Progetto divino e debolezza umana
Il brano evangelico di questa domenica si compone di due pericopi giustapposte sulla cui connessione sono state avanzate varie ipotesi che tentano di cogliere coerenze tematiche. Ma la giustapposizione più convincente è di carattere funzionale piuttosto che tematica, nel senso che il secondo brano potrebbe costituire una chiave interpretativa del primo.
Il centro del discorso verte sul tema del ripudio, che si configura all’interno delle relazioni uomo-donna. Il tratto relazionale ci consente un legame con quanto precede, dove si è trattato appunto prima di rapporti intra ecclesiali (9,33-37) e poi tra il gruppo dei discepoli e quelli di fuori (9,38-50). Qui avremmo un nuovo genere di relazione, quello tra coniugi, cui segue l’episodio di Gesù con i bambini. Particolarità quest’ultima interessante perché crea una sorta di ritmo nei tre brani appena evocati, in quanto il primo, quello sulla discussione su chi fosse il più grande, termina con l’invito ad accogliere un “bambino (paidíon)” (9,36-37); il secondo, sul rapporto con quelli di fuori, è seguito dall’invito a non scandalizzare i “piccoli (mikrói)” (9,42); ora, dopo l’insegnamento sui rapporti intraconiugali, Gesù chiede di accogliere il Regno come un “bambino (paidíon)” (10,15). Sembra che nelle tre conclusioni sia indicato l’atteggiamento che rende possibile la relazione precedentemente messa a tema; e per la precisione: accogliere, fare attenzione a non scandalizzare, imitare.
Il nostro brano si apre con alcuni farisei che si avvicinano a Gesù e lo interrogano per metterlo alla prova (v. 2). Come spesso accade, non si tratta di un dialogo disteso e franco, ma di una sfida tesa a mettere l’altro in difficoltà. Qui la questione sollevata è il complesso e dibattuto tema della liceità del ripudio: “Se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie” (v. 2). Nell’esegesi, anche moderna, si ha tendenza a qualificare il caso come un esempio di “divorzio”. Ma a ben guardare tale identificazione non è del tutto appropriata, poiché il ripudio è un atto unilaterale compiuto dall’uomo nei confronti della donna, anche se nella sua risposta Gesù ipotizza anche il caso opposto, cioè quello di una donna che ripudia il marito (v. 12), caso ignoto alla tradizione ebraica ma non all’uso romano.
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Com’è suo solito, Gesù non replica con una risposta diretta, ma pone anche lui una domanda: “Che cosà vi ha comandato (dal verbo: entéllomai) Mosè?” (v. 3). Così facendo rimanda i suoi interlocutori alla Torah, cioè al cuore della Scrittura. E difatti essi riferiscono Deuteronomio 24,1: “Mosè ha permesso (dal verbo: epitrépo) di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla” (v. 4).
Aveva chiesto cosa Mosè ha “comandato”, gli rispondono quello che egli ha “permesso/concesso”. Già questa variazione prepara la strada al discorso che Gesù sta per fare, con il quale invita a risalire all’origine, a quello che chiama “l’inizio della creazione” (v. 6), che non rimanda a un semplice momento temporale, ma piuttosto causale. Gesù invita i suoi interlocutori a non fermarsi alle frange della Torah ma ad andare al suo cuore, all’intento dell’opera creazionale, richiamando un altro luogo della Legge mosaica, che precede quello deuteronomico, per la precisione Genesi 1,27 e 2,24, laddove Dio aveva dichiarato l’indissolubilità dell’unione coniugale. Peraltro, prima di Gesù, già il profeta Malachia aveva detto: “Io detesto il ripudio, dice il Signore, Dio d’Israele” (Mal 2,16).
Ne risulta una situazione esegeticamente complessa, per cui davanti a un testo mosaico ve n’è un altro che dissente dal primo. Ma proprio nell’uso dei verbi, l’evangelista fa comprendere il criterio ermeneutico di Gesù: nel primo caso, nell’in-principio, vi è un comando; nel secondo caso, una concessione dovuta alla “durezza del cuore” (v. 5).
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Tale contrasto – o tensione – mostra dunque come nella Scrittura coesistano il desiderio originario di Dio e il segno della sua condiscendenza nei confronti della durezza di cuore e della fallibilità degli esseri umani. La creazione reclama un rapporto indissolubile tra l’uomo e la donna, perché l’armonia è il bene sommo; e la Scrittura annuncia tale esigenza in modo chiaro e inequivocabile. Ma la medesima Torah porta in sé anche i segni della nostra inadeguatezza.
Per parte sua Gesù, quale fine interprete, chiede con forza che la condiscendenza non offuschi il desiderio di Dio, che è quello di un’armonia piena e duratura tra l’uomo e la donna, segno della sua fedeltà al genere umano che non viene mai meno. Nella medesima Scrittura sono ospitate, perché lì si incontrino, il progetto originario di Dio e la sua risposta alla debolezza della creatura. Ambedue sono custoditi nel cuore della Torah, per ribadire che l’uno e l’altra sono tesi a un medesimo obiettivo: la pienezza di vita dell’essere umano, che passa necessariamente per le pieghe della sua debolezza.
Gesù richiama alla priorità del primo testo sul secondo, invitando a discernere la questione risalendo al cuore stesso del piano creazionale. Ma per fare questo è necessario uno sguardo libero, disponibile: di bambino, come Gesù afferma prendendo spunto dall’episodio che segue.
L’occasione gli è offerta dai discepoli che continuano a creare barriere: “Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproveravano” (v. 13). L’atteggiamento è lo stesso già più volte messo in luce: i discepoli innalzano muri tra loro, cercando di stabilire chi sia il più grande; progettano separazioni da chi è fuori, volendo impedire l’uso del nome di Gesù; cercano di allontanare chi porta a Gesù i bambini.
Gesù interviene, indignandosi contro i discepoli e dicendo loro di non essere di impedimento a chi vuole andare a lui. Un rischio grande nella comunità cristiana di tutti i tempi: essere di impedimento, anziché facilitare l’accesso. Ma poi Gesù coglie l’occasione per valorizzare il modo di essere di quei “bambini”. Non certamente per stimolare una reazione sentimentale nel lettore, ma per indicargli la via per la quale poter penetrare nel “regno di Dio” (v. 14), vale a dire per intuire il modo di ragionare di Dio, condizione necessaria a comprendere quanto ha appena detto a proposito del ripudio.
Per capire come i due passi della Torah stiano insieme, come si possano comporre il pieno originario di Dio e la durezza e inadeguatezza degli esseri umani ci vuole un animo di bambino, è necessario lasciarsi condurre a Cristo anziché accostarsi a lui per tentarlo, differenza fondamentale tra i farisei che si avvicinano a Gesù per metterlo alla prova (v. 2) e i bambini che vengono presentati a lui perché li benedica (v. 13).
Per andare al cuore della Torah è necessario l’atteggiamento del bambino: vulnerabile, pronto ad accogliere il dono, nudo nel suo bisogno, capace di stupore. Questi potrà entrare nel Regno, comprendere il pensiero di Dio, interpretare la Scrittura per farne non uno strumento contro l’altro al fine di umiliarlo ma, quale il Creatore l’ha voluta, al servizio di relazioni rispettose, fedeli e feconde.
Per gentile concessione del Monastero di Bose