Due bisogni, un’unica compassione
Nel brano evangelico di domenica scorsa abbiamo ascoltato l’invio in missione dei Dodici. Il lezionario prosegue con il racconto del ritorno di quei discepoli che ora, non a caso dopo la missione, sono detti “apostoli” (letteralmente: “inviati”, unica ricorrenza di questo termine in Marco): “Gli apostoli/inviati si radunarono attorno a Gesù e gli annunciarono (dal verbo apanghéllo, dalla stessa radice di “evangelo”) tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato” (v. 30).
Coloro che erano stati inviati ora tornano da chi aveva loro confidato quella missione e a lui “portano l’annuncio” di quanto hanno fatto e insegnato. Curioso l’uso del verbo apanghéllo in quel “riferire” a Gesù. Come se “evangelo” non sia solo la parola da essi rivolta a quanti hanno incontrato nella loro missione, ma anche ciò che essa ha realizzato nelle esistenze di quanti l’avevano accolta.
Gli inviati tornano ed è un momento di gioia per il frutto di cui sono stati testimoni. Ma su quella gioia il lettore dell’evangelo coglie l’ombra di un evento tragico, che Marco ha appena raccontato, proprio tra l’invio in missione e questo resoconto: l’uccisione del Battista (6,17-29), che così incastonato sembra voler aprire uno spazio di riflessione sulla missione. L’elaborazione di quel lutto è una ragione in più per la pausa di riflessione che Gesù chiede ai suoi, poiché la vicenda di Giovanni rivela qualcosa di importante circa la missione di ogni annunciatore del vangelo.
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Gesù dunque invita i Dodici in disparte, con insistenza: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’” (v. 31), poiché “molti andavano e venivano” al punto da non lasciare loro il tempo “neppure di prendere pane” (v. 31).
Gli inviati erano tornati soddisfatti dei loro successi. Tutto sembra procedere per il meglio, eppure Gesù, che non indugia su quei racconti, li richiama a un’altra dimensione. Una reazione che forse stupisce, ma non è inedita. All’inizio del vangelo, infatti, allorché Gesù aveva iniziato a raccogliere i primi successi, si era anche lui allontanato in un “luogo deserto” (1,35). E ai discepoli che, con tono stupito o forse anche risentito gli avevano detto: “Tutti ti cercano!”, Gesù aveva risposto: “Andiamocene altrove” (1,36-38).
Gesù invita i suoi a “riposare”, come traduciamo il verbo greco anapáuo, che torna anche all’inizio del Sal 23: “[Il Signore] mi conduce ad acque di riposo” (Sal 23,2), un salmo riecheggiato anche nel racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci, che segue immediatamente (6,35-44). Li invita a riposare nel deserto, con un chiaro riferimento all’esodo dall’Egitto, tempo di prova e di maturazione.
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Sostare nel deserto è l’altra dimensione della missione, da non trascurare soprattutto quando l’abbondanza di buoni frutti potrebbe invogliare a intensificare le attività. Proprio lì, in quel frangente, Gesù invita i suoi a ritirarsi, a non lasciarsi prendere dall’euforia del successo, che spesso distoglie da ciò che è altrettanto necessario: nutrire nel silenzio e nella solitudine quella vita interiore che solo può rendere autenticamente feconda la missione, impedendo agli annunciatori di diventare dei mestieranti, più o meno efficaci, dei dissipati che corrono in una vita che perde di senso ogni giorno di più.
Trovo significativa questa immagine di un Gesù che si prende cura di coloro che ha inviato in missione: ai suoi occhi non si riducono a operai di cui servirsi o da sfruttare.
Ma proprio qui, ai margini di quel “luogo deserto” che si profila, ricompaiono le folle, che vedono, comprendono, accorrono e precedono, in un susseguirsi di azioni che dice bisogno, ricerca, desiderio, fatica: “Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero” (v. 33).
Un’irruzione che Gesù non respinge, da cui si lascia afferrare, proprio come era accaduto all’inizio del vangelo quando, dopo il ritiro in cui lo avevano scovato i discepoli e mentre li invitava a seguirlo altrove, era stato quasi sedotto da un lebbroso che lo aveva supplicato in ginocchio con parole cui Gesù non aveva saputo resistere: “Se vuoi, puoi purificarmi!” (1,40). La reazione di Gesù, lì come in questo caso è la stessa: “Ne ebbe compassione” (1,41; 6,34), due forme del verbo splanchnízomai, che potremmo rendere con “fu afferrato nelle viscere”.
In ambedue questi brani è narrata la tensione all’interno della quale nasce, si alimenta e diventa feconda ogni missione che viene dall’evangelo. Così era stato per Gesù, così è ora per i discepoli e a questo siamo chiamati ancora noi oggi
Da una parte vi è il bisogno di anachóresis degli inviati; dall’altra ci sono le folle in ricerca, affamate di senso, di parola di consolazione, di sguardo amorevole. La parola davvero evangelica nasce in questo dramma, in cui il ruolo fondamentale è giocato da quel sentimento profondo che muove ogni cosa e che dà senso a parole e gesti: “Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose” (v. 34).
Prima Gesù ha visto il bisogno dei Dodici, ora vede il bisogno delle folle. Due bisogni in cui si rivelano i due atteggiamenti che ogni annunciatore è chiamato a coltivare: quello di una vita di solitudine e di preghiera, di una vita d’intimità con il Signore e con se stessi, di una vita pensata e non solo subita; e simultaneamente la capacità di non rinchiudersi in una solitudine confortevole che potrebbe risolversi in rifiuto dell’altro e incapacità a vederne il bisogno, l’altro che è sempre da accogliere, perché solo la capacità di accoglienza attesta l’autenticità anche del silenzio e della preghiera. Il “luogo deserto” in cui gli apostoli sono invitati non può impedire loro di continuare e vedere le folle. È un deserto di marginalità, non di segregazione.
Ciò che provoca in Gesù compassione è poi l’abbandono in cui vede vagare il popolo: “Erano come pecore che non hanno pastore”; parole che rimandano ad almeno due passi dell’Antico Testamento: Nm 27,17 e 1Re 22,17, come anche alle parole di quei profeti che ripetutamente avevano ammonito i pastori negligenti (cf. in particolare Ger 23 ed Ez 34). Inizia dunque lui stesso a esercitare la funzione del pastore: prima insegnando (v. 34), poi imbandendo un banchetto in quel “luogo deserto” (6,35), nuova ricorrenza dell’espressione incontrata al v. 31.
Il “luogo deserto” in cui gli apostoli sono invitati a ritirarsi diventa così il “luogo deserto” in cui “loro stessi” (6,37) dovranno dare da mangiare alle folle affamate: non vi è più opposizione tra le due dimensioni! E in quel deserto Gesù dispenserà un nutrimento che ricorda la manna con cui Dio aveva sfamato i figli d’Israele. Lì imbandirà un banchetto diverso da quello in cui appena prima Erode aveva fatto uccidere Giovanni il Battista. Al banchetto di palazzo, espressione dello strapotere di un re fantoccio, segue il banchetto nel deserto, che il re Messia misericordioso imbandisce, insieme ai suoi inviati, per sfamare un popolo affaticato e disorientato, ma in ricerca.
Per gentile concessione del Monastero di Bose