Nei momenti difficili della vita non si deve «negoziare Dio» usando gli altri per salvare se stessi: l’atteggiamento giusto è fare penitenza, riconoscendo i propri peccati e affidandosi al Signore, senza cedere alla tentazione di «farsi giustizia con le proprie mani». Nella messa celebrata lunedì mattina, 3 febbraio, nella cappella della Casa Santa Marta, Papa Francesco ha riproposto la testimonianza del re Davide, «santo e peccatore», nel «momento buio» della fuga da Gerusalemme per il tradimento del figlio Assalonne. Al termine della celebrazione, nel giorno della memoria liturgica di san Biagio, due sacerdoti hanno impartito al Papa e poi a tutti i presenti la tradizionale benedizione con due candele poste sulla gola in forma di croce.
Per la sua meditazione il Pontefice ha preso spunto dalla prima lettura, tratta dal secondo libro di Samuele (15,13-14.30; 16,5-13a). «Abbiamo sentito — ha detto — la storia di quel momento tanto triste di Davide, quando lui è dovuto fuggire perché suo figlio ha tradito». Sono eloquenti le parole di Davide, che chiama Assalonne «il figlio uscito dalle mie viscere». Siamo davanti a «un grande tradimento»: anche la maggioranza del popolo si schiera «con il figlio contro il re». Si legge infatti nella Scrittura: «Il cuore degli Israeliti è con Assalonne». Davvero per Davide è «come se questo figlio fosse morto».
Ma che cosa fa Davide davanti al tradimento del figlio? Il Papa ne ha indicato «tre atteggiamenti». Innanzitutto, ha spiegato, «Davide, uomo di governo, prende la realtà come è. Sa che questa guerra sarà molto forte, sa che ci saranno tanti morti del popolo», perché c’è «una parte del popolo contro l’altra». E con realismo compie «la scelta di non far morire il suo popolo». Certo, avrebbe potuto «lottare in Gerusalemme contro le forze di suo figlio. Ma ha detto: no, non voglio che Gerusalemme sia distrutta!». E si è opposto anche ai suoi che volevano portare via l’arca, ordinando loro di lasciarla al suo posto: «L’arca di Dio rimanga in città!». Tutto questo mostra «il primo atteggiamento» di Davide, che «per difendersi non usa né Dio né il suo popolo», perché per entrambi nutre un «amore tanto grande».
«Nei momenti brutti della vita — ha notato il Pontefice — accade che, forse, nella disperazione uno cerca di difendersi come può», anche «usando Dio e la gente». Invece Davide ci mostra come suo «primo atteggiamento» proprio «quello di non usare Dio e il suo popolo».
Il secondo è un «atteggiamento penitenziale», che Davide assume mentre fugge da Gerusalemme. Si legge nel passo del libro di Samuele: «Saliva piangendo» sulla montagna «e camminava con il capo coperto e a piedi scalzi». Ma, ha commentato il Papa, «pensate cosa significa salire il monte a piedi scalzi!». Lo stesso faceva la gente che era con lui: «Aveva il capo coperto e, salendo, piangeva».
Si tratta di «un cammino penitenziale». Forse, ha proseguito il Pontefice, Davide in quel momento «nel suo cuore» pensava a «tante cose brutte» e ai «tanti peccati che aveva fatto». E probabilmente diceva a se stesso: «Ma io non sono innocente! Non è giusto che mio figlio mi faccia questo, ma io non sono santo!». Con questo spirito Davide «sceglie la penitenza: piange, fa penitenza». E la sua «salita al monte», ha notato ancora il Papa, «ci fa pensare alla salita di Gesù. Anche lui addolorato a piedi scalzi, con la sua croce, saliva il monte».
Davide, dunque, vive un «atteggiamento penitenziale». Quando a noi invece, ha detto il Papa, «accade una cosa del genere nella nostra vita, sempre cerchiamo — è un istinto che abbiamo — di giustificarci». Al contrario, «Davide non si giustifica. È realista. Cerca di salvare l’arca di Dio, il suo popolo. E fa penitenza» salendo il monte. Per questa ragione «è un grande: un grande peccatore e un grande santo». Certo, ha aggiunto il Santo Padre, «come vadano insieme queste due cose» soltanto «Dio lo sa. Ma questa è la verità!».
Lungo il suo cammino penitenziale il re incontra un uomo di nome Simei, che «gettava sassi» contro di lui e contro quanti lo accompagnavano. È «un nemico» che malediceva e «diceva parolacce» all’indirizzo di Davide. Così Abisài, «uno degli amici di Davide», propone al re di catturarlo e di ucciderlo: «Questo è un cane morto» gli dice con il linguaggio del suo tempo per rimarcare come Simei fosse «una persona cattiva». Ma Davide glielo impedisce e «invece di scegliere la vendetta contro tanti insulti, sceglie di affidarsi a Dio». Si legge infatti passo biblico: «Ecco, il figlio uscito dalle mie viscere cerca di togliermi la vita: e allora, questo Beniaminita — questo Simei — lasciatelo maledire, poiché glielo ha ordinato il Signore. Forse il Signore guarderà la mia afflizione e mi renderà il bene in cambio della maledizione di oggi». Ecco il terzo atteggiamento: Davide «si affida al Signore».
Proprio «questi tre atteggiamenti di Davide nel momento del buio, nel momento della prova, possono aiutare tutti noi» quando ci troviamo in situazioni difficili. Non si deve «negoziare la nostra appartenenza». Poi, ha ripetuto il Pontefice, bisogna «accettare la penitenza», comprendere le ragioni per cui si ha «bisogno di fare penitenza», e così saper «piangere sui nostri sbagli, sui nostri peccati». Infine, non si deve cercare di farsi giustizia con le proprie mani ma bisogna «affidarsi a Dio».
Papa Francesco ha concluso l’omelia invitando a invocare Davide, che noi «veneriamo come santo», chiedendogli di insegnarci a vivere «questi atteggiamenti nei momenti brutti della vita». Perché ciascuno possa essere «un uomo che ama Dio, ama il suo popolo e non lo negozia; un uomo che si sa peccatore e fa penitenza; un uomo che è sicuro del suo Dio e si affida a lui».