Qualche tempo fa, mi sono incappato in una critica al cristianesimo che più o meno suonava così: «Il loro Dio è amore, ma solo se lo accogli, altrimenti sono guai. Finisce l’amore e inizia l’ira di Dio».
Se per un istante volessimo dare credito a tale critica, possiamo chiederci: Che senso ha parlare di giudizio dopo aver detto quella che senza difficoltà potrebbe essere considerata l’espressione e la rivelazione la più bella del vangelo? (Giusto per essere sulla stessa lunghezza d’onda, mi sto referendo al versetto 16 che dice: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna»).
La risposta è nei versetti seguenti: il giudizio non è qualcosa di aggiuntivo che Dio infligge, ma è la conseguenza della scelta dell’uomo che preferisce le tenebre alla luce, l’odio all’amore, la morte alla vita. Se ci fosse realmente una vita, un amore, una luce diversi da se stesso, Dio li darebbe volentieri. Il nodo, tutto. Il nodo della questione, è qui. Come umani ci sottovalutiamo, non riconosciamo la nostra “capienza”. Siamo capax Dei. Mi piace tradurre questa espressione così: abbiamo la capienza di accogliere e di godere di Dio.
Rifiutarlo è rimanere con il serbatoio vuoto. È autocondannarci al vuoto, alle tenebre, alla solitudine.
Fonte: il sito di Robert Cheaib oppure il suo canale Telegram
Docente di Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e l’Università Cattolica del Sacro Cuore.