Presentazione della Beatificazione di Papa Giovanni Paolo I

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Alle ore 11.30 di questa mattina, presso la Sala Stampa della Santa Sede, si è svolta la Conferenza Stampa di presentazione della Beatificazione di Papa Giovanni Paolo I (al secolo Albino Luciani), che avrà luogo domenica 4 settembre in Piazza San Pietro.

Sono intervenuti: l’Em.mo Card. Beniamino Stella, Postulatore della Causa di Beatificazione; la Dott.ssa Stefania Falasca, Vice-Presidente della Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I , Vice-Postulatrice della Causa; Don Davide Fiocco, Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I , in rappresentanza della Diocesi di Belluno-Feltre; la Dott.ssa Lina Petri, Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I , nipote del Pontefice; Suor Margherita Marin, delle Suore di Maria Bambina; Padre Juan José Dabusti, Sacerdote dell’Arcidiocesi di Buenos Aires.

Pubblichiamo di seguito l’intervento del Cardinale Beniamino Stella e di Don Davide Fiocco, nonché la testimonianza della Dott.ssa Lina Petri, di Suor Margherita Marin e di Padre J. José Dabusti:

Intervento dell’Em.mo Card. Beniamino Stella

All’inizio di questa incontro mi sembra opportuno ricordare brevemente la storia della Causa di beatificazione e canonizzazione di Albino Luciani, Giovanni Paolo I.

Sono passati 44 anni dalla sua morte, da quel 1978 che vide tre Successori di Pietro susseguirsi alla guida della Chiesa. Sono passate diverse generazioni. Ma bisogna ricordare che già subito dopo la morte di Giovanni Paolo I – un Papa che in poco più di un mese aveva conquistato il cuore di credenti e non di tutto il mondo – la sua fama di santità, già presente in vita, cominciò a diffondersi. Tanti fedeli avevano cominciato a pregarlo. L’allora vescovo di Belluno-Feltre, diocesi natale di Albino Luciani, ricevette molte richieste affinché ne introducesse la Causa.

La tappa più significativa di queste richieste è datata 1° giugno 1990, quando l’intera Conferenza Episcopale del Brasile chiese a Giovanni Paolo II di iniziare il processo. Ho definito questa tappa come significativa perché attesta la fama di santità e la sua diffusione crescente nel tempo, ottemperando così a una condizione fondamentale per l’introduzione di una causa di canonizzazione. I 226 vescovi firmatari evidenziarono le motivazioni che li avevano portati all’istanza solidale, considerato l’esempio dell’ habitus virtuoso del Vescovo di Roma, Albino Luciani, che si mostrò «sintesi tipica dell’uomo di Dio, il quale è pienezza di umanità e insieme pienezza di Cristo» e come tale egli «fu apostolo del Concilio, di cui spiegò con cristallina lucidità gli insegnamenti e tradusse rettamente in pratica le direttive». Pertanto «la nostra più intima convinzione – affermavano in conclusione i vescovi brasiliani – è che stiamo interpretando il giudizio favorevole di molti altri fratelli nell’episcopato, e traducendo una vivissima aspirazione dei fedeli della Chiesa del Brasile, come dei cattolici di tutto il mondo».

I tempi però non erano evidentemente ancora maturi. Purtroppo quell’importante petizione da parte di uno degli episcopati numericamente più importanti del mondo, non smosse nulla. Il Dicastero per le Cause dei Santi, rispose infatti al vescovo di Belluno-Feltre, Maffeo Ducoli, che l’avvio del processo appariva prematuro, essendo già in corso le cause riguardanti altri Papi (Pio IX, Giovanni XXIII, Paolo VI).

Una svolta fu l’iniziativa del secondo successore di Ducoli, il vescovo salesiano mons. Vincenzo Savio, che nel 2002, alla vigilia del venticinquesimo anniversario della morte di Giovanni Paolo I, ottenne il consenso di iniziare il processo a Belluno e non a Roma, sede competente in quanto luogo dove il Candidato agli Altari era morto. In effetti Luciani aveva vissuto la sua intera vita – tranne gli ultimi 34 giorni di pontificato – in Veneto, tra Canale d’Agordo, Belluno, Vittorio Veneto e Venezia, e dunque questa deroga era più che giustificata. L’inchiesta prese dunque avvio il 22 novembre 2003 e si chiuse il 10 novembre 2006. Il processo diocesano si articolò in 203 sessioni, durante le quali – nelle sedi episcopali di Belluno, Vittorio Veneto, Venezia e Roma – vennero escussi 167 testimoni, tutti de visu a eccezione di uno, dei quali nove ex officio e ai quali si aggiungono le deposizioni di tre periti della Commissione storica. A questa, nella fase romana della Causa, ne seguì un’altra suppletiva, nel 2007, condotta dalla vice postulatrice, dott.ssa Stefania Falasca, presso la sede patriarcale di Venezia per integrare l’investigazione delle fonti con l’acquisizione di ulteriore documentazione, in particolare le carte dell’Archivio Privato di Albino Luciani, oggi patrimonio della Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I. Furono inoltre acquisite nuove deposizioni extraprocessuali di altri v entuno testimoni con particolare riferimento al periodo del pontificato e alla morte di Giovanni Paolo I, dei quali un’importanza del tutto eccezionale riveste la testimonianza di papa Benedetto XVI per il suo finora unicum storico, in quanto è la prima volta che un papa emette una testimonianza de visu su un altro Papa e quella di suor Margherita Marin, che visse con Giovanni Paolo I per un mese insieme alle altre tre consorelle che si occupavano dell’appartamento papale.

Il 17 ottobre 2016 i cinque corposi volumi della Positio con un totale di oltre tremilacinquecento pagine furono depositati presso il Dicastero per le Cause dei Santi. L’8 novembre 2017 Papa Francesco autorizzava la pubblicazione del Decreto riguardante le virtù eroiche di papa Luciani, che diventava così “Venerabile”.

Alla fine di novembre di quello stesso anno si concludeva a Buenos Aires in Argentina anche l’Inchiesta diocesana, avviata l’anno precedente dalla vice postulatrice, per il caso della presunta guarigione straordinaria, avvenuta nel 2011 di una bambina per la quale era stata prospettata la morte imminente a causa di una grave forma di epilessia refrattaria e shock settico. Abbiamo qui il sacerdote José Dabusti che pregò per la sua guarigione ottenendo il miracolo, e ne ascolteremo la testimonianza. Il 13 ottobre 2021 papa Francesco ha autorizzato il Dicastero a promulgare il Decreto riguardante il miracolo. La Consulta medica dello stesso Dicastero aveva previamente riconosciuto, all’unanimità, trattarsi di una vicenda inspiegabile per la scienza. È stato il passo che ha aperto la strada alla beatificazione, che stiamo per celebrare.

Diciannove anni di lavoro: la causa di Papa Luciani, anche se si è aperta a 25 anni dalla morte, non è stata né più lunga di altre, né più breve e agevolata di altre, per essere lui un Pontefice della Chiesa. È stata una ricerca senza sconti: accurata, coscienziosa, scrupolosa, condotta con metodo storico-critico, sulla base di una seria e omnino plena investigazione delle fonti archivistiche, di una mirata ricerca bibliografica e di un ricco panorama testimoniale. Tutto è stato fatto secondo le regole canoniche, con scienza e coscienza da parte di chi vi ha lavorato per anni con passione e dedizione. Le fonti hanno poi permesso di stendere la prima biografia completa 1

Permettetemi ora di spendere una parola sul cuore di questa Causa, cioè sulla santità di Albino Luciani, che ho conosciuto personalmente da seminarista e poi da sacerdote. Era il mio vescovo e di lui conservo il migliore ricordo: uomo di preghiera assidua e profonda, di attento ascolto e capace di sostegno umano e spirituale, come pastore di sacerdoti e di popolo di Dio, dotto e preparato come maestro della fede e buon comunicatore della Parola di Dio, amico e fratello dei sacerdoti, visitatore dei malati e catechista impareggiabile. Di Luciani metterei in evidenza tre caratteristiche: sacerdote che pregava, che viveva poveramente e che si sentiva bene con la gente. In relazione alla povertà mia madre soleva citare, talvolta, monsignor Luciani, per dire che il sacerdote non doveva avere conti in banca e libretto di assegni. Penso che lo avesse sentito da lui stesso nelle periodiche visite ed incontri dei genitori in seminario.

La santità di vita cristiana di Giovanni Paolo I è quella che si vive nella umiltà e nella dedizione quotidiana alla Chiesa e al prossimo, ispirate dalle virtù teologali, praticate con fervore interiore, e dove la croce e il sacrificio, e talvolta l’umiliazione, hanno da contribuire a rendere il discepolo di Gesù più vicino al suo Signore. Una fede che va all’essenziale del Vangelo, che è annuncio e pratica della carità. Da prete, vescovo e Papa è stato capace di manifestare attraverso la sua vita la tenerezza di un Dio misericordioso e materno.

La santità di Papa Luciani è importante per la Chiesa e per il mondo di oggi perché attraverso il suo esempio siamo richiamati al cuore della vita cristiana: all’umiltà e alla bontà di chi sa riconoscersi peccatore bisognoso di misericordia, di chi vuole servire con dedizione generosa e con opere di bene gli altri, annunciando la gioia del Vangelo. Luciani ci testimonia il volto di una Chiesa umile, laboriosa e serena, preoccupata della sequela del suo Signore, lontana dalla frequente tentazione di misurare l’incidenza e il valore del Vangelo dallo stato di opinione della gente, o della società, nei propri confronti.

Ma c’è un ultimo elemento che vorrei segnalare: Albino Luciani ci ha insegnato attraverso la sua testimonianza di vescovo, che ha a cuore la dimensione universale della Chiesa, l’importanza dell’amore generoso e dell’obbedienza incondizionata al Successore di Pietro, così come il grande valore dell’unità e della comunione episcopale. Diversi episodi della sua biografia ci parlano di questo suo atteggiamento, frutto della sua fede profonda, che riconosce l’importanza della comunione ecclesiale, vissuta talvolta nel sacrificio e nella rinuncia a posizioni e percezioni personali, per il bene della Chiesa e della sua vocazione innata all’unità, tanto desiderata da Gesù nell’Ultima Cena. Nella prefazione al volume sul Magistero di Giovanni Paolo I – che presenta per la prima volta ora il corpus completo e integrale dei testi e documenti di Giovanni Paolo I nel corso del suo pontificato, un servizio fondamentale che è stato realizzato per la cura della Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I – papa Francesco, riprendendo le parole del santo vescovo Oscar Romero, afferma che: «il Successore di Pietro è la pietra di consistenza sulla quale prende unità la Chiesa che Cristo stesso edifica, col dono della sua grazia. E se le porte dell’inferno e la morte non prevarranno, questo non accade per le “spalle fragili” del Papa, ma perché il Papa “è sostenuto da Colui che è la vita eterna, l’immortale, il santo, il divino: Gesù Cristo, nostro Signore”. E questo è il mistero che risplende anche nella vicenda e negli insegnamenti di Giovanni Paolo I» 2

1 Stefania FALASCA, Davide FIOCCO, Mauro VELATI, «Io sono la polvere» Giovanni Paolo I 1912-1978, Biografia ex documentis , ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 2022.

2 GIOVANNI PAOLO I, Il Magistero, Testi e documenti del Pontificato, a cura della Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I, con Prefazione di Papa Francesco, ed LEV-San Paolo, Città del Vaticano-Cinisello Balsamo 2022, p.7.

Intervento di Don Davide Fiocco

1. Un grande evento per una piccola diocesi

È una piccola diocesi quella di Belluno-Feltre – circa 180.000 abitanti – ma in questi giorni vive con intima gioia questo evento che la riguarda.

Giunge alla meta un percorso iniziato parecchi anni fa, grazie all’intuizione e alla lungimiranza di mons. Vincenzo Savio, vescovo dal 2001 al 2004. Aprendo il sinodo diocesano nel 2003, egli invitò la sua diocesi a riscoprire la santità fiorita tra le sue vallate, in modo particolare il cammino di “don Albino” – come ancora è chiamato – che era la più evidente testimonianza. Il vescovo vi intravedeva «la possibilità di approfondire il contesto di fede familiare e locale in cui Albino Luciani era cresciuto»; e ancora evidenziava «la particolarità della formazione dei seminari di Feltre e di Belluno, da cui uscirono in quegli anni figure di spicco, in particolare il gesuita padre Felice Cappello e padre Romano Bottegal». Da quest’impulso è nato il processo di canonizzazione, che eccezionalmente venne avviato nella diocesi natia, anziché in quella della morte.

2. La reliquia

La reliquia proviene dall’Archivio Privato Albino Luciani, oggi patrimonio della Fondazione Vaticana Giovanni Paolo, che verrà portata al Papa nel corso della cerimonia di Beatificazione. È lo schema di una riflessione che Luciani dettò nel 1956 sulle tre virtù teologali, che significativamente saranno riprese nelle udienze del settembre 1978.

Il reliquiario è stato ideato e realizzato dallo scultore Franco Murer, un artista di Falcade, conterraneo di Albino Luciani. Egli ha fatto una scelta di materiali altamente simbolica: per basamento ha scelto una pietra raccolta nel fondovalle di Canale d’Agordo, simbolo di quel fondamento familiare e parrocchiale, su cui il giovane Albino ha fondato le sue scelte di vita. Il basamento è sormontato dalla rappresentazione di una croce scolpita in un ciocco di legno, ricavato dagli schianti della tempesta Vaia (ottobre 2018): rappresenta le traversie dell’esistenza di Luciani, su cui la Provvidenza ha saputo tracciare un cammino di santità. La semplicità della realizzazione dà il dovuto risalto allo scritto autografo del futuro Beato, incastonato nel simbolo cristiano per eccellenza, la Croce.

Dopo la beatificazione la reliquia con il reliquiario saranno conservati nella Cattedrale di Belluno, nella quale Albino Luciani prestò il suo ministero dal 1943 al 1958 e dove, il 23 novembre 2003, venne solennemente aperta la Causa di Beatificazione e Canonizzazione.

Un ritorno a casa, un ritorno alle origini della sua predicazione, un ritorno alle radici.

3. Le radici della santità di Papa Luciani

E infatti – sull’onda di quanto indicava mons. Savio – la beatificazione di Giovanni Paolo I impone di riconsiderare anche il background , nel quale affondano le radici della sua santità, con uno sguardo alla comunità parrocchiale di origine.

Sappiamo che in quei decenni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento furono anni difficili, segnati dall’emigrazione, dalla prima guerra mondiale, da un’economia di sussistenza. Tuttavia – a dispetto di molte vulgate, che troppo spesso hanno decantato l’umiltà e la provincialità del paese natale – la ricerca storica racconta la vitalità di una terra di confine, che fu sede di iniziative economiche e sociali che vantano la primogenitura anche a livello nazionale e soprattutto fu fucina di personalità di un certo rilievo.

Non è un caso che durante il Concilio Vaticano II – caso forse unico al mondo – questa piccola parrocchia montana contasse tra i Padri conciliari ben tre prelati: mons. Luciani, vescovo di Vittorio Veneto; padre Saba De Rocco († 1984), generale dei Somaschi; mons. Giovanni Battista Costa († 1996), figlio di emigranti e primo vescovo di Porto Velho in Brasile.

Testimone della vitalità culturale della Pieve di Canale d’Agordo è pure la biblioteca parrocchiale, formatasi con i lasciti dei vari pievani. Attesta una sorprendente varietà di interessi, che spaziano dalla teologia alle scienze esatte, libri in tedesco, greco, arabo, ebraico, vocabolario e grammatica cinesi e anche opere che a rigor di canoni figuravano tra i “libri proibiti”.

A sostenere la vitalità sociale e culturale del contesto furono soprattutto i parroci. Va menzionato don Antonio Della Lucia († 1906), portabandiera del cooperativismo sociale, che nel 1872 fondò la prima latteria sociale cooperativa d’Italia e fu propugnatore dell’alfabetizzazione della popolazione; è il formatore dei formatori di Albino Luciani.

Va poi ricordato don Filippo Carli († 1934), il maestro del futuro Beato. Fu lui che gli insegnò la necessità di un linguaggio comprensibile, istanza che Luciani ebbe come stella polare fin nelle udienze della Sala Nervi. Fu lui che nel 1931 incaricò il giovane chierico Albino Luciani di catalogare la biblioteca, compulsando e recensendo oltre 1.200 volumi: e questi lo fece da par suo, concedendosi anche qualche ambiziosa stroncatura, infiammato dall’ardore dello studente neofita. Questa inventariazione fu un significativo tassello per la solida preparazione umanistica e teologica che Luciani, aiutato da una formidabile memoria, possederà con padronanza per tutta la vita.

Infine, se don Filippo ha dato al futuro papa un imprinting pastorale, vanno ricordati anche i vescovi e i superiori del Seminario bellunese che sul giovane prete agordino investirono, incoraggiandolo a prepararsi a Roma. È quanto la diocesi di Belluno-Feltre ricorda con gratitudine.

4. Il coinvolgimento della Chiesa locale

A queste giornate romane sarà presente una folta rappresentanza di bellunesi, autorità e fedeli, che si uniranno alla diocesi di Roma nella veglia di sabato 3 settembre e soprattutto parteciperanno alla celebrazione di domenica mattina. Sarà il vescovo Renato Marangoni a formulare la petizione per la beatificazione, a nome della diocesi che è stata attrice della Causa.

Durante la primavera e l’estate ci sono stati vari momenti di preparazione a questo evento, di cui avvertiamo l’importanza storica. Si pensi che nel martirologio finora c’è soltanto un fedele originario della nostra diocesi, il beato Bernardino da Feltre († 1494).

Domenica 11 settembre è prevista la celebrazione di ringraziamento sulla piazza del paese natale, Canale d’Agordo. Sarà presieduta dal Patriarca di Venezia con al fianco i vescovi di Belluno-Feltre e di Vittorio Veneto. Durante il prossimo autunno i vicariati in cui è suddivisa la diocesi sono stati invitati a indire un pellegrinaggio al paese natale.

Nel frattempo sono entrati in fase di esecuzione i lavori per l’adeguamento liturgico della cattedrale di Belluno: è la chiesa in cui Luciani prestò servizio per 15 anni. Nel 1980 venne elevata al rango di basilica minore da Giovanni Paolo II, in onore del suo predecessore. Proprio la beatificazione ha dato impulso a questo progetto artistico.

La diocesi sente inoltre l’impegno a sostenere gli studi teologici nell’Istituto Superiore di Scienze Religiose, che condivide con le diocesi di Treviso e Vittorio Veneto e che è intitolato alla memoria di Giovanni Paolo I.

Infine la beatificazione è soprattutto una consegna che la diocesi natale sente di ricevere, per assumere lo stile del nuovo beato. In modo particolare, essa raccoglie lo stile di vita e del ministero di Papa Luciani, solennemente confermati nella beatificazione. Su questo stile la diocesi vuole misurarsi nel cammino sinodale che sta compiendo insieme alla Chiesa universale, rinnovando in particolare – com’è stato richiesto nei gruppi sinodali e nella sintesi diocesana – un impegno di annuncio e di catechesi.

Nella stessa direzione, dopo la pandemia, riprenderà slancio anche il Centro Papa Luciani di Santa Giustina, una struttura nata 40 anni fa come centro di evangelizzazione: in linea con lo spirito di “don Albino”, la nostra diocesi non gli dedicò un monumento, ma un luogo di catechesi e di formazione cristiana.

Testimonianza della Dott.ssa Lina Petri

Da parte mia vorrei solo dire qualche ricordo.

Mio zio Albino è diventato vescovo quando io avevo due anni. Di quando ero molto piccola ricordo quindi ovviamente poco, ho ben presente però alcune volte che si fermava a casa nostra a Levico, di passaggio per qualche impegno in Trentino. Erano visite improvvise e brevi, ma lasciavano mamma contenta. Io e mio fratello possiamo dire che abbiamo conosciuto in quegli anni lo zio attraverso i racconti della mamma. Ci raccontava della loro infanzia a Canale e in particolare di tanti episodi del duro periodo della guerra e della resistenza. Sono tanti episodi che mi sono rimasti impressi, anche quello che lo zio fece a commento dell’incontro tra Mussolini e Hitler che ebbero a villa Gaggia, tra Feltre e Belluno, nel luglio del 1943. A voce alta davanti altri disse: « Siòn ente man de doi matt . Siamo nelle mani di due pazzi». Nel corso di quegli anni terribili dell’occupazione, dei rastrellamenti, so che lo zio si era adoperato a Belluno anche a nascondere persone in pericolo, ebrei.

Al tempo del Concilio la mamma ci faceva pregare perché «il Signore lo illuminasse». Ogni volta che era a Roma per una sessione, lo zio mandava una cartolina, solo la firma, spesso la frase «un saluto benedicente». Mantenne sempre quest’abitudine, anche negli anni successivi. Ero già grande quando notai che spesso la cartolina era sempre la stessa e raffigurava la basilica di Sant’Antonio in via Merulana: una piccola attenzione verso mia madre che si chiamava Antonia.

Quando avevo 15 anni lo zio mi invitò a trascorrere qualche giorno durante le vacanze di Natale da lui in patriarchio a Venezia. Quei giorni hanno segnato per me l’inizio di un’amicizia. Così, negli anni del liceo e dell’università, dal 1970 al 1978, sono stata tante volte da lui a Venezia. Mi sollecitava ad andare a trovarlo quando volevo. Si informava dei miei problemi, si interessava ai miei studi. Ricordo che all’inizio del liceo mi chiese se mi piaceva di più san Tommaso o sant’Agostino e nel vedermi disorientata in merito, registrava con tristezza un decadimento dell’insegnamento rispetto ai suoi tempi… Mi parlava spesso di sant’Agostino, diceva che lo sentiva più vicino, che per capire le sue opere bisognava conoscere la sua vita e l’esperienza che aveva fatto del peccato e della misericordia di Dio. Quando mi spiegava anche cose profonde diceva i concetti con esempi chiari, come alle udienze generali del mercoledì.

Spesso mi ripeteva che a me lo legava particolarmente l’affetto per mia mamma, che tanto si era sacrificata per lui ed era dovuta emigrare per lavorare. Ma anche lo zio io l’ho sempre conosciuto povero: nel patriarcato di Venezia, al di là degli arredi “storici” non c’era nulla di sfarzoso o di particolare valore. Quando era arrivato a Venezia aveva dovuto arredare le camere degli ospiti, avendo i parenti del patriarca Urbani portato via quello che era proprietà del cardinale. «Voi però – ci diceva – alla mia morte non portate via nulla, anche se sono cose che ho comprato di tasca mia». Anche nel vestire era estremamente sobrio. Succedeva che suor Vincenza qualche volta passasse a mia mamma le sue canottiere di lana, i calzini, le camicie, ormai consunte e rammendate più volte, che poi venivano usate da mio papà, muratore, sul lavoro. Diceva suor Vincenza, la suora che lo ha seguito da Vittorio Veneto a Roma, che era l’unico modo di “far sparire” quella biancheria lisa senza che lo zio reclamasse per continuare ad usarla.

Molte volte andavo a trovarlo da sola. Sempre in quegli anni invitava la mia famiglia (i miei genitori, mio fratello e me) a trascorrere il Natale e la Pasqua con lui. Durante quegli incontri, immancabilmente la mamma esternava tutte le sue preoccupazioni sul brutto momento che si stava vivendo: le proteste del post Sessantotto, il terrorismo, le contestazioni al Papa. E gli diceva: «È tutto un rebaltòn … Albino, sono tanto preoccupata anche per te». Lo zio però si dimostrava sereno, la incoraggiava e le diceva: «Nina stai tranquilla, la Chiesa nei secoli ha superato momenti anche più gravi e difficili perché è il Signore che la guida. Lui c’è sempre». E aggiungeva: «Ciò che è Tradizione nei secoli rimane e ritorna, sempre». Suor Vincenza, mi raccontava che lo zio le diceva: «Le verità della fede le ho imparate da bambino, sono rimaste le stesse, sono sempre le stesse, e non sono cambiate da quando sono diventato prete a ora. Ed è questa Parola di Dio, che è immutabile, che dobbiamo proclamare, non la nostra». Ci diceva di continuare a recitare il Rosario in famiglia, «anche se tutti ora dicono che è una preghiera superata». Ci chiedeva in particolare di pregare per Paolo VI, che soffriva incomprensioni.

In patriarchio ospitava spesso cardinali provenienti da varie parti del mondo. Ricordo un suo scambio di visite con il cardinale Marty di Parigi. Una volta lo zio mi regalò una statuina della Madonna, copia di quella di Notre Dame, avuta in dono dall’arcivescovo di Parigi che era stato da lui il giorno precedente. Aveva ospitato più di una volta a Venezia il cardinale Thiandoum, e mi aveva parlato di quel vescovo africano. Mi diceva che queste visite gli aprivano un orizzonte di più grande respiro. Più di una volta mi disse pure che avrebbe desiderato vivere un’esperienza di missione in Africa e che non gli sarebbe dispiaciuto imitare il cardinal Léger che nel 1968 aveva rinunciato alla sede episcopale di Montréal per servire i lebbrosi in Camerun. Diceva che più avanti pensava di chiederlo anche lui al Papa.

Nell’autunno 1975 passai a salutarlo prima di partire per Roma, matricola all’università e prima che lui partisse per il viaggio in Brasile. Erano i primi giorni di novembre, uno o due giorni dopo l’uccisione di Pier Paolo Pasolini. Gli telefonò il vescovo di Udine, mons. Alfredo Battisti, per chiedere un consiglio sull’opportunità o meno di celebrarne i funerali religiosi. Le circostanze della morte erano scandalose e a me colpì molto come lo zio valutò la situazione: «La sua condotta di vita lasciamola al giudizio del Signore. Tutti noi, nessuno escluso, abbiamo bisogno della Sua misericordia. Le sue opere artistiche però» diceva «parlavano per lui e d’altra parte, in Friuli, da giovane, era stato attaccato alla pratica cristiana, ed era giusto che tornando adesso alla sua terra, la Chiesa lo accogliesse con la sepoltura cristiana». Mi colpì il suo criterio di valutazione che prima di tutto non condannava, ma salvava il buono e mi aveva colpito questa sua spiegazione limpida, da vero pastore.

Lo incontrai un’ultima volta a Venezia la sera del 5 agosto 1978, io di passaggio verso una vacanza con amici universitari e lui appena rientrato in patriarcato da alcuni giorni trascorsi agli Alberoni, dove si recava sempre in estate per un po’ di riposo. Durante la cena gli raccontai della morte per leucemia di un mio amico universitario. Ricordo il suo volto che mi diceva che bisogna stare sempre pronti, perché la morte può venire in qualunque momento: « L’importante l’é sta semper col Signor » mi aveva detto quella sera, che peraltro era una frase abituale con cui mi salutava sempre nel momento in cui andavo via. Verso la fine della cena di quel 5 agosto lo chiamarono al telefono e tornando mi disse di aver avuto notizia che Paolo VI non stava bene. Rimasi a dormire in patriarcato. Al mattino lo zio mi disse di aver saputo da Roma che era peggiorato. Mi salutò con la raccomandazione di pregare per il Papa. Lo rividi poi nell’udienza ai familiari del 2 settembre e negli incontri ufficiali del giorno dopo. Come semplice fedele ero presente anche alla messa di presa di possesso a San Giovanni in Laterano il 23 settembre. Nel mese di pontificato il comportamento sereno e saggio dello zio era rimasto quello di sempre. Nell’incontro privato con noi familiari, il 2 settembre, ci rassicurò subito dicendo: «Non ho fatto niente per arrivare fin qui. Quindi state tranquilli voi come sto tranquillo io». Del resto questo è stato sempre il suo atteggiamento in sintonia con il suo stile di vita.

Lo rividi infine disteso nel suo letto dopo la morte. Ricordo la sua camera nell’appartamento papale… da dove ero seduta lo guardavo e davanti a me sulla destra – tra le due finestre ad angolo della stanza – la scrivania… c’erano solo un crocifisso e la fotografia dei suoi genitori, i miei nonni materni, con in braccio mia cugina Pia, la loro prima nipotina.

Testimonianza di Suor Margherita Marin

Religiosa della Congregazione delle Suore di Maria Bambina, assistente presso l’appartamento papale durante il mese di pontificato di Giovanni Paolo I

Vidi per la prima volta Giovanni Paolo I due giorni dopo l’elezione, insieme alle altre suore della nostra comunità chiamate a svolgere il servizio di assistenza presso l’appartamento pontificio. Fino a quel momento non avevo avuto mai occasione di incontrarlo personalmente. Anche se Luciani era conosciuto da noi, perché fin dai tempi del suo episcopato a Vittorio Veneto aveva presso di sé le suore di Maria Bambina.

Ci accolse con semplicità, senza metterci in soggezione. Ci disse di pregare, che il Signore gli aveva dato un peso, ma che con il Suo aiuto e le nostre preghiere lo avrebbe portato avanti. Sapendo che ero la più giovane delle suore, avevo 37 anni, disse: «Mi spiace di aver portato via qualche suora giovane». Ci trattò da subito con familiarità. Ricordo che il giorno seguente al nostro arrivo mi mandarono insieme al segretario p. Magee a ritirare i paramenti e a chiudere la cappella privata del Papa, quella dove Paolo VI usava celebrare la messa al mattino con i suoi segretari, perché Giovanni Paolo I volle invece che la santa messa del mattino fosse celebrata nella cappellina privata all’interno dell’appartamento e fossimo presenti anche noi suore insieme ai segretari: «Noi siamo una famiglia e celebriamo assieme» disse.

Il giorno della messa solenne per l’inizio di pontificato accolse a pranzo anche le suore che erano state con lui in patriarcato a Venezia. Mostrò sempre molto riguardo verso noi suore. Io mi occupavo in particolare del guardaroba e della sacrestia, ma sbrigavo anche altri servizi quando c’era bisogno. Suor Cecilia era la cuoca, suor Vincenza era infermiera, mentre suor Elena coordinava il nostro lavoro. Suor Vincenza era la più anziana, conosceva il Santo Padre da molti anni, lo aveva conosciuto a Belluno al tempo in cui, giovane prete, ebbe problemi di salute e gli prestò assistenza come infermiera; quando poi divenne vescovo, egli richiese una piccola comunità di suore di Maria Bambina per l’appartamento episcopale e desiderò che ci fosse anche lei ad assisterlo. Suor Vincenza lo seguì anche a Venezia e fu l’unica delle suore che erano con lui a Venezia a venire in Vaticano. Suor Vincenza ci disse che non tanto volentieri aveva accettato di venire, perché si sentiva già anziana, ma che poi si trovava bene. Aveva avuto problemi di salute e il Santo Padre, ricordo, ci disse: «Sapete, suor Vincenza è sofferente di cuore e le ho detto di non camminare tanto e di prendere anche l’ascensore personale se ha bisogno».

Nel corso di quel mese io l’ho veduto sempre tranquillo, sereno, sicuro. Sembrava che avesse fatto da sempre il Papa. Anche nella preghiera si vedeva che era unito al Signore. Sapeva trattare con i suoi collaboratori con molto rispetto, scusandosi per recare disturbo. Non l’ho mai visto avere gesti di impazienza con qualcuno, mai. Infondeva coraggio. Era affabile con tutti.

Si alzava presto al mattino, intorno alle 5.00. Poi andava in cappella a pregare per un’ora e mezza. Stando sempre lì nelle vicinanze, noi suore da fuori lo vedevamo. Pregava sempre da solo, i segretari scendevano più tardi per la messa. La messa si celebrava alle 7.00. Mentre il Santo Padre era nella cappella noi suore recitavamo le lodi nel salottino accanto alla cucina, poi andavamo anche noi in cappella per la messa. Durante la celebrazione non faceva omelie. Ricordo invece che alcune volte, quando in quella giornata doveva celebrare la messa da qualche parte, lasciava il padre Magee celebrare al suo posto, e lui assisteva come semplice chierichetto. Rispettava il digiuno eucaristico, quindi solo dopo la messa faceva colazione. Terminata la colazione s’intratteneva nel suo studio per la lettura dei quotidiani e verso le ore 9.00 scendeva per le udienze. Il pranzo era intorno alle 12.30, poi si ritirava per il riposo pomeridiano. Nel pomeriggio solitamente si fermava in appartamento; studiava, leggeva e passeggiava leggendo. Qualche volta andava anche di sopra nel giardino pensile, poche volte è sceso nei giardini vaticani. Il cardinale Villot una volta gli aveva detto: «Santità, se lei scende nei giardini noi dobbiamo chiudere e non lasciar passare nessuno». «Allora», rispose il Santo Padre, «se dovete chiudere… io rimango qua». E così la maggior parte delle volte rimaneva in casa. Riceveva su sua richiesta alcune persone. Prima della cena recitava i Vespri con i segretari, spesso li recitava in inglese. La cena era verso le 19.30. Noi suore non servivamo a tavola, c’era per questo l’aiutante di camera Angelo Gugel. Diceva poi compieta con loro, e mentre noi eravamo ancora a riordinare il refettorio, veniva a salutarci. Tutte le sere. Ricordo che ci raccomandava sempre le preghiere per i tanti bisogni nel mondo, a me chiedeva sempre qualcosa riguardo alla preparazione della liturgia del giorno seguente; poi ci augurava la buona notte, salutandoci sempre con queste parole: «A domani, suore, se il Signore vuole celebriamo la messa assieme». Si ritirava presto.

L’ultimo giorno fu come gli altri. Al mattino entrò in cappella a pregare alla solita ora ed ha celebrato con noi la santa messa alle sette. Ha fatto normalmente colazione, poi si è fermato un po’ a leggere i quotidiani, quindi è andato giù per le udienze del mattino. Verso le 11.30 è ritornato su in appartamento e ricordo che è venuto in cucina, come spesso faceva, chiedendoci un caffè: «Suore, avete un caffè? Potreste prepararmi un caffè?». Si sedette prese il caffè e andò poi nel suo studio. Pranzò con i segretari e poi si ritirò per il solito riposo pomeridiano. Quel pomeriggio lì rimase sempre in casa, non si mosse mai dall’appartamento e non ricevette nessuno perché ci disse che stava preparando un documento ai vescovi. Io non so però a quali vescovi fosse indirizzato. Lo ricordo bene perché quel pomeriggio io ero a stirare nel guardaroba con la porta aperta e lo vedevo passare avanti e indietro. Camminava nell’appartamento con i fogli in mano che stava leggendo, ogni tanto si fermava per qualche appunto e poi riprendeva a camminare leggendo e, camminando, passava davanti dove mi trovavo io. Ricordo che vedendomi stirare mi disse anche: «Suora, vi faccio lavorare tanto… ma non stia a stirare tanto ben la camicia perché è caldo, sudo e bisogna che le cambi spesso… stiri solo il colletto e i polsi che il resto non si vede mica sa…». Me lo aveva detto in dialetto veneto, come spesso usava con noi.

Dopo cena ricevette la chiamata del cardinale di Milano Giovanni Colombo. Già al mattino avevo sentito il Santo Padre parlare con il padre Magee riguardo a questa telefonata. E dopo cena, il Santo Padre, andò a rispondere al telefono e parlò con il cardinale. Non ricordo esattamente quanto tempo rimase in quella conversazione, forse una mezza ora. Dopo venne da noi, come faceva sempre, per salutarci prima di ritirarsi nel suo studio. Ricordo che mi chiese quale messa gli avessi preparato per il giorno seguente e gli risposi: «Quella degli Angeli». Ci augurò la buona notte con le parole che ogni sera ci ripeteva: «A domani, suore, se il Signore vuole, celebriamo la messa insieme».

Ho impresso ancora nella memoria un particolare di quel momento lì: eravamo tutte assieme nel salottino con la porta aperta, la porta era proprio davanti a quella dello studio privato, e quando, dopo averci già salutato, il Santo Padre è stato sulla porta dello studio, si è girato ancora una volta e ci ha salutato di nuovo, con un gesto della mano, sorridendo… mi sembra di vederlo ancora lì sulla porta. Sereno come sempre. È l’ultima immagine che mi porto di lui.

Testimonianza di Padre Juan José Dabusti

Una domanda mi è stata rivolta spesso – a cominciare dalla vicepostulatrice della Causa prima ancora che venisse a Buenos Aires per aprire il processo canonico per l’accertamento del miracolo – e poi da tanti giornalisti che l’hanno ripetuta anche a Roxana Sosa e a sua figlia Candela dal 13 ottobre 2021, da quando cioè la Chiesa ha riconosciuto il miracolo di guarigione compiuto per intercessione di Giovanni Paolo I. La domanda è questa: perché proprio Giovanni Paolo I? E altre che hanno accompagnato questa “sana curiosità”:

Perché hai pregato proprio Giovanni Paolo I quando ci sono tanti santi in Argentina?

Perché quel giorno ti venne in mente di invocarlo?

Cosa ti ha ispirato, cosa ti ha spinto a pregarlo?

Certamente le domande non sono solo queste. Molte altre ne sono nate. E sono domande che mi hanno aiutato. In questi mesi, dall’approvazione del miracolo e dall’annuncio della beatificazione di Giovanni Paolo I, ho potuto approfondire nella mia preghiera personale, nei colloqui con tante persone, nelle testimonianze rese quanto accaduto in quel 22 luglio 2011.

Posso dirvi che tre linee si intersecano per tessere questo miracolo di Dio che ha avuto papa Luciani come intercessore. Mi piace chiamare queste tre linee in questo modo: una linea storica; una linea spirituale; una linea ecclesiale.

Queste tre linee che si incontrano sono incluse in questa semplice testimonianza per raccontare quella sera del 22 luglio del 2011 quando venni chiamato da una madre, Roxana, per recarmi al capezzale della figlia morente, e guardandola in quelle condizioni ebbi l’ispirazione di rivolgermi a Giovanni Paolo I per chiedere la guarigione della sua bambina, e insieme a lei, e ad alcune infermiere presenti, lo pregai.

Io fino a quel momento non avevo mai pregato Giovanni Paolo I per una guarigione. Ma la sua figura ha avuto a che fare con la mia vocazione. Nell’agosto del 1978, a soli 13 anni e all’inizio della mia adolescenza, rimasi veramente colpito dall’elezione e dalla persona di papa Luciani: vidi che era molto semplice e molto felice. Questi due tratti avevano catturato la mia attenzione e suscitato la mia ammirazione, soprattutto, il mio spontaneo affetto per lui.

Ricordo che, in quei primi giorni del suo pontificato, i media mandavano notizie, filmati e foto di Giovanni Paolo I. Fu così che, su un’anta di un armadio della mia stanza, collocai, insieme ad altre stampe, il suo ritratto. E a volte, guardando questo ritratto, ho pregato per lui.

Conservo anche nella mia memoria l’impatto che la sua morte improvvisa mi ha causato.

Crescendo l’ho pregato di aiutarmi a discernere la vocazione da seguire. Essere prete o cosa?… E sono certo che Albino Luciani fu un misterioso padre spirituale e un silenzioso ma efficace intercessore per me nel decidere di abbracciare la vocazione sacerdotale. Passati gli anni, diventato sacerdote nel 1991, la presenza di Giovanni Paolo I ha sempre avuto il suo posto nella mia spiritualità, più o meno forte.

Le linee storiche ed ecclesiali iniziano a fondersi nell’autunno del 2011, trovandomi, come parroco nella parrocchia di Nostra Signora di La Rábida al centro di Buenos Aires. In quei mesi notai una signora che frequentemente veniva a pregare e in diverse occasioni, a mezzogiorno, partecipava all’Eucaristia. Era Roxana Sosa. Sua figlia di 11 anni era stata portata in gravi condizioni nel centro sanitario vicino alla parrocchia, un rinomato centro ospedaliero in Argentina e in tutta l’America del Sud: la Fondazione Favaloro. Andavo nelle stanze di quell’ospedale, visitando i malati e le loro famiglie, quando venivo da loro chiamato.

Fu allora che Roxana mi parlò della grave malattia che aveva sua figlia Candela: una epilessia refrattaria maligna. Veniva dalla città di Paraná, a più di 500 km da Buenos Aires. Veniva sola a trovare la figlia durante la settimana. Il sabato e la domenica le altre due figlie gemelle viaggiavano con lei per fargli compagnia.

Così ho iniziato ad accompagnare Roxana: abbiamo parlato e pregato insieme. In tutte le messe chiedevo alla comunità di pregare soprattutto per la salute di Candela. Ricordo di essermi avvicinato più volte al reparto di terapia intensiva pediatrica dove si trovava intubata la piccola. In quel quinto piano, con Roxana, abbiamo condiviso accanto al letto di Candela il sacramento dell’unzione che le ho amministrato, le benedizioni e la tristezza per le condizioni disperate della bambina. Una forza esemplare ho visto scaturire dal cuore di questa madre.

Il 22 luglio verso mezzogiorno, mentre ero in parrocchia, Roxana è venuta a dirmi che i medici le avevano appena detto che Candela aveva contratto un virus in ospedale. Aveva la polmonite, uno shock settico e non pensavano che sarebbe sopravvissuta alla notte. Roxana mi ha chiesto di andare… a pregare ancora una volta… a benedirla…

Insieme siamo andati all’ospedale e siamo entrati nel reparto di terapia intensiva. Non ricordo, in quel momento, quanto personale medico fosse vicino al letto di Candela. Ci siamo avvicinati al corpo di Candela, che era in posizione fetale, non pesava più di 19 chili. E qui mi fermo. Devo fermarmi perché queste tre linee che si sono intersecate si perdono in… come dirlo con parole? In pochi punti. E in un’altra linea che è il mistero. Perché ho proposto a Roxana di pregare lì Giovanni Paolo I affinché intercedesse per la vita e la guarigione di Candela? Non lo so. È stato lo Spirito Santo.

Per noi sacerdoti è frequente trovarci in queste situazioni terminali nella vita delle persone. Quando visitiamo ospedali, case di cura siamo continuamente di fronte alla realtà della morte. Per questo affermo che è stata certamente una mozione dello Spirito a spingermi a proporre in quel momento lì questa preghiera a Giovanni Paolo I.

Roxana non sapeva nulla di papa Luciani. Dato che eravamo in terapia intensiva, la spiegazione che le ho dato per chiedere la sua intercessione per salvare la vita di Candela è stata molto breve. Così insieme, io e lei e due infermiere presenti abbiamo messo le mani sul corpo di Candela e io ho pregato spontaneamente. Non ricordo esattamente le parole che ho detto. Chiesi al Signore, per intercessione di Giovanni Paolo I, di guarire Candela.

Il giorno dopo, Roxana venne in parrocchia e mi disse che sua figlia non solo aveva passato la notte, ma che c’erano segni evidenti di miglioramento. Passarono i giorni e le settimane e Candela continuò la sua guarigione. Fino a quando ho perso i contatti con loro perché è stata dimessa ed è tornata nel Paraná. Voglio condividere con voi che ho sempre tenuto vivo questo fatto. Internamente ero certo di un intervento speciale di Giovanni Paolo I.

Le cose sono rimaste in un previdente silenzio fino alla fine del 2014, quando ho ritrovato Roxana e Candela nella parrocchia di La Rábida. È stata per me una grande gioia vedere una ragazza di quasi 15 anni piena di vita che non riconoscevo e sua madre. Sono venute a salutarmi. Roxana voleva che Candela mi incontrasse e anche che vedessi come si fosse ripresa, guarita. Quel pomeriggio chiesi a Roxana se si ricordava per chi avevamo pregato. E poi ho aggiunto: «Mi sembra che un giorno dovremo denunciare questo fatto meraviglioso».

Muchas gracias.

Fonte
Foto di  Clarín Group – Published in Clarín, 27 agosto 1978., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10350655