasporto delle merci sia per la comodità delle persone. Nelle cronache del tempo, il viaggio su barca in terraferma per le gentildonne e i cicisbei assumeva una connotazione decisamente avventurosa, al punto che anche un banale temporale veniva trasformato nei loro racconti in una tempesta memorabile.

Con passo spedito lascio alle spalle la periferia della città e dopo un paio di chilometri indugio per qualche minuto davanti alla facciata di una delle numerose ville costruite sulle sponde dei fiumi e dei canali veneti. Il tempo necessario per fissare con una foto – compresi canale, attracco e ponte medievale – la sontuosa dimora dell’ambasciatore veneziano Molin, progettata dall’architetto Scamozzi negli ultimi anni del Cinquecento. Da qui alla meta conosco benissimo il percorso, anche nei dettagli dell’asfalto che ne caratterizza il fondo sino a Battaglia Terme, perché era il limite delle estenuanti corse di allenamento in preparazione delle maratone cui per alcuni anni mi sono dedicato. Trentaquattro chilometri, tra andata e ritorno, necessari per saggiare forza fisica e mentale al fine di affrontare la mitica prova. Ma questa volta, nonostante il contesto immutato – gli antichi ponti che continuano a scandire le tratte intermedie e il profilo dei Colli Euganei che, a Occidente, si definisce con sempre maggiore evidenza – le sensazioni e i pensieri sono molto diversi, coerenti con i nuovi obiettivi, seppur ancora incerti. Ne ho conferma quando mi fermo in raccoglimento dinanzi al primo capitello dedicato a sant’Antonio.

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