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Sabino Chialà – Commento al Vangelo di domenica 30 Giugno 2024

Domenica 30 Giugno 2024
Commento al brano del Vangelo di: Mc 5, 21-43

Il varco della fede

Il brano evangelico di questa domenica inizia con una nuova traversata del lago di Galilea. Dopo la breve permanenza in terra pagana “nel paese dei Geraseni” (5,1) e la guarigione dell’uomo posseduto da “uno spirito impuro” che dimorava tra i “sepolcri” (5,2), Gesù torna in terra d’Israele, e si ferma, ancora una volta, “lungo il mare” (v. 21).

Dall’altra parte del lago, Gesù si era confrontato per la prima volta con l’impurità, incontrando un uomo tre volte impuro: pagano, posseduto da uno spirito impuro e dimorante tra i morti. Lì Gesù aveva infranto ma anche misurato una distanza che la guarigione dell’indemoniato non era riuscita ad annullare, vista la reazione dei mandriani che, nonostante la guarigione, gli avevano chiesto “di andarsene dal loro territorio” (5,17) e lui aveva obbedito.

Ma la distanza – di cui l’impurità è cifra – non è relegata al di là del mare. Gesù l’aveva scorta nei suoi discepoli che, sul mare in tempesta, avevano gridato disperati; e la misura ora, in modo ancora più esplicito, in terra d’Israele, dove le due guarigioni narrate nel brano evangelico di questa domenica portano il segno dell’impurità: impura è la donna che ha perdite di sangue, impura è la bambina morta. Due donne che Gesù tocca, divenendo egli stesso impuro.

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Per Gesù, infatti, non vi è distanza che possa resistere alla forza della sua parola risanatrice, nella misura in cui l’essere umano – qualsiasi essere umano! – le apra un varco. E questo varco, cui non può essere di impedimento alcuna barriera, neppure religiosa, si chiama “fede” e si esprime nel coraggio di credere alla parola efficace di Gesù che risana, salva e ridà la vita. La forza risanatrice della fede è la buona notizia che ci consegnano le storie delle due donne di cui ci parla il vangelo di questa domenica.

Due donne diversissime eppure così vicine essendo le loro storie strettamente intrecciate al punto che – l’artificio letterario di Marco è per questo molto efficace – sono incastonate l’una nell’altra, e questo ci aiuta a cogliere somiglianze e dissonanze.

Ambedue le donne sono dette “figlie” (v. 34 e 35), ma in modo diverso: una è anziana ed esperta di sofferenza, infatti è da dodici anni che vede la vita scivolare via dal suo corpo e per questo resa sterile (v. 25); l’altra ha solo dodici anni (v. 42) e dunque la vita e la fecondità le sono sottratte nel momento in cui avrebbero iniziato a dischiudersi e a fiorire.

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Diversi sono poi i cammini che le conducono a Gesù. Per la fanciulla è suo padre Giairo che fa da tramite ed è per la fede di lui che ritroverà la vita, mentre appare amata e circondata da parenti e conoscenti (v. 35-39). La donna emorroissa è invece sola e sarà la sua propria fede a procurarle la guarigione, mentre del contesto si ricordano solo i medici che hanno dilapidato il suo patrimonio (v. 26).

Un tratto che accomuna le due storie è il poi coraggio, ma agisce in modo diverso. Vi è coraggio in Giairo che osa chiedere a Gesù ciò che sembra impossibile, arrivando a rendendosi ridicolo: lui, capo della sinagoga, “si getta ai piedi e supplica con insistenza” il Maestro (v. 22-23), con un gesto audace visto anche che Gesù nelle sinagoghe non gode di buona accoglienza, come si narra nell’episodio immediatamente successivo (6,1-5). Né si cura della derisione di chi affolla la sua casa e ritiene insensato il suo comportamento (v. 40).

Ma vi è coraggio anche nell’agire della donna affetta da emorragia, che supera l’ostacolo fisico della folla stretta intorno a Gesù (v. 27) e che infrange l’impedimento cultuale, dovuto al suo stato di impurità, osando toccare il Maestro (v. 28).

Le due situazioni sono poi ambedue estreme: la figlioletta di Giairo “sta morendo” (v. 23), mentre la donna ha perso tutti i suoi beni senza risultato. Si stanno perdendo, proprio come i discepoli sul mare in tempesta (4,38), ma il coraggio di Giairo e quello della donna si rivelano determinanti.

Al coraggio segue il contatto fisico, un tratto importante nella narrazione: la donna infatti tocca Gesù (v. 27). La bambina invece, per la quale Giairo chiede che il Maestro le “imponga le mani” (v. 23), è “presa per mano” (v. 41). Con quel tocco, Gesù infrange la barriera dell’impurità, come avevano fatto Elia (1Re 17,17-24) ed Eliseo (2Re 4,25-37), entrando in contatto con dei corpi morti.

Ma ciò che è determinante per il ritorno alla vita delle due donne – dicevamo – è la fede, vero fulcro di questa duplice narrazione. Una fede che agisce per vie diverse. Per la bambina è la fede di Giairo, al quale Gesù dirà: “Non temere, soltanto abbi fede” (v. 36). Per la donna emorroissa è la sua stessa fede: “Figlia, la tua fede ti ha salvata” (v. 34). Gesù guarisce, ma è la fede che salva. O meglio: la parola di Gesù diventa efficace tramite la fede che l’essere umano apre dinanzi a quella parola, come una porta spalancata dinanzi alla potenza risanatrice della grazia.

Salvifica è la fede che porta Giairo a camminare con Gesù perché questo entri nella sua casa e vi porti la vita. Salvifica è la fede della donna emorroissa che la riposiziona rispetto a Gesù: gli si era accostata dalle spalle (v. 27), ma poi ha il coraggio di passare davanti, gettarsi ai suoi piedi e dirgli “tutta la verità” (v. 33). Nei due casi si tratta di una fede che si esprime in una relazione. Gesù infatti chiede “chi ha toccato le mie vesti” (v. 30) perché desidera conoscere e incontrare, e non essere ridotto a un talismano. La donna, a differenza dei discepoli, in cui prevale il senso pratico (v. 31), comprende. La guarigione così si perfeziona nell’incontro e nello sguardo, e al risanamento fisico si unisce il dono della pace: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male” (v. 34).

Nelle storie delle due donne vi è poi un crescendo: al risanamento dell’emorroissa, cui Gesù arresta il flusso di sangue, riconsegnandola a una vita più degna, segue la resurrezione di una bambina, ormai preda della morte, cui egli dona un futuro.

Questo secondo segno è anche il primo racconto di resurrezione narrato da Marco; a un tempo evento singolare e preludio della resurrezione del Messia verso cui tende l’intera narrazione evangelica. Il primo tratto, l’eccezionalità, è sottolineata dal fatto che Marco ricorda persino il particolare suono aramaico delle parole pronunciate da Gesù: “Talita qum” (v. 41). Il secondo, dall’uso in sequenza dei due verbi della resurrezione: “Fanciulla, io ti dico ‘Alzati!’” (v. 41), voce del verbo eghéiro, che sarà poi riferito alla resurrezione di Gesù (16,6); e poi: “La fanciulla si alzò” (v. 42), dal verbo anístemi, che ritorna più avanti nei tre annunci della passione (8,31; 9,31; 10,34).

La vita rinasce grazie alla fede, la quale opera per le vie più diverse: fede di chi ama e prega per la figlia preda della morte; o fede di chi, oppressa dalla propria sofferenza, osa infrangere ogni sorta di barriere per giungere al Cristo.

Per gentile concessione del Monastero di Bose

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