Una luce da altrove
Dopo il deserto, il monte. Dopo la tentazione, la trasfigurazione. Il lezionario della quaresima, seguendo un’antichissima tradizione, associa questi due episodi della vita di Gesù, che costituiscono due dei momenti più alti della rivelazione del Figlio di Dio. Diversi tra loro e consonanti allo stesso tempo, come sottolinea il fatto che, appena prima della tentazione nel deserto, Gesù, nel battesimo, ode la voce del Padre che gli dice: “Tu sei il Figlio mio, l’amato” (1,11); e qui, nella trasfigurazione, al termine della scena, quella medesima voce ritorna e ripete, questa volta ai discepoli: “Questi è il Figlio mio, l’amato” (9,7).
Figlio nel deserto e Figlio sul monte. E tra questi due estremi, c’è idealmente tutta la sua vita. Nel deserto abbiamo contemplato il Figlio che, grazie alla sua lotta, trova la pace, fino a ridiventare il luogo della comunione cosmica, l’Adam dell’in-principio: “Stava con le fiere e gli angeli lo servivano” (1,13). Sul monte contempliamo il Figlio trasfigurato, che i discepoli vedono risplendere della luce stessa di Dio che si effonde nelle vesti bianchissime, segno della trasfigurazione cosmica cui la creazione intera è destinata.
Il nostro testo segue il primo annuncio della passione di Gesù (8,31-33) e quello della croce cui anche i discepoli sono chiamati (8,34-38). A conclusione Gesù promette che “alcuni dei presenti” avrebbero visto “giungere il regno di Dio nella sua potenza” (9,1). La notazione temporale “sei giorni dopo”, che apre la nostra pericope (9,2), lascia intendere che quella promessa si compie sul monte della trasfigurazione. È come se in pochi versetti fosse preannunciata l’intera vicenda di Gesù e della sua comunità, dalla passione alla resurrezione. I tre discepoli che lo accompagnano sul monte, Pietro, Giacomo e Giovanni, sono infatti gli stessi che saranno presi da Gesù come testimoni della sua angoscia e della sua preghiera nel Getsemani (14,33).
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La salita sul monte evoca quella di Mosè sul Sinai, dove questi aveva ricevuto il dono della Legge. La presenza di Mosè ed Elia, la Legge e i Profeti, ricorda quel momento di alleanza. Anche sul Tabor la voce del Padre consegnerà ai discepoli una Parola: non più una Legge scritta su tavole di pietra, ma un essere umano: Gesù che egli indica come colui che dev’essere ascoltato: “Ascoltate lui!” (9,7).
Giunto sul monte, Gesù è oggetto una trasformazione: “Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime” (9,2-3). Si tratta di un’azione di cui non è protagonista, come indicano sia il verbo passivo sia l’annotazione circa le vesti: “Nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche” (9,3). Non si tratta di un’azione umana, né è opera di Gesù: quella luce che risplende sul volto e sulle vesti viene da altrove. È il riflesso della sua divinità, che viene dal suo essere Figlio. Viene da altrove, ma questo altrove non è esterno a Gesù. Quella luce è emergenza di ciò che Gesù è in verità. Quello che appare è la sua identità profonda, che per un attimo i tre discepoli possono contemplare. È come se per un attimo fosse alzato il velo.
La luce, che appare e sfolgora, si trasforma però immediatamente in parola. A partire dal v. 4 si fa infatti determinante l’elemento della parola. Appaiono Elia e Mosè “che conversavano con Gesù” (9,4). Pietro, continua il testo, “prendendo la parola, disse a Gesù” (9,5). La nube che li copre con la sua ombra è dotata di voce: “Dalla nube uscì una voce” (9,7). E infine, quella voce, chiede ascolto: “Questi è il Figlio mio, l’amato, ascoltatelo!” (9,7). Tutto questo per dire che quella visione di luce non intende né incantare, né abbagliare, come è proprio degli idoli. Si tratta invece di una luce che invita a un cammino. Quello che invece Pietro vuole evitare: “Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne” (9,5).
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Come già all’annuncio della passione, quando Gesù lo aveva chiamato “Satana” (8,33), non comprende. Vuole godersi lo spettacolo, e invece gli è chiesto di entrare in quella dinamica. Pietro vuole trattenere la visione e invece deve mettersi in cammino. Confortato da quella luce, con il ricordo di quella luce nel cuore, deve mettersi in ascolto del Figlio. La voce che viene dal cielo, infatti, non invita a guardare, ma ad ascoltare. È l’ascolto, non la visione, che renderà luminosi anche i discepoli.
La fede cresce e si alimenta non trattenendo la luce del Trasfigurato in tende statiche, ma esponendosi a un ascolto che mette in cammino, che trasforma camminando.
A questo invitano anche gli ultimi due versetti della pericope: “Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti” (9,9). Abbiamo qui l’invito al segreto messianico: Gesù chiede di non rivelare la visione perché teme di essere frainteso. Alla rivelazione, infatti, manca ancora il suo centro: il mistero pasquale, la morte e resurrezione del Messia, essenziale alla sua piena comprensione.
Ma forse in quel comando di Gesù possiamo scorgere anche altro: che i discepoli custodiscano nel silenzio quella visione e quella voce, che innanzitutto la interiorizzino e cerchino di viverne, perché solo allora il racconto che ne faranno sarà credibile ed efficace. Se quella visione ha senso, e dunque merita di essere raccontata, non è perché sensazionale e strabiliante, ma perché è stata capace di trasformare la vita di chi l’ha contemplata. Allora avrà senso narrarla.
Ecco dunque una seconda immagine del Cristo, che le letture di questa domenica di quaresima ci consegnano: Gesù è il servo trasfigurato, circonfuso di luce e indicato dal Padre come parola da ascoltare. Posto in mezzo, tra Elia e Mosè, tra i Profeti e la Legge, è carne luminosa ed eloquente, resa tale dalla sua intimità con il Padre; fonte di luce che si trasfonde in chiunque sia disposto ad accogliere la sua parola e a lasciarsene abitare, fino a diventare anche lui riflesso della luce di Cristo.
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Per gentile concessione del Monastero di Bose