Il dono resti dono
Il brano evangelico di questa domenica si presenta come un susseguirsi di testi che sembrano accostati l’uno all’altro senza una chiara connessione tematica. Probabilmente tale è la loro origine. Eppure è possibile scorgere un filo conduttore, che l’evangelista Marco sembra suggerire, connettendo questi versetti tra loro e con quanto precede.
Nel brano immediatamente precedente, che abbiamo ascoltato domenica scorsa, Gesù aveva annunciato per la seconda volta la sua passione, morte e resurrezione, lasciando intendere che il suo ministero terreno volgeva al termine e che egli si preparava a uscire di scena. I suoi, in reazione, non avevano trovato nulla di meglio da fare che affrettarsi a definire gli equilibri interni al gruppo: “Avevano discusso tra loro chi fosse il più grande” (9,34).
A quella reazione desolante, Gesù aveva risposto da buon maestro. Con parole e gesti aveva cercato di mostrare loro che altra è la logica che lui aveva vissuto e che desiderava lasciare loro in eredità. Che cioè, nella comunità cristiana, non si tratta di gestire un potere e neppure di condividere un possesso, ma di accogliere un dono: “Preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse: ‘Chi accoglie un bambino…’” (9,36).
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Una parola troppo difficile per quei discepoli. Infatti, poco oltre, al capitolo decimo (10,41-45), come vedremo tra qualche settimana, Gesù dovrà tornare sull’argomento. Ma già il nostro brano mostra quanto distanti erano i discepoli da quella logica “altra”. Quanto noi ne siamo ancora distanti!
La prima sezione del vangelo di questa domenica, la reazione di Giovanni a un estraneo al gruppo “che scacciava i demoni nel nome” di Gesù (v. 38), mostra infatti che i discepoli non hanno compreso l’intima logica, la prospettiva nuova, delle parole sul primato e del segno del bambino. Hanno solo momentaneamente spostato i confini del loro modo di pensare. Visto che non sembra possibile stabilire una gerarchia all’interno, la stabiliscono nei confronti dell’esterno! Se non è possibile un “io” più grande di un “tu”, provano a ipotizzare un “noi” che abbia preminenza su un “loro”.
Il porta parola è Giovanni, non a caso uno dei discepoli più vicini a Gesù, che protesta: “Abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome, e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva” (v. 38). Affermazione che si presta a varie considerazioni e che svela diversi e gravi pericoli di quel modo di ragionare.
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Innanzitutto Giovanni è geloso di un “potere” che qualcuno esercita nel nome di Gesù, dunque non suo, ma che in realtà già considera, più o meno consciamente, appartenere a lui. Giustifica infatti la sua volontà di intervento dicendo: “Perché non seguiva noi”. Ingenuo slittamento, ma gravido di conseguenze: ormai non si segue più Gesù, ma il gruppo dei discepoli che ne ha preso il posto! Una tentazione su cui la comunità credente è eternamente chiamata a vigilare.
Ma dalle parole di Giovanni emerge anche un altro pericoloso slittamento: ha trasformato “l’autorità” di scacciare i demoni, in “potere”, semplicemente trasformando il “dono” in “possesso”. Se dunque si tratta di un “potere”, che appartiene al gruppo, è solo il gruppo a poterne disporre.
Abbiamo qui la perversione del dono, mediante la sua trasformazione in possesso; e come conseguenza il suo rimpicciolimento nello spazio: esso non può agire che all’interno, mentre Gesù sembra dire che il suo nome agisce, per vie a noi insondabili, anche all’esterno. Certo, il suo nome!
Gesù dunque chiede ai discepoli di allargare gli orizzonti: “Non glielo impedite!” (v. 39). Chiede di non diventare gelosi ma grati del dono. Chiede di non innescare competizione, ma desiderio di condivisione. Invita a guardare in grande, a non chiudersi, e dunque a godere pienamente di un dono che sovrabbonda. A fare in modo che resti viva la memoria che quel dono lo abbiamo ricevuto tutti gratuitamente.
Anche perché ogni dono attira un altro dono, come dice Marco nella breve pericope successiva: “Chi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome … non perderà la sua ricompensa” (v. 41). Come a dire: non abbiate paura di lasciare alla grazia di espandersi, perché vi tornerà moltiplicata!
Vi è infine un terzo insegnamento che conclude il brano di questa domenica. Esso sembra non avere molto a che fare con quanto precede. Invece per Marco il collegamento sembra esservi, perché agire secondo la logica appena evidenziata, cioè pervertendo il servizio in potere, è causa di scandalo; e di uno degli scandali più colpevoli perché più deleteri: lo scandalo dei piccoli.
Per questo Gesù ha parole molto dure: “Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli (mikrói) – che ricorda i “bambini (paidía)” del v. 37 – è meglio per lui…” (v. 42). Per evitare lo scandalo, effetto della perversione del dono, Gesù non esita a chiedere misure drastiche: appendere al collo una macina da mulino e gettare in mare, tagliare una mano, tagliare un piede, cavare un occhio. E ogni volta ripete: “È bene per lui” (v. 42); e per tre volte: “È bene per te (vv. 43; 45; 47). Quel pronome finale indica che il taglio non è una misura di vendetta o espressione di giustizialismo fine a se stesso, ma è bene “per” colui ai cui danni è operato: è bene per lui/te, dunque terapeutico.
Altrimenti il rischio è diventare insipidi: “Buona cosa è il sale; ma se il sale diventa insipido, con che cosa gli darete sapore?” (v. 50). Abbiamo infatti la capacità di trasformare un dono utile, cioè saporito, in materia insipida. Ecco l’effetto dell’accaparramento del dono ricevuto, e del suo uso contro gli altri! Il dono trattenuto per sé diventa piccolo, cioè dagli orizzonti ristretti al proprio piccolo mondo, e insipido, cioè senza sapore.
Possiamo allora comprendere in questa luce anche l’ultimo versetto del capitolo (non compreso nella pericope liturgica): “Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri” (v. 50). Come a dire: custodite quanto vi è stato dato, il sale a voi affidato, lasciatelo essere sale, non vanificatelo con la contrapposizione e la competizione, e allora sarete in pace gli uni con gli altri.
Finché il dono ricevuto è custodito come dono, dimora anche la pace. Perché tutti sanno di aver ricevuto quello che hanno. Nessuno pretende di aver fatto da sé l’opera che pure ha fatto! Poiché non appena il dono si trasforma in possesso, non appena si perde la memoria della sua origine, ecco che esso svanisce, perde il sapore, e così cominciano anche le divisioni e le contrapposizioni, e la pace è compromessa.
Il messaggio di questa domenica è dunque un invito a gioire di un dono che non ci appartiene. Dunque nessuna gelosia e nessuna competizione! Solo il dono condiviso resta efficace. Quando esso si espande, tutti, anche i discepoli, ne partecipiamo e ne gioiscono in modo ancora più pieno. La gelosia, invece, restringe la gioia, genera lo scandalo, rende insensati, soffoca il cuore e allontana la pace.
Per gentile concessione del Monastero di Bose