Uno sguardo che riorienta
Nella scena conclusiva del brano evangelico che precede il nostro, su cui abbiamo meditato domenica scorsa, Gesù indica la via per la quale è possibile entrare nel regno di Dio: accogliendolo con l’atteggiamento di un bambino (10,15). Il brano di questa domenica si apre e si chiude con il tema della “vita eterna”: nel primo versetto, l’uomo ricco chiede a Gesù “che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” (v. 17); e nell’ultimo è il Maestro a promettere “la vita eterna nel tempo che verrà” (v. 30).
Entrare nel regno o ereditare la vita eterna sono due espressioni che richiamano una medesima realtà: quell’oltre di pienezza che, in vari modi, ogni essere umano desidera e cerca. La correlazione tra le due espressioni è peraltro chiaramente suggerita da Gesù quando, commentando l’allontanarsi dell’uomo ricco, afferma: “Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio” (v. 23; cf. anche v. 24).
L’accostamento dei due brani rende ancora più drammatica la scena dell’uomo ricco: Gesù ha appena indicato la via, quella del bambino, che entra perché capace di accogliere il Regno come un dono; e ora gli si para dinanzi un uomo che sembra voler conquistare quella vita, carico del suo “bene” e legato ai suoi “beni”.
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Si tratta in ogni caso di entrare in uno sguardo, in uno spazio, in una vita. Ma come bambini o come protagonisti? Carichi di beni e di meriti, o aperti al dono della grazia che opera tramite le fede? Forse è in questa opposizione il cuore del messaggio del brano evangelico di questa domenica, non limitandosi a mettere in guardia dai pericoli delle sole ricchezze materiali.
La pericope si compone di tre dialoghi tra Gesù e vari interlocutori: il primo con l’uomo ricco (v. 17-22); il secondo con i discepoli (v. 23-27); il terzo con Pietro (v. 28-30). Tre dialoghi di grandissima intensità drammatica, come Marco sottolinea scandendoli con il triplice sguardo di Gesù. Quello pieno di amore che rivolge all’uomo della prima scena: “Gesù fissò lo sguardo (emblépsas) su di lui, lo amò e disse…” (v. 21). Quello ai discepoli che lo attorniano: “Gesù, volgendo lo sguardo attorno (periblepsámenos), disse…” (v. 23). E infine quello con cui fissa ancora Pietro e gli altri: “Gesù, fissando lo sguardo (emblépsas) su di loro, disse…” (v. 27). Si tratta di sguardi intensi, che amano e interrogano e, soprattutto, che cercano di riorientare il modo di guardare degli interlocutori di Gesù, e il nostro. Il Maestro guarda, per spingerci a guardarci dentro e a interrogarci su cosa davvero cerchiamo mentre camminiamo dietro a lui, su quale regno e quale vita desideriamo.
Il filo conduttore delle tre scene è infatti quello dello sguardo con cui ci poniamo dinanzi a Dio, a Gesù, alla Torah, alla sequela. Con il cuore semplice del bambino? O con il carico di beni dell’uomo ricco e la sottile aspettativa di ricompensa di Pietro e degli altri discepoli? Non ci sono infatti solo le ricchezze materiali. Ve ne sono anche di spirituali, spesso ben più insidiose delle prime.
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All’uomo che gli si accosta chiamandolo buono, Gesù infatti ricorda innanzitutto che “nessuno è buono se non Dio solo” (v. 18). Una reazione che stupisce e interroga. Non è escluso che Gesù vi colga un’adulazione che rigetta prontamente. Ma forse reagisce così perché scorge in chi gli sta dinanzi il pericolo dell’autocompiacimento e dell’autogiustificazione. Nessuno è buono, neanche tu, sembra suggerirgli Gesù. Nel passo parallelo, Matteo offre un indizio per avvalorare questa lettura. Lì l’uomo ricco, infatti, dice: “Maestro, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna”; e Gesù gli risponde: “Perché mi interroghi su ciò che è buono? Buono è uno solo” (Mt 19,16-17). Come a dire: non si tratta di fare qualcosa di “buono” per credersi “buono”, ma di riconoscere l’unico “Buono”. Forse, prima ancora che di “beni”, quest’uomo è ricco di “bene”, di “bene fatto”.
Gesù lo rimanda infatti alla Torah e ne ottiene come risposta la reazione compiaciuta di chi sa di aver fatto tutto il dovuto, con una sicurezza e una completezza che stupisce: “Tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza” (v. 20). Tutto e da sempre! Dunque, non gli resta che ricevere l’attestato di buona condotta.
Ma Gesù, cogliendo in quel suo essere lì, comunque un desiderio e dunque una fenditura, cerca di aprirgli il cuore, e fargli scorgere che non si tratta di seguire delle norme, ma di entrare in una relazione. Guarda quell’uomo con amore, per ricordargli che, prima di fare qualcosa – “che cosa devo fare?” era stata la sua domanda (v. 17) – egli ha da sentire su di sé lo sguardo di amore del Creatore. A chi chiede un codice che faccia meritare la vita eterna, Gesù propone un cammino dietro a lui che è la Vita. Per questo gli chiede di liberarsi degli ingombri che lo appesantiscono, perché avrà bisogno di camminare: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!” (v. 21).
I molti beni sono di impedimento a chi è in cammino, e qui l’evangelo ci descrive una sconfitta, una vocazione fallita, dopo quelle dei discepoli in cui la risposta era stata generosa. Si tratta di una possibilità, anche per noi, ragione per cui questo “tale” non ha nome. L’esito allora è la tristezza: “Si fece scuro in volto e se ne andò rattristato” (v. 22). Una tristezza che contagia anche i discepoli, che pure avevano lasciato tutto e avevano seguito Gesù, come dirà poco oltre Pietro (v. 28). Gesù infatti prosegue, rivolgendosi ora a loro: “Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!” (v. 23); e ripete: “Figlioli (tékna), quanto è difficile entrare nel regno di Dio!” (v. 24). Sì, è difficile! Bisogna saperci entrare. Bisogna farlo col passo del bambino, che sa accogliere il dono di Dio. Infatti, allo sconcerto e allo stupore dei discepoli (v. 24 e 26), Gesù reagisce dicendo: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio” (v. 27). Espressione, quest’ultima, che ne ricorda un’altra pronunciata poco prima: “Tutto è possibile per chi crede” (9,23). Non si tratta di “fare” ma di “lasciar fare”: azione certo non meno esigente, perché è più difficile accogliere che meritare. Ma questa è la via per entrare nel Regno!
Inizia quindi il terzo dialogo, provocato da Pietro il quale, con una punta di soddisfazione, ricorda a Gesù che ciò in cui l’uomo ricco ha fallito, loro lo “hanno fatto”: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito” (v. 28), impiegando significativamente i due verbi del discepolato: “lasciare” e “seguire”. A differenza di quanto leggiamo nel racconto parallelo di Matteo, qui Pietro non chiede la ricompensa: “Che cosa dunque ne avremo” (Mt 19,27). Fa solo presente quello che “hanno fatto”, presumibilmente con un sentimento di compiacimento, ancora innocente. Ma Gesù replica con delicatezza che sì hanno “lasciato”, ma molto di più è quello che hanno “ricevuto nel tempo presente”; e anche “la vita eterna nel tempo che verrà”, la riceveranno, “insieme a persecuzioni” (v. 30).
L’immagine del bambino, che sa accogliere il Regno, è dunque la chiave: per l’uomo ricco come per i discepoli, e per il credente di ogni tempo. Sono molte le ricchezze che possono appesantire i nostri passi o i calcoli che siamo tentati di fare, in ogni stagione della nostra vita. Non basta lasciare. Non basta aver lasciato. È necessario restare fino alla fine con le braccia aperte e gli occhi capaci di stupore.
Per gentile concessione del Monastero di Bose