Noi, creature che portano salvezza
«Dio non ha creato la morte». Così inizia la Prima lettura della XIII domenica del Tempo Ordinario. E aggiunge: «e non gode per la rovina dei viventi… Le creature del mondo sono portatrici di salvezza». Quindi, se tutto questo è vero, come la mettiamo? Come possiamo comprendere il senso della morte che pure è un dato di fatto e attraversa il mondo, la creazione e ogni creatura, noi umani inclusi? Se la creazione e le creature sono portatrici di salvezza, come la mettiamo con il male che ci attraversa e che noi stessi generiamo?
Il brano dal libro della Sapienza oggi è straordinario, ci dà una carica pazzesca. Dio, scrive lo scrittore sacro, ci ha fatto a sua immagine, a immagine della sua natura, creati per essere incorruttibili. Come si mette insieme la morte con l’incorruttibilità? Come mettiamo insieme le promesse vere, di fronte alle quali la Sacra Scrittura ci pone, con l’esperienza di corruttibilità, morte, sofferenza, male che viviamo in ogni singolo istante?
Se il libro della Sapienza si apre con un annuncio di vita, il brano dal Vangelo di Marco si apre con due figure di donne attraversate dalla morte. La prima che Gesù incontra – una donna – perde costantemente vita; il suo corpo perdendo sangue non può generarla, non può custodirla, ma può desiderarla. La speranza che la donna sembra non aver perso – o forse recuperato – fa di lei una donna aperta all’impossibile, una persona capace di fiducia.
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È la sua fede che la porta a rischiare un incontro, e sarà la sua fede ad aprirla a una nuova vita da cui si lascerà attraversare: quella di Dio.
La seconda è una bambina. E qui le nostre armi si spuntano completamente. Perché se la straordinaria e intensa bellezza di questa pagina evangelica ci dà speranza, è pur vero che si scontra anche con le infinite volte in cui la fede di padri e madri non sortisce lo stesso effetto.
Eppure quella frase di Gesù alla bambina: «Talità kum», «Fanciulla, alzati!» continua a portare con sé un carico non indifferente di verità. Quello che lui ha chiesto a Giàiro – «… soltanto abbi fede» – e quello che ha detto alla donna – «la tua fede ti ha salvata» – continua a indicarci un senso e un orientamento per affrontare quel quotidiano segnato dalla fragilità e costantemente attraversato dalla morte.
Come mettere insieme allora le due prospettive? Da una parte la vita e dall’altra la morte?
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Nel libro della Sapienza possiamo guardare in faccia la nostra vera natura, ciò di cui siamo impastati – e cioè la vita di Dio –, ciò che rappresenta la nostra più vera essenza – vivremo in eterno, siamo fatti di eterno e per questo non possiamo vivere avendo solo la terra come riferimento e come compimento.
Ma il Vangelo ci dice che seppur la terra – cioè quella nostra vita terrena, quello spazio temporale che è corporeità, confine, limite, relazione – può infangarci, ferirci, bloccarci, ucciderci… di fatto noi siamo un di più, in noi vive la vita di Dio, quella che in ogni istante può risollevarci; e nulla – né in noi né fuori di noi – può uccidere o far tacere quella sua voce capace di farci rialzare per vivere.
Noi siamo ricchi, portiamo con noi questa straordinaria ricchezza, per questo non possiamo cedere alla morte, non possiamo consentire al male di determinarci, non possiamo non essere creature portatrici di salvezza.
Noi siamo ciò che Gesù è stato. Non possiamo vivere mettendoci sempre e solo dalla parte della donna o della bambina: noi possiamo essere, in forza del battesimo e dello Spirito di Dio che vive in noi, donne e uomini che possono far alzare, sollevare: siamo dei risorti che possono far vivere il mondo.
Forse sarà proprio questo cambio di prospettiva a farci vivere, a renderci madri e padri di futuro, generativi, giusti, capaci di bene.
Per gentile concessione di Sr. Mariangela, dal suo sito cantalavita.com