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Sabino Chialà – Commento al Vangelo di domenica 1 Dicembre 2024

Domenica 1 Dicembre 2024 I DOMENICA DI AVVENTO - ANNO C
Commento al brano del Vangelo di: Lc 21,25-28.34-36

Alzate il capo

Le letture bibliche della prima domenica di Avvento del nuovo anno liturgico che ora inizia sono attraversate dalla prospettiva escatologica. Il loro contenuto di fondo è un richiamo alla vigilanza, ma il loro messaggio globale è anche memoria dell’essenzialità della vita teologale cristiana. Geremia (33,14-16) sottolinea la dimensione della fede, fede nella promessa divina, nella “parola di bene” (hadavar hatov; verbum bonum: CEI traduce “promesse di bene”) che il Signore realizzerà. Il brano di Paolo (1Ts 3,12-4,2) ha al suo cuore la carità, che l’apostolo chiede che cresca e sovrabbondi tra i cristiani di Tessalonica perché questa è la pratica di umanità che rende una vita gradita a Dio. Il vangelo (Lc 21,25-28.34-36) chiede speranza, speranza anche di fronte a eventi calamitosi e che il credente, se vigilante, sa vedere nella loro relatività e scorgere, dietro ad essi, il Signore che viene e portando liberazione. Dunque, fede, speranza e carità. Ma il tutto è reso possibile da una pratica di vigilanza senza la quale non esiste alcuna qualità umana e spirituale salda.

La dinamica spirituale che sottostà al testo profetico emerge se lo leggiamo in rapporto alla profezia di Ger 23,5-6 di cui il nostro testo costituirebbe una rilettura tardiva. Il passo di Ger 23 annuncia l’avvento di un re giusto, probabilmente salutando l’accesso al trono di Giuda di Sedecia, il cui nome in ebraico significa “il Signore è la mia giustizia”. Dopo aver condannato nel capitolo precedente (Ger 22) gli ultimi sovrani di Giuda, Geremia pone le speranze in Sedecia.

Ma ben presto, come quasi sempre succede nelle storie di accesso al trono di un nuovo re, il successore si mostra infedele e delude le attese riposte in lui. A distanza di molti anni, anzi, forse anche di un secolo o due, in ogni caso quando la monarchia in Giuda è ormai estinta, ecco che un anonimo profeta riprende la profezia di Geremia e la ridice in un contesto nuovo. È il testo di Ger 33,14-16. Ci troviamo di fronte alla prova del tempo che passa e di una parola del Signore che sembra morta per sempre: Sedecia, che si rivelò pessimo re, è morto, e la monarchia è finita.

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L’evidenza e il buon senso chiedono di credere al reale e di adagiarvisi; la santa follia del profeta afferma che la parola di bene che il Signore aveva pronunciato, risorgerà. “Ecco verranno giorni nei quali io risusciterò la parola di bene che ho fatto un tempo alla casa d’Israele e di Giuda” (Ger 33,14). Certo, il tenore del testo muta. Non è nei suoi giorni (Ger 23,6, cioè di Sedecia) che Israele sarà salvato, ma “in quei giorni” (Ger 33,16), la prospettiva è escatologica; non è Sedecia che sarà chiamato “il Signore è la nostra giustizia” (Ger 23,6: lo chiameranno), ma Gerusalemme (la chiameranno: Ger 33,16): non ci si incentra più su una figura singola, ma sulla collettività, sul popolo.

Sorge la domanda: che significa l’efficacia della parola di Dio? Quando e come la parola si realizza? Credere nella sua efficacia non significa sapere il modo del suo farsi storia. Nel nostro testo, la delusione delle speranze centrate su una persona, su chi avrebbe dovuto regnare e governare, non intaccano la fede che anzi si semplifica, si essenzializza, si ricentra su Dio e sulla sua parola e diventa più spoglia, più nuda, più aspra, più vera.

Certo, tutto questo ha un prezzo esistenziale, personale e collettivo di sofferenza e di dolore, comporta il ripensamento e la revisione critica del passato, della fede stessa, delle proprie immagini di Dio, comporta il riconoscimento di un fallimento e l’elaborazione di speranze mal riposte, di fiducia tradita, comporta domande su di sé, su Dio, sulle figure di mediazione e realizzazione della volontà di Dio. Ma attraverso questo lacerante processo di lutto la fede può (non necessariamente, ma può) diventare più essenziale, più serena, più sgombra da attese e preoccupazioni di altro tipo. Si tratta di credere di più alla parola di Dio che all’evidenza della propria vita e della storia. E qui il salto della fede diventa pressoché un salto mortale.

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Ma non è forse ciò che facciamo noi continuando a credere e a professare la venuta del Signore e a dichiararla vicina, prossima, “imminente”, quando sono duemila anni che essa è attesa come prossima? Noi continuiamo a fare fiducia alla parola del Signore che ha detto “Io vengo presto”. E crediamo di più a quella parola che all’evidenza di una storia umana incapace di liberarsi dal male e che anzi lo moltiplica e lo riproduce e lo estende. Crediamo, vogliamo credere di più alla promessa di bene del Signore che all’evidenza del nostro fallimento, che alle derive che può vivere la nostra comunità cristiana e alla miseria in cui giace la compagine ecclesiale. E così, tra un passato di fallimento e un futuro ignoto, il gioco tra il tempo che viene e quello che è irrimediabilmente passato porta a concentrare l’attenzione sull’oggi come unico spazio e tempo in cui testimoniare la validità e la potenza della promessa di Dio di cui si attende il compimento in un futuro che Dio, non l’uomo, conosce.

Ed è sull’oggi come tempo della vigilanza che verte il discorso di Gesù. Luca infatti storicizza il discorso escatologico di Gesù. Per lui, la caduta di Gerusalemme non è segno della fine dei tempi, ma inizio dei “tempi dei pagani” (21,24). Sono questi i tempi delle genti, i tempi in cui ci troviamo noi stessi, tempi che si concluderanno con la venuta del figlio dell’uomo a cui si fa cenno rapidamente nel v. 27. E anche mentre narra dei segni premonitori della parusia, in realtà egli pone l’accento sul risvolto storico e umano di tale dramma che è il dramma stesso della storia guidata da Dio.

E Luca mostra l’atteggiamento diverso dei credenti rispetto ai non credenti, agli “uomini” (21,26). Ciò che per questi è motivo di angoscia, di paura, di ansia fino a morirne, per gli altri, che guardano la storia con la vigilanza di coloro che attendono il Signore che viene, che continuano a credere alla promessa della venuta del Signore, ecco che quel tempo, quel frangente, quel loro presente, può divenire l’occasione di alzare il capo e di accogliere la liberazione. Non di piegare il capo confessando la propria impotenza di fronte a eventi di male soverchianti, siano essi cataclismi naturali o guerre e violenze, ma di tenere alta la fronte avendo fissi gli occhi all’invisibile, esattamente come Mosè che guidò i figli d’Israele fuori dalla casa di schiavitù “restando saldo come se vedesse l’invisibile” (Eb 11,27).

E come la liberazione del popolo di Dio dall’Egitto fu preceduta da segni, piaghe, sconvolgimenti cosmici in cui i figli d’Israele seppero discernere l’approssimarsi della loro liberazione, ma che causarono angoscia, paura e morte presso gli Egiziani, così sarà per i credenti di fronte al Veniente. Nei tempi dei pagani i cristiani devono restare saldi e fermi incassando la testa fra le spalle per resistere sotto i colpi e le prove, ma viene l’ora di rialzare il capo, di raddrizzarsi perché viene il Signore, viene la liberazione.

Però, per questo discernimento occorre vigilanza e preghiera. Ecco dunque l’esortazione dei vv. 34-36 che porta l’attenzione dei discepoli e dei destinatari del vangelo al loro oggi. Gesù chiede ai discepoli di porre mente a se stessi, di prendersi cura di sé, di stare attenti a se stessi: Attendite autem vobis. La radice della vigilanza è in questo atteggiamento di attenzione e dialogo, relazione e critica nei confronti di se stessi. L’atteggiamento contrario è quello del lasciarsi vivere, del non prestare attenzione a sé, del non prendersi cura di sé. Qual è il rischio? Luca parla dell’appesantimento del cuore (21,34). Come possiamo tradurlo?

Comporta indolenza e pigrizia, tedio e senso di impotenza, chiusura su di sé, ripiegamento solipsistico, restringimento degli orizzonti, atteggiamento rinunciatario e rassegnazione. E volontà di fuga dalla realtà attraverso vie di stordimento e alienazione. L’appesantimento del cuore è appesantimento del corpo e dello spirito: non a caso Gesù elenca (21,34) gli eccessi del cibo (dissipazioni, cràpula), del bere (ubriachezze) e le preoccupazioni smodate per sé e per la propria vita (affanni della vita, angosce esistenziali).

La pesantezza diviene ottundimento dei sensi e insensibilità spirituale, indifferenza agli altri e non ascolto: diviene un abdicare alla vita pur continuando a vivere. Diviene distrazione, dimenticanza, oblio del Signore e della vocazione. Diviene un vivere senza sapere perché e per chi, diviene un camminare senza direzione. E tutto questo dice come ciò che affligge “gli uomini”, affligge anche quegli uomini che sono i credenti (che sempre sono dei credenti non-credenti). Anche loro conoscono l’angoscia, la synoché (21,25), la strettezza di cuore, il soffocamento, l’essere in balia di fantasmi interiori, espropriati della padronanza di sé e agiti da forze estranee ma interne.

Anche loro conoscono l’ansia, letteralmente l’aporía (21,25), cioè l’aver perso la strada, il cammino, dunque lo smarrimento, il disorientamento; anch’essi conoscono la paura, phóbos (21,26), cioè il terrore paralizzante; anch’essi conoscono la prosdokía (21,26), l’attesa ansiosa di ciò che deve accadere, un’attesa che genera insicurezza e incertezza. Ecco dunque il senso dell’accorato invito alla vigilanza da parte di Gesù: non si tratta di un’esortazione morale, ma dell’atto che restituisce la persona a se stessa ponendola in relazione con il Signore.

Per gentile concessione del Monastero di Bose

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