Il volto dell’apostolo Pietro è particolarmente caro alla Chiesa. Solitamente all’immagine di Pietro si associano la solidità, la sicurezza, la capacità di gestire le relazioni; ma vedremo che il suo volto ci riporta anche alla sostanza di ogni uomo nelle sue povertà e risorse. Se Pietro è diventato la pietra sulla quale Cristo ha fondato la sua Chiesa, questo è stato anche possibile perché egli ha scoperto (pensiamo al suo sguardo angosciato che si è incrociato con quello tenero di Gesù subito dopo il rinnegamento) la propria debolezza. Probabilmente Pietro con la volontà e il desiderio ha sempre seguito Gesù: però la svolta della relazione personale con lui è stata l’esperienza della debolezza.
La prima scena che ci presenta Pietro viene narrata nel cap. 5 del Vangelo di Luca: in questo contesto Pietro appare vuoto, stanco, depresso. Mentre le folle ascoltano Gesù, ci sono alcuni pescatori che sono delusi perché non hanno preso niente per tutta la notte. Ebbene, lo sguardo di Gesù si posa proprio su questi pescatori ed in particolare su Pietro. Quindi il contesto nel quale avviene “l’incontro tra Pietro e Gesù” è quello di una barca vuota senza pesci, di una rete sporca da pulire, e di energie sfinite, consumate nel pesante lavoro lungo la notte. La grandezza di Pietro sta nella capacità di cogliere la sfida che Gesù gli lancia: quella di mettere a disposizione proprio quella barca vuota e quelle reti sporche. Questa immagine accompagnerà Pietro fino alla fine e fino all’altra pesca, quella sul lago di Tiberiade, quando, tornato a riva, Gesù lo confermerà nella sua vocazione, aiutandolo a ripercorrere il rinnegamento all’insegna di un bene e di un amore che comunque Pietro è capace di dare (cf. Gv 21, 1-19).
Pietro prima di essere un uomo forte, capace di guidare la Chiesa, è un uomo che ha vissuto forti emozioni e momenti difficili, come ogni uomo e donna del nostro tempo. Ma da queste esperienze ha saputo trarre il bene: è maturato con equilibrio e sano realismo, al punto da assumere anche il volto che emerge negli Atti degli Apostoli, e cioè quello di un uomo dalla grande capacità di mediazione. Sa ascoltare e sa mediare, perché l’annuncio della Parola di Dio possa arrivare nella maniera più incisiva e purificata; sa partire dalla realtà e non solo dai suoi sogni e desideri; sa guardare oltre.
La capacità di mediazione è dono, segno di maturità e responsabilità. Chi media è capace di: ascoltare se stesso e, in maniera disarmata, gli altri; è pronto a mettersi nei panni degli altri, a entrare in empatia con quanto l’altro sta vivendo; è orientato alla costante ricerca della verità; è capace di dare priorità al bene comune, non alle proprie idee o esperienze che piacciono di più; è pronto a far confluire strade diverse per la condivisione e la comunione. Per vivere tutto questo è necessario essere equilibrati; avere chiara la propria identità, nei limiti e nelle potenzialità; essere capaci, in maniera paradossale, di farsi da parte per far posto agli altri; avere chiari i valori e gli ideali per i quali si sta donando la vita; avere il cuore nella pace, cioèdare il meglio di sé senza pretendere il massimo, il che porta talvolta a delle aspettative cheinevitabilmente non riusciamo a concretizzare.
Essere uomini e donne di mediazione significa diventare facilitatori di pace: questo non è solo un atteggiamento ma un impegno concreto, è segno profetico, è rendere presente tra l’umanità il Cristo che ama, pensa, vuole, desidera, soffre con l’umanità, è consegnare agli altri la perla preziosa dell’incontro con Colui che è la vera pace.
«La pace è la madre della carità, il luogo della concordia,
il segno evidente di un’anima pura
che può reclamare da Dio tutto quello che vuole
poiché riceve tutto ciò che chiede.
Bisogna custodire la pace più di tutte le altre virtù
perché Dio è sempre nella pace».
Pier Crisologo, Omelie
suor Tosca Ferrante, Suore Apostoline
Fonte: Apostoline
Libro consigliato: I volti della Bibbia (Gianfranco Ravasi)