Siamo figli di Dio. Ma che saremo?
«Siamo figli di Dio», lo siamo già, e ce lo ripete anche oggi, in questa IV domenica di Pasqua, l’evangelista Giovanni nella sua lettera. «Ma», ci dice, «ciò che saremo non è ancora stato rivelato». Ciò che saremo nessuno di noi può raccontarlo. Sappiamo però di essere a immagine Sua. Sappiamo che ci ha voluto amici. Sappiamo che saremo simili a lui: stessa forma, stessa eternità, stesso destino (essere in Dio). Ma come tutto questo si compirà? E per chi?
Ci sono domande a cui non possiamo rispondere. Ma ci sono certezze che non devono sfuggirci: 1. il nome di Gesù è potente, rialza, rimette in piedi; 2. siamo eredi e discepoli (e anche apostoli) di una pietra scartata, di uno che umanamente ha fallito (almeno finché è stato in vita); 3. siamo realmente figli di Dio (tra noi e lui scorre la stessa vita… mica poco?); 4. Gesù ci conosce (nel bene e nel male, quindi nessuna paura!); 5. Gesù dà la vita per noi (qualunque sia la nostra condizione, e la sua non è un’offerta a tempo determinato!); 6. l’offerta non vale solo per gli intimi che condividono lo stesso recinto (ovvero: a Dio i confini – di lingua, culture, fedi – non interessano proprio).
In una parola: quando contempliamo il Signore come buon pastore, e accogliamo il suo grande dono, dobbiamo ricordare a noi stessi che ciò che vale per noi vale proprio per tutti.
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Mi vengono in mente due cose però, due possibili rischi. Da una parte la tentazione di farci demoralizzare dal dono. Non sono pazza nel dire questo. Vi assicuro che può accadere. Quando? Quando crediamo che il dono di Dio, il suo amore, la sua salvezza siano connessi con il nostro “meritarci qualcosa”. Qualcuno a volte mi scrive: «Sr Mariangela, il Signore mi aiuti a meritare il suo amore».
Ma perché vogliamo trasformare il Vangelo in una tabella di marcia? In un programma atletico? In un percorso a ostacoli?
Il Padre ha voluto che ognuno di noi, in Gesù, ricevesse Vangelo, ossia una buona notizia non un cappio al collo, non una spada di Damocle. Non mi stancherò mai di ripeterlo: noi siamo amati senza condizioni, siamo stati salvati non perché convertiti, ma perché peccatori. Il dono non è né a tempo determinato né sotto condizioni. Dobbiamo solo iniziare a crederci davvero, a liberarci dai pesi di cui noi stessi ci carichiamo o ci facciamo caricare, e imparare a goderci Dio, a sentirne la bellezza, a farci travolgere dal suo amore.
C’è poi un’altra questione che il Vangelo oggi ci pone (e che io definisco il secondo possibile rischio): il recinto e i suoi confini.
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Il Dio di Gesù è uno sconfinatore. È uscito dai cieli, ha creato la Terra, ha soffiato vita negli universi, ha reso viva la materia, si è fatto uomo, ha mangiato con pubblicani, ha frequentato donne, si è lasciato toccare da prostitute, ha insegnato lungo coste o sui monti, ha reso discepoli dei pescatori, ha dato tempo ai bambini, ha attraversato terre impure, toccato vite impure, è morto. E benché questo a noi appaia banale, per la società in cui Gesù è nato è vissuto, è di una portata rivoluzionaria.
Come facciamo a tenere insieme il Dio “buon pastore sconfinatore” con il recinto che spesse volte noi amiamo e proteggiamo?
Nel Vangelo di Giovanni leggiamo: «Ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle devo guidare». E infondo, rispetto a chi ascoltava Gesù in quel tempo, noi stessi siamo dei “fuori-recinto” amati. Credo che, in un momento come quello che stiamo vivendo, l’immagine del Dio sconfinatore, amante delle persone e non dei recinti, dovrebbe spingerci ogni giorno a inventare vie di incontro e non di scontro, di pace e riconciliazione e non di aggressione e rivendicazione.
Credere nel Dio di Gesù, credere nel Vangelo, significa essere pazienti artigiani, costruttori di pace. In qualunque momento, in qualsiasi ambiente. Dio ce lo chiede, il mondo ne ha bisogno!
Per gentile concessione di Sr. Mariangela, dal suo sito cantalavita.com