Commento a cura di:
Piotr Zygulski, nato a Genova nel 1993, dopo gli studi in Economia all’Università di Genova ha ottenuto la Laurea Magistrale in Filosofia ed Etica delle Relazioni all’Università di Perugia e in Ontologia Trinitaria all’Istituto Universitario Sophia di Loppiano (FI), dove attualmente è dottorando in studi teologici interreligiosi. Dirige la rivista di dibattito ecclesiale “Nipoti di Maritain” (sito).
Tra le pubblicazioni: Il Battesimo di Gesù. Un’immersione nella storicità dei Vangeli, Postfazione di Gérard Rossé, EDB 2019.
Nel vangelo giovanneo, i capitoli dal 13 al 17 sono tradizionalmente definiti il “discorso di addio” di Gesù, il cui messaggio è espresso da un monologo composito, con salti logici che si è tentato variamente di riordinare. Seguendo la redazione finale, tale “discorso” invita i discepoli a riconoscersi come già innestati nella vita di Dio attraverso tre fasi: lavanda dei piedi, purificazione e santificazione. Dopo la metafora del buon/bel pastore contrapposto ai pastori malvagi, quella della vigna autentica illustra come Dio voglia introdurci – prendendosi cura di ogni potenzialità – nello Spirito della gioia che si sprigiona dal vivere la medesima realtà.
Questo legame nel più ampio contesto di Gv 15,1-16,14 che mostra il senso del nostro legame è visto da tre prospettive: relazione con Gesù; relazione tra noi; relazione con il mondo. Oggi ci si ferma al v. 8, che fruttifica nell’esplicito comandamento dell’amore già vissuto da Gesù. L’immagine della vigna è chiara negli aspetti fondamentali: il vignaiuolo è il Padre, la vite autentica è Gesù, il tralci sono i discepoli. Il brano è così strutturato:
- Implicazione reciproca: attività del Padre (versetti 1 e 2), esortazione alla comunità (vv. 3 e 4), e al singolo credente contro le tentazioni egoistiche (vv. 5 e 6);
- Scelta di restare, perché i discepoli chiedano al Padre ciò che rende fecondo il Figlio (v. 7);
- Glorificazione del Padre nell’abbondante fruttificare degli amici (v. 8).
L’esistenza della comunità dipende quindi dal legame di ciascuno con Gesù che rende il credente dapprima discepolo, e infine amico. Dio ha cura del singolo tralcio e lo sostiene in un contesto più organico, perché Gesù «non ha creato un cenacolo chiuso né un ghetto, ma una comunità in espansione» (Mateos-Barreto). Nessuno è isolato; ciascuno è implicato nella vita degli altri e vive della medesima linfa, che permette a ogni tralcio di fruttificare.
Dal lasciarsi irrorare radicalmente dalla Parola di Dio scaturiscono i frutti che appartengono alla vigna. Come la vite senza i tralci non è vite – perché essa consiste dei suoi tralci – così anche i tralci staccati dalla vite non possono fare nulla, se non seccare. Un legame dinamico porta invece “molto frutto”: una pluralità inimmaginabile di frutti. Uno di questi è il vino, simbolo della gioia. Nell’Eucarestia, il Figlio glorifica il Padre: nell’unica vite sono intrecciate le molte vite sposate e offerte dagli amici di Gesù, i quali hanno assimilato la linfa e il frutto della medesima vita che si dona sino alla fine.
Parole
VITE: non è una metafora a caso; come già il gregge e il pastore rappresentano Israele e le sue guide, anche la vigna nella Bibbia è figura di Israele. Altrove è simbolo del Messia; inoltre la Sapienza dona il vino. Il Padre si prende cura della vite nella missione del Figlio, realtà entro cui i discepoli possono dare il meglio. A differenza degli alberi in cui i rami si distinguono dal tronco, nella vite non è possibile fare altrettanto.
PURIFICA: c’è un gioco di parole tra airō (tagliare, v. 2) e kath-airō (potare, v. 2), e poi ancora katharoi (puri, v. 3). Chi ascolta Gesù – che è il Discorso (lógos) – rimanendo dopo essersi lasciato lavare i piedi, è purificato. Gesù lo ha legato a sé e quindi al Padre: il discepolo può incanalare la linfa della Parola di Dio. La purificazione non è solo un distacco (visto però come potatura premurosa del Padre) dei rami secchi dalla comunità, ma pure il miglioramento personale, per una testimonianza più intensa.
RIMANERE: Giovanni ama il verbo menō e soprattutto in questi versetti di commiato lo utilizza ben 10 volte: una frequenza che non si riscontra mai altrove. Nel capitolo precedente questo termine descriveva l’unità dinamica tra il Padre e il Figlio, ma pure il “dimorare” di Gesù – e poi dello Spirito – presso gli uomini. Non è una conservazione “sottovuoto” del passato, bensì una relazione permanente con Gesù che ci rinnova nelle novità che incontriamo: perseverare ad amare, fedeli allo Spirito di Gesù, è vitale per poter generare nuovo amore duraturo.