Sorelle Povere di Santa Chiara – Commento al Vangelo di domenica 3 Settembre 2023

196

La via di Gesù e del discepolo

Il Vangelo di questa domenica si colloca nello stesso luogo di quello di domenica scorsa: Cesarea di Filippo e presenta il cammino del “Cristo, il figlio del Dio vivente” e del discepolo che lo segue. E’ come se il riconoscimento dell’identità di Gesù da parte di Pietro avesse portato alla luce la meta del cammino che attende Gesù che ora anche i discepoli devono conoscere. Si tratta di un nuovo inizio sia per Gesù che per coloro che lo seguono e questo è espresso da un piccolo elemento grammaticale. L’evangelista Matteo infatti apre questo vangelo dicendo: “da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli…”.

“Da allora” indica che Gesù inizia a fare una cosa che non aveva mai fatto fino ad ora. “Da allora” è una espressione tecnica che inaugura una nuova sezione del vangelo. Era stata usata solo un’altra volta in Mt 4,17, al principio dell’attività pubblica di Gesù, quando Lui si stabilisce a “Cafarnao sulla riva del mare, nel territorio di Zabulon e di Neftali” (cfr. Mt 4,13), al nord della terra di Israele, in un territorio di frontiera, crocevia di popoli. Proprio qui Gesù inizia il suo ministero chiamando alla sua sequela un piccolo gruppo di discepoli: “Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: “Convertitevi…” (Mt 4,17).

Ora Gesù inizia a dare direzione precisa alla sequela di quei discepoli, indicando la meta che li attende. Il vangelo di oggi infatti ci mostra l’approdo del cammino di Gesù e la via che Lui stesso, il Cristo di Dio, deve percorrere. Un cammino che anche il suo discepolo è chiamato a percorrere, con Lui e come Lui.

- Pubblicità -

Qui, in questo “luogo”, Gesù comincia a mostrare ai suoi discepoli che la Sua via ha un orientamento necessario: “doveva andare a Gerusalemme”. “Doveva” perché questa era la via scelta da Dio per mostrare chi è il Suo Cristo, come è anche testimoniato dalle Scritture.

Questa “divina necessità” (dei) è estremamente esigente e Gesù la esprime con quattro verbi, due in forma attiva e due in forma passiva:

  • andare a Gerusalemme
  • patire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi
  • venire ucciso
  • risorgere il terzo giorno.

Così l’evangelista Matteo sintetizza in un’unica frase tutto il percorso del Cristo che, passando per la passione e la morte a Gerusalemme, lo porterà a risorgere. In questo primo dei tre annunci della passione, morte e resurrezione, notiamo che Gesù presenta ciò che lo attende come una realtà “accolta”. Infatti, anche la forma dei verbi utilizzata per esprimerla, mette in evidenza la sua partecipazione “attiva” al Suo destino messianico.

Deve “andare”: non vi è semplicemente condotto o costretto dalle circostanze. “Andare” è la forma della sua adesione alla volontà di Dio (potremmo dire che è la forma della “sequela” della volontà di Dio da parte di Gesù!) iniziata molto tempo prima.

Deve “patire”: anche se la sofferenza si subisce, qui il verbo è alla forma attiva. E’ un dolore che Gesù vive “attivamente”, liberamente, proprio perché mosso dall’amore. L’amare implica sempre una forma di “passione” (non per niente i termini che usiamo per esprimere la “passione” dell’amore e il “patire” hanno la medesima radice).

Deve “essere ucciso”: questo è il punto più tenebroso della Sua sorte, ed è espresso da un verbo in forma passiva. La morte violenta è subita come unica forza estranea a Dio e al Suo Cristo, che si abbatte su di Lui, ma che Egli non fugge.

Deve “risorgere”. Ecco l’approdo del Suo itinerario che passa per la morte subita: la vita restituita! Sì, perché anche qui troviamo un verbo in forma passiva: Gesù viene “fatto risorgere” dal Padre. La vita risorta è un dono che sempre si riceve e mai si ottiene con le proprie forze. E’ il dono di Dio a chi ha “attivamente” abbracciato la “divina necessità” di tutto il percorso precedente (viaggio a Gerusalemme, passione, morte).

Tutta questa frase, con i suoi quattro verbi retti dal “dei” sembra insistere sul destino di sofferenza del Cristo, ma Matteo la costruisce in modo tale che l’ultima parola non sia la morte, ma la resurrezione: “doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e il terzo giorno risorgere”.

Il sapiente narratore Matteo infatti ha posto al termine della frase l’elemento decisivo e inaspettato di questo percorso: “doveva… risorgere”! Sì, “doveva… risorgere”: questo è il senso del cammino di Gesù, il Cristo!

Non dimentichiamoci quindi che la vita risorta è l’ultimo approdo di Gesù… e quindi anche del discepolo che è chiamato a seguire le sue orme: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché… chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”. L’approdo per chi cammina “dietro” Gesù Cristo è la vita “trovata”. Le condizioni che la sequela implica (rinnegare se stesso e prendere la propria croce) sono la via per la quale si trova la vita, quella di Gesù.

Ora, dalla reazione di Pietro alle parole di Gesù sulla Sua prossima sorte, notiamo che Pietro si è fermato ai primi tre elementi dell’affermazione di Gesù (andare a Gerusalemme, luogo dove muoiono i profeti, patire da parte dei maggiori rappresentanti del popolo, venire ucciso). Il primo dei discepoli si è bloccato, come noi stessi spesso facciamo, di fronte al destino sofferente del Messia. E proprio per questo cerca di “prenderlo da parte” (letteralmente “distoglierlo, tirandolo a sé”) e di “rimproverarlo” invocando una volontà diversa di Dio su di Lui (“Dio non voglia”). Ma ecco che Gesù prende per la prima volta direttamente la parola nel vangelo di oggi: “va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mt 16,23).

Gesù gli si rivolge in maniera diametralmente opposta rispetto a quello che aveva appena fatto: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa” (Mt 16,17-18).

Gesù lo aveva dichiarato “beato”; e ora lo chiama “satana”.

Gesù lo aveva lodato perché aveva accolto “dal Padre” la rivelazione della Sua identità; e ora gli fa notare che “non pensa secondo Dio, ma secondo gli uomini”.

Gesù lo aveva costituito “pietra” sulla quale avrebbe edificato la chiesa e ora gli dice di essere per lui “pietra d’inciampo” (“scandalo”). Il contrasto non potrebbe essere più forte.

Pietro è il discepolo che porta dentro di sé tutte le contraddizioni di ogni nostro cammino di fede, fatto di slanci e adesioni e di resistenze e inversioni di marcia… Ma cosa è cambiato in Pietro perché Gesù gli si rivolga in questo modo? Ciò che fa la differenza fra i due episodi è la “posizione” che assume Pietro in rapporto a Gesù.

Nel Vangelo di oggi Pietro ha smesso di essere discepolo di Gesù (colui che cammina “dietro”), e presume di indicarGli un’altra strada, cioè si frappone fra Gesù e la volontà di Dio che gli sta davanti. L’essere discepoli è questione di dove ci mettiamo: dietro a Lui o davanti a Lui? Gesù rimette Pietro al suo posto, “dietro” di Lui. Lo chiama nuovamente alla sua sequela (“va dietro a me” Mt 16,23) come all’inizio lo aveva chiamato a seguirlo (“vieni dietro a me”, cfr. Mt 4,19). Da questa “posizione” Pietro potrà lentamente vedere cosa significhi per Gesù essere il Cristo di Dio, per entrare con Lui nella Sua consegna di sé a Gerusalemme, abbracciando la Sua passione, la Sua morte fino ad accogliere la Sua resurrezione. E Pietro lo potrà fare solo riconoscendo che questo cammino di “passione” che il suo maestro sta vivendo è determinato dall’amore.

Qui ci viene in aiuto la prima lettura di oggi che, come ben sappiamo, illumina la lettura del vangelo offrendocene la chiave di lettura. La liturgia non ci presenta la figura del profeta Geremia rifiutato e schernito dai capi del popolo, a sottolineare la sorte drammatica e sofferente del profeta che Dio ha scelto (come ad illuminare il destino di Gesù come profeta rifiutato da Israele). La liturgia invece ci offre oggi un passo del libro di Geremia in cui il profeta si “lamenta” con Dio del modo violento con cui il Signore ha fatto irruzione nella vita del giovane profeta, legandolo indissolubilmente a Sé. Geremia “solleva il velo” e ci mostra il volto di un Dio seduttore, il cui amore fa letteralmente violenza a colui che sceglie spingendolo su vie inedite e sconosciute.

Il profeta quindi è “costretto” a portare a compimento la sua missione perché un amore ardente lo spinge da dentro, come forza misteriosa e incontenibile che mai lo abbandona: “nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (Ger 20,9). Quell’amore ardente che preme da dentro il profeta Geremia è nella vita di Gesù la forza che lo spinge a dirigersi decisamente verso Gerusalemme, verso il compimento della sua missione… Ed è lo stesso amore che ora Dio ha “riversato nei nostri cuori” (cfr. Rm 5,5) e che ci chiama a seguire Gesù sulla sua Via. Riconoscere questo amore ci dona fin d’ora di “trovare la vita” là dove ci sembrava di averla persa. Perché vivere significa amare “fino alla fine” (Gv 13,1).

Commento a cura delle Clarisse di S. Gata Feltria