Il segno di un bambino
Fratelli e sorelle,
eccoci anche quest’anno dinanzi al mistero grande del Dio che si fa uomo; del Dio che si fa uno di noi, che assume la nostra carne ed entra nella nostra storia.
I cristiani hanno visto in questo evento l’adempimento delle profezie che abbiamo ascoltato. La promessa fatta a Davide per bocca di Natan: la nascita di un discendente regale, cui Dio stesso avrebbe fatto da padre (2Sam 7,1-16). La promessa fatta attraverso Michea: a Betlemme sarebbe nato un pastore per Israele (Mi 5,1-4). E poi Sofonia il quale annuncia che Dio stesso avrebbe dimorato in mezzo al suo popolo, come Salvatore potente (Sof 3,14-17). Infine la profezia di Isaia: un bambino, un figlio, nato per noi, detto “Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace” (Is 9,1-6).
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Parole che forse a qualcuno erano sembrate solo bei sogni o addirittura delirii… Ma quelle promesse, pronunciate in momenti critici della storia d’Israele, avevano aperto squarci di luce in una realtà che appariva gravata da una coltre di nubi, fitta, avvilente e soprattutto che sembrava non avere vie d’uscita.
I profeti d’Israele, ispirati dallo Spirito, avevano osato guardare oltre e annunciare parole di luce e di salvezza. Ad essi fa eco l’apostolo Paolo quando scrive a Tito che quelle promesse sono realtà, e afferma: “È apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli esseri umani” (Tt 2,11).
Tra le profezie e Paolo vi è la narrazione dell’Evangelo! Quell’annuncio cui ancora una volta, in questa notte, vogliamo fare spazio, nelle nostre vite e nel nostro mondo. Vogliamo fargli spazio non come a un racconto di fatti che appartengono al passato, ma come a una via per la quale la salvezza è entrata nel nostro mondo, e ancora vi può entrare.
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La salvezza… sì! Questa parola (e realtà) che spesso avvertiamo come distante, obsoleta. Che continuiamo a ripetere per abitudine, senza comprenderne il significato, e soprattutto senza assaporarne la forza. Una delle tante parole logore del nostro gergo
religioso! Eppure ne abbiamo così bisogno! Tanto quanto abbiamo bisogno di vita. Non di quella biologica, ma di quella vera: di una vita sensata, talmente sensata da risultare inattaccabile dalla morte.
Ebbene, è di questa vita/salvezza (ricordo che nella lingua parlata da Gesù, “vita” e “salvezza” sono la stessa parola) che in questa notte riceviamo ancora l’annuncio dalla bocca dell’angelo: “Oggi, nella città di Davide, è nato per voi (natus est vobis) un Salvatore” (v. 11). È nato “uno che vi salva”, cioè uno che vi rende vivi, attraverso il quale la vita entra nelle vostre vite e nel vostro mondo.
Il vangelo che abbiamo appena ascoltato ci racconta proprio questo: la salvezza che si apre un varco nella nostra storia, nel nostro mondo, nelle nostre vite, nelle nostre comunità. Come? Attraverso una narrazione in cui possiamo individuare tre movimenti.
Il primo è quello della storia, del contesto: un racconto che si presenta come un susseguirsi di eventi e situazioni che non hanno nulla di davvero inedito. Comincia con la grande storia dove c’è un imperatore, uno dei tanti, che ha bisogno di assicurarsi il controllo della situazione, che ha bisogno di contare… Contare i suoi sudditi, nell’illusione di renderli così sempre più “suoi”. Quanti folli (piccoli e grandi) ancora oggi avvertono il bisogno di aggiogare, manovrare altri… che si sentono vivi (salvi!) solo nella misura in cui possono disporre di vite umane?! Che si ubriacano della loro pretesa onnipotenza, perché hanno paura della loro fragilità.
Ci sono poi i sudditi, che vanno a farsi registrare, che obbediscono all’imperatore. Gente più o meno consapevole di quell’umiliazione cui si sottomettono, più o meno arresa allo strapotere di chi dovrebbe invece prendersi cura di loro. Gente varia… Tra loro ci sono anche Giuseppe e Maria, che anch’essi obbediscono. Anche qui nulla di nuovo: quanti popoli ancora oggi sono soggetti, più o meno consapevoli, a capi che anziché proteggerli e guidarli al bene, li umiliano e ne usano?! Popoli che non sanno come spezzare quel giogo o che vi sono talmente assuefatti da non vederlo neppure più.
Emerge poi anche il volto di un villaggio, di una società, in cui una giovane coppia nel bisogno non trova accoglienza, al punto che il loro figlio sarà partorito in un ricovero per animali. Eppure Giuseppe, secondo l’evangelista, discende dagli abitanti di quel villaggio. Ma evidentemente quella parentela originaria (quella fraternità originaria) è dimenticata. Sono solo estranei, come tanti che le nostre società considerano tali: altri da noi, per i quali non c’è posto.
Infine ci sono i pastori, i marginali. Loro l’alloggio non lo hanno per status. Pernottano all’aperto per vegliare sul gregge. Tra le tante classi sociali, ci sono anche
costoro: gli ultimi degli ultimi, emarginati da un tessuto comunitario che li vede come maledetti a motivo della loro comunanza con gli animali.
Potenti che si atteggiano a onnipotenti, popoli umiliati che accettano il loro destino, società distratte al bisogno dei più deboli, marginali che vivono da esclusi. Sembra che questa pagina parli di noi, delle nostre società!
Tutto potrebbe finire qui… E potremmo concludere: nulla di nuovo sotto il sole! Ma ecco (ed è il secondo movimento) che in quel contesto irrompe una voce di angeli. Angeli che parlano di gioia (vi annuncio una grande gioia), di salvezza (è nato per voi un Salvatore) e di pace (sulla terra pace agli uomini, che egli ama). Quel quadro cupo è attraversato da una parola che immette luce, che lacera la cappa opprimente di quel presente. Una voce, che viene dall’alto e annuncia il “Cristo Signore”, entra nella storia.
È la buona notizia cui questa notte noi vogliamo ancora, nuovamente, credere. Già credere… che significa: accogliere e vivere. Nella nostra storia e nelle nostre vicende entra Dio stesso: il Dio del cielo si fa Dio-con-noi. Questo significa che in mezzo a prepotenti e umiliati, a carnefici e vittime, a bisognosi di accoglienza e a cuori induriti e distratti, ci è annunciata, e noi annunciamo, la presenza e la manifestazione del Figlio di Dio. E questo per pura grazia, per puro dono.
Ma il racconto ci invita ancora a un terzo sguardo (un terzo movimento). Ai pastori l’angelo del Signore dice: “Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia” (v. 12). C’è la storia, c’è l’annuncio e poi c’è il “segno”… Segno è ciò che rivela, ma anche ciò che indica una direzione; e dunque una logica da accogliere e un cammino da percorrere. I pastori infatti “vanno” a Betlemme, per “vedere”. Vedere cosa?
Vanno a vedere la via per la quale quella salvezza sta entrando nella storia. Vanno a vedere la via per la quale quella salvezza continua (ancora oggi per noi) a entrare nelle nostre storie: un bambino in una mangiatoia. Un’immagine disarmante e al limite del deludente! Ma che è chiarissima nel suo significato: questa è la porta per la quale la salvezza è entrata nel mondo! Questa ancora per noi oggi è la porta per la quale la salvezza, la vita, può entrare in noi e presso di noi!
Il segno è chiaro! E si rivolge a noi che questa notte ci rimettiamo in ascolto di questa buona notizia e che in questa nostra assemblea liturgica vogliamo portare, insieme a noi stessi, il nostro mondo afflitto da guerre e violenze, le nostre comunità ferite…
Il segno è chiaro! C’è un unico modo per lasciare che quella salvezza entri e risani il nostro cuore e il nostro mondo: guardare a ciò che giace in basso, non a ciò che
s’innalza; sperare in ciò che è piccolo e indifeso, non in ciò che è grande e luccica; scegliere ciò che è umile, non ciò che s’impone! Questo vangelo ci riconsegna un messaggio sconvolgente: la vera autorità, il vero potere, ciò che davvero cambia la storia e le nostre storie, quello che le salva, sta in basso e non in alto; è in una mangiatoia e non sul trono dei potenti.
Nelle situazioni critiche e a volte disperate… le nostre… anche quelle delle nostre famiglie, comunità e società, il mistero del Natale ci ricorda che c’è sempre speranza… che è possibile ricominciare, ma dal basso: non dalle strategie dei forti, ma da ciò che è umile. C’è una via di uscita per questa nostra umanità, ma questa richiede il coraggio dell’umiltà!
Questo vangelo ci ricorda che Cesare Augusto non ha mai salvato nessuno, mentre il bambino avvolto in fasce ha salvato l’umanità intera. Ci ricorda che la pace vera non è la pax romana di cui i Cesari di turno si fanno propugnatori, fatta di compromessi e calcoli e spesso di menzogne, ma quella che ci viene da quel Bambino inerme, che ci riporta all’essenziale della nostra umanità: che ci riporta per terra! Su una terra benedetta, unico luogo in cui potremo tornare a guardarci negli occhi senza paura e senza risentimento. Da esseri umani: tutti umani! Solo umani! E per questo chiamati a diventare dèi con il nostro Dio.
Ci ricorda che i forti e la forza non salvano né danno la pace. Che noi non abbiamo bisogno di un uomo forte, né abbiamo bisogno di essere forti per trovare gioia, salvezza e soprattutto pace. Abbiamo bisogno di umanità: la piccola, fragile umanità che si può scorgere nel sorriso di un bambino, di un inerme, di un indifeso, di un povero… Del povero che siamo anche noi, se ci riconosciamo tali.
Se abbiamo una forza, un’autorità… è quella della nostra povertà! È lì che il Dio-con-noi entra e opera, entra e risana, entra e ci dona la pace!
Celebrando la memoria della nascita del Messia Gesù vogliamo ancora una volta convertire il nostro modo di guardare. Vogliamo smettere di credere che la pace ci viene dai potenti e dai loro metodi, che la pace ci viene dalla violenza e dalla sopraffazione. Vogliamo invece continuare a cercare in mezzo a tante parole urlate, quella mite che rasserena il cuore; in mezzo a tanti atti di prepotenza, la carezza di un Dio che viene senza imporsi.
Celebrare il Natale del Signore Gesù significa per noi accogliere il “suo” segno. Per questo noi siamo qui questa notte: per dire ancora una volta in chi noi confidiamo, di chi noi ci fidiamo, da chi attendiamo la salvezza per le nostre vite; e dunque su quale cammino vogliamo impegnare noi stessi, per ricominciare…
Vogliamo imparare da lui, come dice ancora Paolo nella lettera a Tito, da lui che ci ha insegnato a “vivere in questo mondo con sobrietà, giustizia e pietà” (v. 12). Allora il nostro essere ritroverà la sua dignità, le nostre relazioni saranno per noi motivo di gioia, le nostre comunità luoghi di epifania dell’amore del Signore. La via è tracciata: è in quel “segno” che in questa notte santa si mostra ai nostri sguardi.
Per gentile concessione del Monastero di Bose