Fedeltà e attesa
Breve riassunto:
Il commento di Sabino riflette sull’annuncio della seconda venuta del Figlio dell’uomo, che segna sia la fine sia l’inizio del ciclo liturgico cristiano. L’evangelo di Marco invita i credenti a vivere con fedeltà il presente, mantenendo uno sguardo verso il ritorno del Signore, in attesa del compimento della salvezza. Questa attesa non implica distogliersi dalla storia, ma vivere con responsabilità e vigilanza, senza lasciarsi ingannare da segni o profeti falsi. Gesù insegna a discernere i veri segni della sua venuta, rappresentati dal germogliare del fico, simbolo di speranza e di un futuro rinnovamento. Infine, si sottolinea che nessuno conosce il giorno preciso del ritorno, nemmeno il Figlio, che partecipa pienamente alla nostra attesa, testimoniando la sua solidarietà con l’umanità e con tutta la creazione.
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Al termine dell’anno liturgico come all’inizio, il lezionario ci propone di fare memoria del ritorno del Signore nella gloria alla fine dei tempi. L’evangelo di questa domenica, la penultima dell’anno liturgico, annuncia infatti la seconda venuta del Figlio dell’uomo, nella redazione dell’evangelista Marco, e, nella prima domenica di Avvento, sentiremo risuonare la medesima promessa nella versione di Luca, seguita dall’invito alla vigilanza.
Aprire e chiudere l’anno con questo annuncio ci aiuta a ricordare l’orizzonte in cui il credente è chiamato a celebrare l’intero ciclo liturgico e soprattutto a vivere l’intera sua esistenza. Siamo nella storia – nella quale il Signore Gesù si è incarnato facendosene solidale fino in fondo e per sempre – ma tenendo lo sguardo fisso al suo ritorno, con cui egli porterà a compimento il mistero di salvezza che celebriamo e nel quale siamo innestati, insieme a tutte le generazioni e a tutta la creazione.
Restare fedeli alla terra e alla storia, ma con lo sguardo e il cuore protesi verso il ritorno del Signore: questo è il centro dell’annuncio del vangelo di questa domenica. Fedeltà al tempo presente e attesa del suo compimento, infatti, non confliggono. Tutt’altro! Attendere non significa dare credito a segni o voci che intendono distogliere dalla responsabilità alla storia, come dice Marco nei versetti precedenti al nostro testo (13,5-23): dal “badate che nessuno vi inganni…” (13,5) al “voi fate attenzione! Io vi ho predetto tutto” (13,23). Si attende “perseverando fino alla fine” (13,13) e vegliando (13,37). Perseverando nel proprio cammino di sequela e vegliando per restare desti e poter scorgere e accogliere il Signore che viene.
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Attendere il Signore che torna significa credere nella sua fedeltà alla creazione e nel suo amore incondizionato. Se ritorna è perché ama questa creazione e non può lasciare che essa vada in perdizione, ma piuttosto attende di poterla trasfigurare in lui.
Tutto questo è detto nel linguaggio apocalittico proprio dei passi in cui è annunciato il compimento. Linguaggio che fa uso di immagini perché più che mai parla di realtà che eccedono la nostra comprensione: non è facile discernerne il “come” e ignoriamo anche il “quando” (v. 32).
Il brano evangelico di questa domenica costituisce il centro del capitolo tredicesimo di Marco, che racchiude il cosiddetto “discorso escatologico”, collocato appena prima del racconto della passione, morte e resurrezione.
L’intero discorso prende le mosse da due parole rivolte a Gesù. La prima, “mentre usciva dal tempio”, gli è indirizzata da un non meglio specificato “discepolo” che lo invita ad ammirare la grandiosità del tempio (13,1); e Gesù risponde rivelandone la fine. La seconda, “mentre stava seduto … di fronte al tempio” (v. 3), è una domanda rivoltagli in disparte da quattro discepoli – Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea – che gli chiedono quando ciò sarebbe accaduto e quale ne sarebbe stato il segno (v. 13,3-4). L’intero discorso ha dunque come punto di partenza quel tempio che negli episodi narrati nei versetti precedenti, a partire dall’ingresso in Gerusalemme (11,11), è stato particolarmente presente.
Così sollecitato, Gesù tiene un discorso che è allo stesso tempo rivelativo ed esortativo, costituito da due parti in tensione tra loro, con al centro l’annuncio vero e proprio, che è il brano di questa domenica.
Scopo della prima parte (13,5-23) è svelare quelli che potrebbero essere considerati segni e non lo sono e i falsi profeti e i falsi messia che cercano di indurre a ritenerli tali. L’esortazione, marcata dai tanti imperativi che ritmano il testo, è a non lasciarsi ingannare, e dunque a vivere quelle situazioni, anche le più dolorose, con responsabilità. L’invito è a non fuggire la storia, cedendo ad allucinazioni apocalittiche che non mancheranno mai nel corso dei secoli e che cercano di svuotare il tempo presente con facili fughe in avanti. Scopo invece della seconda parte (13,33-37) è esortare a restare comunque in attesa di quell’evento promesso, senza adagiarsi in un presente che si esaurisce in se stesso. Sono così rappresentati i due rischi che ogni comunità cristiana conosce: l’impazienza che diventa fuga e il rilassamento che deriva dall’aver smesso di attendere.
Al centro vi è poi l’evento a cui guardare e da cui lasciar trasformare il presente: la venuta del Figlio dell’uomo, annunciata da immagini cosmiche che riprendono testi profetici (cf. Is 13,10; 15,34; 34,4; Gl 2,10; 4,15). Con ciò si sottolinea non solo che quell’evento sarà immediatamente visibile a tutti e non solo a degli iniziati che ne riceverebbero una rivelazione segreta, ma anche che si tratta di una ricapitolazione che coinvolgerà l’universo intero.
Precisato il “come”, Gesù passa al “quando”, che affronta ricorrendo a un’immagine, quella del fico, che nella sua realtà Gesù aveva incontrato in un episodio critico, raccontato al capitolo undicesimo (11,12-26): un fico sterile, come qui connesso con il tempio, che egli aveva inaridito perché vi aveva trovato tante foglie ma nessun frutto.
Ora si parla di foglie tenere che spuntano: “Quando il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie” (v. 28). Gesù chiede di imparare a discernere i segni che annunciano il frutto, che altri non è se non il Figlio dell’uomo. Un frutto che viene da altrove, inviato dal Padre. Ai discepoli non è rivelato il tempo, ma è riconosciuta la capacità di intuire il segno: l’intenerirsi del ramo.
Segni non sono dunque guerre, carestie e persecuzioni, né le promesse menzognere di falsi profeti che cercano di sedurre e ingannare, ma il tenero germogliare di un ramo che sarà preludio a uno sconvolgimento cosmico in cui la promessa del ritorno del Figlio dell’uomo si compirà in modo a tutti visibile e da tutti riconoscibile.
Infine, una nota sulla conclusione circa l’ignoranza del Figlio. Dice Gesù: “Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre” (v. 32). Un’affermazione che ha posto non pochi problemi alla teologia trinitaria, ma che possiamo leggere come un ulteriore segno di quella piena adesione del Figlio alla nostra condizione umana e alla nostra attesa. È come dire che il Figlio attende insieme a noi il tempo del suo ritorno. Non ci lascia soli neppure nell’attesa, ulteriore segno della sua straordinaria condiscendenza. Anch’egli, insieme a noi e a tutta la creazione, attende di ritornare, perché Dio sia tutto in tutti. Questa è la promessa che l’evangelo ci consegna e ci chiede di custodire.
Per gentile concessione del Monastero di Bose