Una regalità altra
Siamo giunti all’ultima domenica di questo anno liturgico e le letture ci invitano a contemplare il mistero della regalità di Gesù il Messia. Si tratta di una festa nata in un contesto diverso dal nostro, prestatasi a volte a letture trionfalistiche che in verità il testo evangelico sconfessa. Gesù di Nazaret è infatti il Messia d’Israele e, come messia, è re. Ma la sua è una regalità diversa da quella mondana e anche da quella che alcuni al suo tempo attendevano.
Stando alle testimonianze evangeliche, egli non sembra riconoscersi nella tradizione sacerdotale né in quella profetica, benché dell’una e dell’altra abbia assunto alcuni tratti. È invece la qualità regale-messianica quella che avverte più prossima alla sua missione: è il Messia, il figlio di Davide, il re atteso, promesso da Dio a Davide e al popolo.
Eppure al termine di una serie di dispute in cui si confronta con varie categorie di religiosi del suo tempo e appena prima di entrare nella passione, Gesù stesso aveva sollevato un interrogativo circa la sua discendenza davidica e dunque la sua regalità: “Come mai gli scribi dicono che il Cristo è il figlio di Davide?” (Mc 12,35). Lui che pure, appena prima, non aveva rifiutato le parole di Bartimeo né quelle della folla che avevano detto “figlio di Davide” (Mc 10,47-48; 11,10).
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Gesù sa di essere il re-messia e discendente di Davide, e dunque di adempiere la promessa, ma sa di essere anche altro. O meglio, la sua regalità è altra rispetto a quella di Davide e a quella che molti si attendevano e forse si attendono ancora. Altra certamente rispetto a quella mondana. Celebrare dunque la regalità di Gesù è l’occasione per cogliere alcuni tratti di questa “regalità altra” o di questa “autorità altra” esercitata da Gesù.
Il messaggio evangelico su questo è chiaro. Gesù vi appare così diverso dai dominatori di questo mondo. Anzi, ne è vittima. Diverso da Pilato, colui che in questa scena esercita il potere a nome del re-imperatore e che alla fine decreterà la morte di Gesù.
Eppure, tra i due, è il condannato che agisce e parla con autorità. Nelle domande che si susseguono tra Gesù e Pilato, è quest’ultimo che sembra doversi difendere. Gesù invece conserva quello che possiamo considerare uno dei tratti essenziali della regalità autentica: la libertà e la franchezza nel dire la verità anche a rischio della propria vita. Gesù è nelle mani di Pilato, perché gli è stato “consegnato”, eppure è libero. Non ha paura, perché non sembra temere di perdere nulla, non avendo più nulla di proprio da difendere, e quindi non deve scendere a compromessi. Pilato invece, come mostra lungo tutta la vicenda della passione, si sente costretto a fare anche ciò che non ritiene giusto, sotto la spinta dei capi e della paura che scoppi un tumulto (19,12-16).
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Il dialogo inizia con la domanda di Pilato: “Sei tu il re dei Giudei?” (v. 33). Sembra una domanda retorica e forse beffarda: un re ridotto in quel modo e soprattutto non riconosciuto da nessuno, neppure dai suoi capi religiosi che lo hanno consegnato nelle mani del governatore occupante! Che re può essere?
Gesù risponde rivolgendo a sua volta una domanda a Pilato: “Dici questo da te stesso o altri ti hanno parlato di me?” (v. 34). È come se tentasse di coinvolgerlo nella sua affermazione per aiutarlo a esercitare un discernimento giusto, piuttosto che allinearsi con ciò che altri gli chiedono di fare.
Pilato si sottrae e addossa la responsabilità ai capi: “Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me” (v. 35). Un pessimo esempio di autorità, che si lascia trascinare dagli eventi, che cerca solo di non scontentare e di attirare consensi. Non importa se chi viene accusato sia o no davvero colpevole. Pilato sembra addirittura ignorare ciò di cui Gesù è accusato: “Che cosa hai fatto?” (v. 35).
Ma al v. 36 il clima sembra mutare: Gesù assume la sua regalità, ne spiega i tratti a Pilato e cerca con decisione di condurlo a un esercizio responsabile della sua autorità. Dichiara la propria regalità, ma precisa: “Il mio regno non è di questo mondo … il mio regno non è di quaggiù” (v. 36). Rivendica la particolarità del suo regno, che si esprime secondo una logica che non è mondana, e dunque che non si difende con la violenza e la guerra: “Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato” (v. 36). Non ha bisogno di essere difeso.
Quindi, a una nuova domanda di Pilato – “Dunque, tu sei re?” (v. 37) – Gesù risponde: “Tu lo dici: io sono re” (v. 37). Gesù è re, ma non come lo intende Pilato, né secondo l’autorità incarnata da lui e dai capi glielo avevano consegnato. Dunque precisa: “Per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità” (v. 37). Ciò che lo costituisce re è la sua capacità di rendere testimonianza alla verità, che significa anche pagare per la verità; con la vita, se necessario.
Questo rende Gesù un vero re e questo significa esercitare un’autentica autorità: restare dalla parte della verità, a qualsiasi costo, anche della vita. Le autorità che Gesù invece ha davanti a sé si lasciano guidare da calcoli di convenienza: si adeguano a ciò che conviene in vista del mantenimento del proprio potere. A loro non sta a cuore la verità, ma l’interesse del momento, e soprattutto la propria incolumità.
In questa scena né i sacerdoti né Pilato mostrano quella libertà necessaria ad esercitare una vera autorità: l’unico davvero libero è il prigioniero Gesù. Perché ha dalla sua parte la qualità essenziale dell’autorità e dell’autentica regalità: la parresia e la libertà di dire la verità, essendo lui stesso la Verità (Gv 14,6).
Gesù qui è re, perché è libero, perché non ha paura. Nulla gli può essere tolto, perché ha già rimesso tutto nelle mani del Padre, come lui stesso aveva dichiarato: “Nessuno mi toglie la vita ma io la depongo da me stesso. Ho infatti l’autorità di deporla e di riprenderla di nuovo” (Gv 10,18). Fondamento di ogni autentica autorità e regalità è il non avere niente di proprio da difendere. Allora si è sufficientemente liberi per poter esercitare la regalità del dire la verità.
Gesù è il re dell’universo. Ma un re altro rispetto a quello di cui spesso danno spettacolo le autorità di questo mondo. Un re la cui signoria non schiaccia ma libera, non toglie il respiro ma aiuta a vivere, non prende la vita altrui ma offre la propria. Grazie alla sua libertà da se stesso, Gesù rende liberi gli esseri umani da ogni schiavitù, compresa quella del peccato.
Per gentile concessione del Monastero di Bose