C’è una forte tentazione, di fronte alla parola di Dio che la XXXI domenica del Tempo Ordinario ci dona, anzi forse la tentazione è duplice.
La prima: concentrarsi sulle parole di san Paolo ai Tessalonicesi, decisamente più esaltati.
La seconda: far emergere dalla prima lettura e dal Vangelo ciò che potrebbe essere un monito per tutti, perché in fondo di “fariseite” soffriamo un po’ tutti.
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Ma poi mi sono detta… perché? Perché tacere una sofferenza generata proprio dalla “fariseite” acuta di chi continua a sedersi sulla cattedra di Mosè? Anzi più correttamente: su cattedre che di Mosè non hanno più nulla? Sì, sofferenza: perché questo genera quel tipo di comportamento reiterato e purtroppo anche giustificato di chi in nome di qualche norma, o in vista di qualche salvezza, o in forza di qualche mandato sugellato da divina autorità, lega su altre e altri fardelli pesanti e difficili da portare che schiacciano l’anima, prosciugano la passione, annientano la capacità di ricominciare e lasciano gli uni appagati e gongolanti davanti a Dio e agli uomini (forti anche delle motivazioni spirituali per ciò che chiedono) e gli altri distrutti, a brandelli, colpiti talmente in profondità da considerarsi addirittura sbagliati davanti a Dio.
Potremmo dire (per una certa smania di giustificazione) che spesso gli scribi e i farisei di tutti i tempi lo fanno inconsapevolmente, senza rendersi neppure conto della portata criminale del loro agire. Criminale, non esagero: perché uccidere l’anima di una persona non è da meno dell’uccidere il suo corpo. Anche se i pesi con cui si pressa l’anima, o le armi con cui la si colpisce sono invisibili… Potremmo dire dunque che il loro agire è inconsapevole. Ma se anche fosse, questo cosa comporterebbe? Un lasciar fare? Se quegli uomini e quelle donne – che per un ruolo, per carattere, per una sedicente volontà divina o per altri mille motivi – continuano a legare sugli altri pesi, fardelli, prosciugando loro ogni energia e motivazione interiore e fisica, continuassero a farlo pur senza rendersi conto effettivamente delle conseguenze del loro agire, che cosa dovremmo effettivamente fare? Come dovremmo reagire? Può il rispetto di un’autorità, o l’obbedienza dovuta a un superiore, o l’autorevolezza riconosciuta alla parola di un uomo di Dio o a una guida spirituale portarci a restare in una sofferenza? Possiamo davvero “usare” la volontà di Dio come giustificazione di stati di sofferenza prolungati causati da altri o altre?
A chi è giusto riconoscere davvero il ruolo di “uomini e donne di Dio”, da cui pure accogliere la parola come dono e non come peso?
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Ritorno alla straordinaria descrizione che san Paolo apostolo fa ai Tessalonicesi e che la seconda lettura ci offre. È una preziosa identikit a cui davvero dovremmo rifarci, e non solo in senso nostalgico. Amorevolezza, cura, generatività, duro lavoro, responsabilità, capacità di farsi carico, sacrifici, abnegazione, partecipazione fisica, fiducia, stima, coinvolgimento: questo è ciò di cui è capace colui e colei che Dio manda tra noi per essere Vangelo, per farci scoprire il Vangelo, per aiutarci a credere nel Vangelo. Le persone che vivono tra noi con questi atteggiamenti reali, concreti (e riconosciuti) sono persone capaci di donare parole di vita, la Parola che fa vivere.
Che fare allora? Vivere di nostalgia per ciò che sembrerebbe difficile da trovare e da incontrare? Continuare a pensare (giustificando) che quando ci sembra di ricevere pesi e sofferenze in qualche modo ci sia Dio dietro (pratica purtroppo ancora molto in uso)?
Sembra aiutarci l’ultimo versetto del Vangelo. Diamo credito a chi tra noi è servo (non dice di essere servo); a chi tra noi è sorella e fratello (non dice di esserlo); a chi per primo si carica di pesanti carichi per sostenere i nostri passi (non dice di averne solo l’intenzione). Diamo spazio a donne e uomini le cui parole, come la parola di Dio, liberano, sostengono, spingono verso il largo.
Per gentile concessione di Sr. Mariangela, dal suo sito cantalavita.com