1. Se Luca concentra il suo sguardo su Maria, Matteo mette a fuoco la figura di Giuseppe. La scelta dipende da due prospettive diverse e complementari.
Matteo, di provenienza ebraica, vede in Gesù il figlio di Davide, colui che riassume e rilancia la storia di Israele, il popolo eletto; Luca, di provenienza pagana, coglie in Gesù il salvatore universale, peraltro come compimento delle profezie antiche. Matteo sottolinea il radicamento nella storia come passato; Luca mette a fuoco l’apertura della storia al futuro, un futuro che si svela nel presente di ogni giorno. Non c’è contrasto: è importante tenere unite le due prospettive, che non esistono l’una senza l’altra.
Da questo punto di vista, sono significative le due genealogie che situano Gesù proprio nella storia, a dire che Gesù non viene dal nulla, ma nasce “dalla terra”, è Dio che entra nel cammino ordinario dell’umanità per salvarla dalle storture e dai fallimenti e portarla alla pienezza del bene e della gioia. Matteo, fedele alla sua prospettiva, fa di Gesù il «figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1), riassumendo in questi due nomi il meglio della storia di Israele; Luca va molto più in là, presentando nella sua genealogia Gesù come «figlio di Adamo, figlio di Dio» (Lc 3,38): è l’umanità che in lui ritorna alla bellezza e all’innocenza delle origini.
Se c’è un’annotazione da fare è che nella genealogia di Matteo appaiono quattro donne: Tamar (1,3), che concepì due figli unendosi al suocero Giuda fingendosi una prostituta (Gen 38), Raab, una prostituta di professione che a Gerico accolse e protesse due ebrei in perlustrazione (Gs 2,1), Rut, una straniera che sarà sposa di Booz e nonna di Davide (Rut 4,12-22),e infine «quella che era la moglie di Uria» dalla quale lo stesso Davide generò Salomone. Non sono, all’apparenza, modelli di santità, come del resto non lo sono neanche Abramo e Davide, che pure hanno sbagliato.
Se c’è un senso a queste presenze, come a quelle di tanti altri discendenti di Abramo e Davide, è che Dio entra nella storia dell’umanità così com’è, fatta di buoni e cattivi, vi entra non dopo averla purificata, ma precisamente per purificarla. È quanto farà Gesù, e questo è già scritto nella sua ascendenza.
2. È ben vero, però, che gli antenati prossimi di Gesù, Maria e Giuseppe, riflettono già in anticipo lo splendore di quello che sarà il loro figlio.
Di Maria si è visto; consideriamo ora la vocazione di Giuseppe. È detto tutto in due versetti: «Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto» (Mt 1,18-19).
Credo non sia difficile immaginare in quale crisi sia precipitato Giuseppe. Rischia di sentirsi tradito nella fiducia riposta nella ragazza che si era scelto per moglie: non avrebbe potuto nascondere l’origine di quella gravidanza avvenuta prima della convivenza, poteva prevedere il ludibrio a cui sarebbero stati esposti tutti e due presso la gente del villaggio. Giuseppe entra nel suo deserto: è smarrito, non ha chi lo aiuti, riflette molto, la sua è la reazione pienamente umana di un uomo buono che rinuncia a un suo progetto e non vuole mettere nei guai proprio quella con cui aveva pensato di vivere e fare figli.
3. Anche nel suo deserto però avviene un incontro, risuona una voce, al di dentro di un sogno, che è un modo corrente nella Bibbia di indicare uno spazio altro, fuori dal normale, uno spazio, quello di Dio, in cui l’uomo è “passivo”, nel senso che ascolta ed è disposto a obbedire.
Ed ecco il messaggio dell’angelo del Signore: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria tua sposa. Infatti, il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,20-21).
Dopo di che, questo bambino riceve un altro nome che arriva dalla profezia di Isaia: la vergine darà alla luce un figlio, a lui sarà dato il nome di Emmanuele (Is 7,14).
Una contraddizione? No, una complementarità. Gesù dice cosa farà, Emmanuele dice come lo farà, sarà cioè un salvatore mediante il farsi uno di noi, «in tutto simile a noi tranne che nel peccato» (Eb 4,15), cioè immerso fino in fondo nelle nostre fragilità, ma privo di ogni traccia di male, l’innocenza in persona.
A Giuseppe è chiesto di rinunciare alla paternità biologica per assumere la paternità legale del bambino che nascerà da Maria, inserendolo così di diritto nella discendenza di Davide. Questa scelta, che a noi può parere non così importante, conta perché si possano realizzare le promesse dei profeti, secondo cui un discendente di Davide avrebbe riscattato e salvato il popolo che da lui proveniva.
Non deve essere stato facile per Giuseppe aderire a questa richiesta di Dio che lo costringeva a rivedere tutti i suoi più ragionevoli progetti, che gli chiedeva di farsi educatore, garante e responsabile di un figlio non suo, e quale figlio! La risposta di Giuseppe è di una semplicità sconcertante: «Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore, e prese con sé la sua sposa; senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù». Dare il nome al bambino significava affermare che egli diventava legalmente “figlio” di Giuseppe, con tutto quello che ciò comportava.
Fece come gli aveva ordinato l’angelo diventa il ritornello che segna tutti i successivi passi di Giuseppe: obbedisce così all’ordine di portare in Egitto il bambino per sottrarlo all’ira di Erode; obbedisce a un altro ordine che gli chiede di tornare in Israele; obbedisce, infine, all’ordine di non fermarsi in Giudea ma di riparare in Galilea, finendo in una sorta di nascondimento a Nazaret. Una paternità impegnativa, perché colui che sarà chiamato Emmanuele sperimenta fin da subito tutte le fragilità più gravi che un essere umano deve subire: nasce come tutti noi «nudo, disarmato e dipendente» (Christian de Chergé); minacciato dal re Erode, che non sopporta l’idea che possano nascere altri re, è costretto ad andare in terra d’esilio come gli antichi ebrei e, al ritorno in patria, deve ancora fuggire per sottrarsi al pericolo rappresentato dal figlio di Erode, Archelao.
Tutto questo è fatto sotto la custodia e la protezione di Giuseppe, che non fa un passo senza che un qualche sogno gli dica dove andare, cosa fare. Ce n’è di che sconvolgere anche il più paziente dei padri, soprattutto pensando che la sua era una paternità di adozione.
4. Ecco il deserto che Giuseppe deve attraversare. Non bastava prendere in custodia la madre, gli toccava anche custodire il figlio non suo, di cui gli erano state dette grandi cose.
Non è difficile immaginare quanti dubbi devono averlo preso. Uno per tutti: che salvatore poteva essere questo bambino, se da subito deve scappare da chi lo cerca per ucciderlo?
Sarà lo stesso problema che riappare sotto la croce, dove «quelli che passavano di là lo insultavano scuotendo il capo e dicendo: salva te stesso, se tu sei Figlio di Dio, e scendi dalla croce!» (cf. Mt 27,39-44).
Chissà quante volte, a Giuseppe come a Maria, si sarà presentato questo interrogativo, soprattutto da quando Gesù aveva lasciato la bottega di Nazaret per andare in giro ad annunciare che con lui il regno di Dio era giunto e che era ormai a portata di mano di tutti (cf. Mc 1,14-15).
Chissà se c’era anche lui tra i familiari che, preoccupati di quanto stava succedendo, erano andati a cercare Gesù per «impadronirsi di lui» e riportarlo a casa, perché dicevano: «È fuori di sé!» (Mc 3,20-21).
Alla fine Giuseppe, come Maria, e meglio di Zaccaria, nello smarrimento del suo deserto ritrova una direzione che lo conduce là dove non era previsto, ma che è un cammino degno di essere affrontato perché a guidarlo è la voce di Dio che gli parla attraverso il suo angelo.
Se c’è un aspetto che sorprende in lui, e che rischia di ridurlo a un personaggio minore, è il suo silenzio: di lui non abbiamo una sola parola! Ma Giuseppe, il giusto, parla con quello che fa. Gli basta nel sogno comprendere che quanto gli viene ordinato arriva da Dio per non porre indugi: non chiede segni o precisazioni, addirittura sembra andare più in là della stessa Maria: accoglie il suo ruolo di co-protagonista, rimane accanto senza cercare il primo piano.
Nella sua discrezione di custode Giuseppe rivela il vero senso della paternità, che va oltre la paternità biologica, come lo stesso Gesù avrà poi l’occasione di affermare, e che è l’immagine della stessa paternità di Dio.
Giuseppe è l’incarnazione stessa di ciò che si chiama accoglienza. «E questo significa accogliere ogni uomo come figlio di Dio, cioè quel figlio di Dio che è in gestazione in ognuno: andare d’istinto verso di lui con lo sguardo del Padre. Sapersi legato a lui da un compito: dargli nutrimento perché cresca in lui ciò che non viene e non potrebbe venire da noi».
E ancora: «Accogliere Nazaret come il contesto privilegiato del Vangelo, il solo che sia perfettamente adatto alla missione della Chiesa, una Chiesa serva e madre, e missionaria perché serva e madre».
E, infine: «Accogliere lo stile di Dio che non è il nostro, i suoi progetti su di noi di cui motivi e conseguenze possono rimanere velati sotto mezzi sconcertanti. Giuseppe non dice niente: ascolta, si alza, fa ciò che gli viene detto» (Christian de Chergé, omelia 25, p. 59-60).