Sorelle Povere di Santa Chiara – Commento al Vangelo di domenica 8 Settembre 2019

Calcoli necessari

Oggi Gesù sembra voler assottigliare le fila delle “molte folle che andavano con lui” (Lc 14,25). Le parole che rivolge loro presentano con forza e durezza cosa comporti il seguire Lui. Non chiunque può essere “suo discepolo”.

Ma solo chi si confronta con il suo volto rivolto verso Gerusalemme. È interessante infatti il particolare che annota Luca per introdurre le parole di Gesù del vangelo di oggi: “Egli voltatosi disse loro…”. Mentre si segue Gesù è necessario tenere vivo il confronto “faccia a faccia” con il suo volto perché la direzione che egli sta imprimendo al suo cammino è chiara: egli ha indurito il suo volto prendendo la ferma decisione di andare a Gerusalemme (cfr. Lc 9,51). Se questa è la forza della scelta del Maestro, il suo discepolo non potrà avere minore decisione, né altra direzione. Certo in questo modo molti della folla potranno ritirarsi. Ma la sequela è impresa sostenuta non tanto dalla forza del numero, o dalla buona volontà della nostra decisione, ma dalla radicalità dell’affidamento continuo a Colui che si segue.

Davanti alle esigenze che Gesù pone, sembra quasi di vedere un’altra scena biblica dove Dio chiama Gedeone ad affrontare il suo nemico non tanto appoggiandosi sulla propria forza, ma confidando in Dio che consegna nelle sue mani l’accampamento nemico. Per questo Dio non permette che Gedeone scenda in battaglia con un esercito troppo numeroso, ma lo riduce fino a trecento uomini. In questo modo sarà chiaro che l’esito della battaglia sarà dono di Dio che opera nella debolezza di Gedeone (cfr. Gdc 7,2-22).
Allo stesso modo nel vangelo di oggi Gesù pone condizioni tali a chi lo segue da far emergere la relazione con Lui come unica ragione, forza e meta dell’andare. Solo la scoperta di Lui come unico amore e come unico tesoro della vita fa di noi suoi discepoli (“Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. (…)chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”).

Quanta forza in quell’aggettivo possessivo (“non può essere mio discepolo”) per il quale ogni amore diventa relativo e ogni bene diventa irrisorio!
Nella seconda condizione che Gesù pone al suo discepolo, troviamo la chiave per comprendere perché Gesù chieda di essere l’unico amore e l’unico bene del discepolo: “Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo”. “Portare la croce” e “andare dietro” a Lui imprime al nostro modo di amare e di possedere un tratto particolare: infatti Gesù non sta chiedendo di non amare il “padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e la propria vita” (anche se qui è addirittura usato il verbo “odiare”); e non sta neppure dicendo che il discepolo non deve possedere nulla.

Ma sta dicendo che è “suo” discepolo solo chi ama padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e la propria vita nell’orizzonte del morire a se stessi e solo chi vive il rapporto con ogni cosa nel medesimo orizzonte dell’avere “come se non possedesse” (cfr. 1Cor 7,30). Allora saremo suoi discepoli solo se Lui e la sua Pasqua (“portare la croce”) diventano la misura delle relazioni con la nostra famiglia, con la nostra vita e con tutte le cose.
La grandezza della chiamata ad essere suoi discepoli esige quindi una serietà nel calcolare se siamo in grado di perseverare per portare a termine l’impresa iniziata della sequela! Questo non significa che per iniziare ad essere suoi discepoli occorre avere la certezza matematica che ce la faremo a seguirlo fino alla fine (chi aspetta questa “garanzia” non parte mai!). Si tratta di un calcolo da fare per valutare se abbiamo “i mezzi” per “completare l’opera” e per “vincere” la battaglia della sequela!

Di quale calcolo si tratta?

Mi sembra che le due piccole parabole (che solo Luca narra a questo punto del discorso) facciano allusione all’unico mezzo che dobbiamo avere per finire il lavoro di costruzione e affrontare le grandi opposizioni che incontreremo lungo il cammino: la fede in Colui che ci ha chiamati a costruire e a combattere per edificare la nostra vita in pienezza!
La prima parabola parla della “costruzione di una torre”, un lavoro che inizia con il gettare le fondamenta ma che chiede “mezzi” precisi per essere “portato a termine”. In questo lavoro noi non siamo solo costruttori, ma in quanto “edificio di Dio” (1Cor 3,9-16) che cresce sul fondamento di Cristo Gesù, “veniamo edificati per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef 2,22). Dio è il sapiente costruttore che vuole edificare la nostra umanità compiuta secondo il Suo disegno originario. E noi useremo i mezzi a nostra disposizione per lasciarci costruire fino alla fine? Cioè saremo tanto docili all’azione dello Spirito perché Lui possa portare a compimento l’opera delle sue mani (cfr. Sal 137,8)?

La seconda parabola parla non tanto di una guerra da vincere, ma della possibilità di affrontare in modo appropriato il nemico che ci viene incontro con forze ingenti. La vita del discepolo è sempre una lotta dove siamo minacciati da forze che si oppongono a noi. Solo l’affidamento a Colui che seguiamo ci farà scoprire che siamo fin d’ora “più che vincitori” (cfr. Rm 8,37) in Lui. Rimanendo attaccati a Lui, sperimenteremo che è Lui a combattere, fronteggiare l’avversario e vincere in noi (cfr. 1Tm 4,10).
La vita del discepolo quindi è vita in stato permanente di affidamento a Gesù, tenendo sempre in mano gli attrezzi per costruire e la spada per combattere. Come facevano gli israeliti che ricostruivano le mura di Gerusalemme con la spada in mano per difenderle dal nemico che voleva abbatterle durante la notte (cfr. Ne 4,1-17 in particolare i vv. 10-12).
Se questa sarà la misura e la forza della nostra fede, nulla ci sarà impossibile!

Commento a cura delle Clarisse di S. Gata Feltrie

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