Santa Messa di ringraziamento per la Canonizzazione di Madre Teresa – Omelia del Card. Pietro Parolin

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Omelia del Card. Pietro Parolin

Signori Cardinali,
Cari confratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,
Distinte Autorità,
Cari Missionarie e Missionari della Carità,
Pellegrini e devoti,
Fratelli e sorelle in Cristo,

[ads2]Oggi siamo ritornati in Piazza San Pietro, numerosi e pieni di gioia, a ringraziare il Signore per il dono della canonizzazione di Madre Teresa di Calcutta, Santa Teresa di Calcutta.

Quanti motivi abbiamo per essere profondamente grati al Signore! Lo ringraziamo per l’eroica testimonianza di fede dei santi, con la quale Egli rende sempre feconda la sua Chiesa e dona a noi, suoi figli, un segno sicuro del suo amore (cfr. Prefazio dei Santi II).

Lo ringraziamo, in particolare, per averci dato Santa Teresa di Calcutta, che, con la sua incessante preghiera, sorgente di grandi opere di misericordia corporale e spirituale, è stata un nitido specchio dell’amore di Dio e un mirabile esempio di servizio al prossimo, specialmente alle persone più povere, derelitte, abbandonate: specchio ed esempio dai quali trarre preziose indicazioni e stimoli per vivere come buoni discepoli del Signore, per convertirci dalla tiepidezza e dalla mediocrità, per lasciarci tutti infiammare dal fuoco dell’amore di Cristo: “Caritas Christi urget nos”, l’amore di Cristo ci spinge, the love of Christ impels us (2Cor. 5,14).

Madre Teresa amava definirsi “una matita nelle mani del Signore”. Ma quali poemi di carità, di compassione, di conforto e di gioia ha saputo scrivere quella piccola matita! Poemi di amore e di tenerezza per i più poveri dei poveri, ai quali ha consacrato la sua esistenza!

Ella così riferisce la chiara percezione della sua “vocazione nella vocazione”, avuta nel settembre del 1946, mentre si trovava in viaggio verso gli Esercizi spirituali: “Aprii gli occhi sulla sofferenza e capii a fondo l’essenza della mia vocazione […] Sentivo che il Signore mi chiedeva di rinunciare alla vita tranquilla all’interno della mia congregazione religiosa per uscire nelle strade a servire i poveri. Era un ordine. Non era un suggerimento, un invito o una proposta” (Cit. in Renzo Allegri, Madre Teresa mi ha detto, Ancora Ed., Milano, 2010).

Madre Teresa “ha aperto gli occhi sulla sofferenza”, l’ha abbracciata con uno sguardo di compassione, tutto il suo essere è stato interpellato e scosso da questo incontro, che le ha – in un certo senso – trafitto il cuore, sull’esempio di Gesù, che si è commosso per la sofferenza della creatura umana, incapace di risollevarsi da sola.

Come non rileggere alla luce della sua vicenda, le parole che Papa Francesco ci ha rivolto nella Bolla d’indizione del Giubileo della Misericordia, quando scrive: “Non cadiamo nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge. Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani e tiriamoli a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità” (MV n. 15).

Ma qual è il “segreto” di Madre Teresa? Non è certamente un segreto, perché l’abbiamo appena proclamato a voce alta nel Vangelo: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40).

Madre Teresa ha scoperto nei poveri il volto di Cristo “che si è fatto povero per noi per arricchirci con la sua povertà”(cf. 2Cor. 8,9) ed ha risposto al suo amore senza misura con un amore senza misura per i poveri. “Caritas Christi urget nos”, l’amore di Cristo ci spinge, the love of Christ impels us (2Cor. 5,14).

Ella ha potuto essere un segno di misericordia tanto luminoso – “La misericordia è stata per lei ‘il sale’ che dava sapore a ogni sua opera e la ‘luce’ che rischiarava le tenebre di quanti non avevano più neppure le lacrime per piangere la loro povertà e sofferenza”, ha detto il Santo Padre nell’omelia di ieri perché si è lasciata illuminare da Cristo, adorato, amato e lodato nell’Eucaristia, come lei stessa spiegava: “Le nostre vite devono essere continuamente alimentate dall’Eucaristia, perché, se non fossimo capaci di vedere Cristo sotto le apparenze del pane, non ci sarebbe possibile nemmeno scoprirlo sotto le umili apparenze dei corpi mal ridotti dei poveri” (cf. Teresa di Calcutta, L’amore che disseta, p. 16).

Ella ben sapeva inoltre, che una delle forme più lancinanti di povertà consiste nel sapersi non amati, non desiderati, disprezzati. Una specie di povertà presente anche nei Paesi e nelle famiglie meno povere, anche nelle persone appartenenti a categorie che dispongono di mezzi e possibilità, ma che sperimentano il vuoto interiore di aver smarrito il significato e la direzione della vita o sono violentemente colpiti dalla desolazione dei legami spezzati, dalla durezza della solitudine, dalla sensazione di essere dimenticati da tutti o di non servire a nessuno.

Ciò l’ha portata ad identificare i bambini non ancora nati e minacciati nella loro esistenza come “i più poveri tra i poveri”. Ciascuno di loro infatti dipende, più di qualsiasi altro essere umano, dall’amore e dalle cure della madre e dalla protezione della società. Il concepito non ha nulla di suo, ogni sua speranza e necessità è nelle mani di altri. Egli porta con sé un progetto di vita e di futuro e chiede di essere accolto e protetto perché possa diventare ciò che già è: uno di noi, che il Signore ha pensato fin dall’eternità per una grande missione da compiere, quella di “amare ed essere amato”, come Madre Teresa amava ripetere.

Ella, perciò, difese coraggiosamente la vita nascente, con quella franchezza di parola e linearità d’azione che è il segnale più luminoso della presenza dei Profeti e dei Santi, i quali non si inginocchiano a nessuno tranne che all’Onnipotente, sono interiormente liberi perché interiormente forti e non si inchinano di fronte alle mode o agli idoli del momento, ma si specchiano nella coscienza illuminata dal sole del Vangelo.

In lei scopriamo quel felice e inseparabile binomio tra esercizio eroico della carità e chiarezza nella proclamazione della verità, vediamo la costante operosità, alimentata dalla profondità della contemplazione, il mistero del bene compiuto nell’umiltà e senza stanchezze, frutto di un amore, che “fa male”.

A questo proposito, ella affermò nel celebre discorso per il conferimento del Premio Nobel a Oslo l’11 dicembre 1979: “È molto importante per noi capire che l’amore, per essere vero, deve far male. Ha fatto male a Gesù amarci, gli ha fatto male”. E ringraziando i benefattori presenti e futuri disse: “Non voglio che mi diate del vostro superfluo, voglio che mi diate finché vi fa male”.

A mio avviso queste parole sono come una soglia, varcata la quale, entriamo nell’abisso che avvolse la vita della Santa, in quelle altezze e in quelle profondità che sono difficili da esplorare perché ripercorrono da vicino le sofferenze di Cristo, il suo incondizionato dono d’amore e le ferite profondissime che dovette subire.

E’ l’insondabile densità della Croce, di questo “far male” del bene fatto per amore di Dio, a causa dell’attrito che esso provoca nei confronti di tutti coloro che vi resistono, in ragione dei limiti delle creature, del loro peccato e della morte che ne è il salario.

Ed è anche – come si evince dalle numerose lettere che indirizzò al suo Direttore spirituale – “la notte oscura della fede”, nella quale convivono l’amore bruciante per il Signore crocifisso e per i fratelli bisognosi di cure e di pane, una fede solida e pura e – al contempo – la tremenda sensazione della lontananza di Dio e del suo silenzio. Qualcosa di simile al grido di Cristo sulla croce: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46).

Un’altra parola, delle sette pronunciate da Gesù durante la sua agonia sulla croce, Ella volle che fosse scritta in inglese in ogni casa della sua Congregazione, al lato del Crocifisso: “I thirst”, ho sete: sete di acqua fresca e limpida, sete di anime da consolare e da redimere dalle loro brutture e renderle belle e gradite agli occhi di Dio, sete di Dio, della sua presenza vitale e luminosa. “I thirst”: è questa la sete che ardeva in Madre Teresa, sua croce ed esaltazione, suo tormento e gloria.

Ella in questa vita, per il bene compiuto, ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace e tanti altri riconoscimenti ed ha visto il fiorire della sua opera, soprattutto nelle Congregazioni delle Suore Missionarie della Carità e dei Fratelli Missionari della Carità che ha fondato per continuarla. Ora in Paradiso, con Maria Madre di Dio e tutti i Santi, riceve il ben più alto premio preparato per lei fin dalla fondazione del mondo, il premio riservato ai giusti, ai miti, agli umili di cuore, a coloro che, accogliendo i poveri, accolgono Cristo.

Quando Madre Teresa passò da questa terra al Cielo, il 5 settembre 1997, per alcuni lunghi minuti Calcutta rimase completamente senza luce. Lei su questa terra era un segno trasparente che indicava il Cielo. Nel giorno della sua morte il Cielo volle offrire un sigillo alla sua vita e comunicarci che una nuova luce si era accesa sopra di noi. Ora, dopo il riconoscimento “ufficiale” della sua santità, brilla ancora più vivida. Che questa luce, che è la luce intramontabile del Vangelo, continui ad illuminare il nostro pellegrinaggio terreno e i sentieri di questo difficile mondo!

Santa Teresa di Calcutta, prega per noi!