Papa Francesco a Genova – Incontro con i giovani della Missione Diocesana

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VISITA PASTORALE DEL SANTO PADRE FRANCESCO A GENOVA

INCONTRO CON I GIOVANI DELLA MISSIONE DIOCESANA

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Santuario della Madonna della Guardia
Sabato, 27 maggio 2017

 

Prima della Preghiera a Nostra Signora della Guardia

Papa Francesco:

Vi invito a pregare la Madonna in silenzio: ognuno Le dica quello che ha nel cuore. E’ la nostra mamma, la Madre di Gesù, nostra Madre. In silenzio, ognuno Le dica quello che sente nel cuore.

[Preghiera a Nostra Signora della Guardia]

[Saluto del cardinale Bagnasco]

Chiara Parodi

Santità, che bello averLa qua! Nella Sua esortazione apostolica Evangelii gaudium, Lei ha invitato tutta la Chiesa a uscire. Su suggerimento del nostro Cardinale, abbiamo avviato la missione “Gioia piena”, per riprendere le parole che Gesù disse nel Vangelo di Giovanni: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (15,11). Le chiediamo una benedizione su di noi, sui ragazzi che abbiamo incontrato e che incontreremo e anche un consiglio su come essere missionari verso i nostri coetanei che vivono situazioni difficili di dolore e che sono vittime della droga, dell’alcool, della violenza e dell’inganno del maligno. Grazie! Le vogliamo bene.

Luca Cianelli

Santo Padre, Lei ha voluto che nel prossimo anno si svolgesse il Sinodo dei Vescovi dedicato ai giovani; avrà infatti come titolo “Giovani, Fede e discernimento vocazionale”.

Noi pensiamo che Dio lo incontriamo nella vita di tutti i giorni, nella quotidianità, a scuola, nel lavoro, con gli amici, nella vita di preghiera, nel silenzio della preghiera. E quindi chiediamo a Lei qualche consiglio per vivere la nostra vita spirituale e di preghiera. Grazie!

Emanuele Santolini

Ciao, Papa Francesco. Oggi le nostre vite hanno ritmi altissimi, frenetici e questo rende difficile l’incontro, l’ascolto e soprattutto la costruzione di relazioni vere, di condivisione vera. Così molti di noi giovani magari non hanno il tempo o le occasioni per incontrare la persona della loro vita, la persona che Gesù ha pensato per noi, per costruire quel grande progetto d’amore che è il matrimonio. Può darci qualche consiglio su come riuscire a vivere una vita in pienezza e come riuscire a farlo costruendo relazioni vere, piene, sincere? Grazie.

Francesca Marrollo

Santo Padre, ogni giorno i media ci comunicano realtà di violenza e di guerra, racconti lontani e vicini di grandi sofferenze. Molti nostri coetanei, migranti provenienti da Paesi lontani, insanguinati da egoismi, vivono oggi nelle nostre città in condizioni molto difficili. Noi siamo convinti che, attraverso questi nostri fratelli e queste nostre sorelle, Dio ci sta parlando. Che cosa ci dice? Quali gesti, insieme anche alla comunità cristiana adulta, possiamo compiere per rispondere a queste sfide che la storia, abitata dallo Spirito Santo, oggi ci sta proponendo? Grazie!

Papa Francesco:

Buongiorno!

Io sono un po’ spaventato perché Emanuele ha detto che “siamo tutti frenetici”… [ride, ridono]. Non so come rispondere. Il cardinale ha parlato del vostro amore e ha detto che il vostro amore è un amore turbolento e allegro. E questo è bello. Tra “frenetici”, “turbolenti” e “allegri”, facciamo una bella macedonia e il risultato sarà bello!

E’ per me una gioia incontrare voi. E’ un incontro che sempre desidero: trovare i giovani. Cosa pensano, cosa cercano, cosa desiderano, quali sfide hanno e tante cose. E voi, che non volete risposte pre-fatte, voi volete risposte concrete ma personali, non come questi abiti che si comprano prêt-à-porter, no. Risposte prêt-à-porter voi non le volete. Volete il dialogo, cose che tocchino il cuore.

Chiara, grazie per condividere questa esperienza che avete vissuto durante quest’anno. Sentire l’invito di Gesù è sempre una gioia piena. E il Signore dice anche: “E questa gioia piena – nello stesso passo del Vangelo – nessuno potrà togliervela” (cfr Gv 16,22). Nessuno ve la toglierà. Gioia. Che non è lo stesso di divertirsi. Sì, ti fa felice, la gioia, ma non è superficiale. La gioia che va dentro e nasce dal cuore; e questa gioia è quella che voi avete vissuto in questo anno. Ti ringrazio.

Adesso, io vorrei chiedere – mi piacerebbe, ma non c’è tempo e non si può, ma… -: come avete sentito che questa esperienza che avete vissuto vi ha trasformati: è vero, questo, o sono parole? Perché – questa è la domanda – andare a fare missione, significa lasciarsi trasformare dal Signore? Noi, normalmente, quando viviamo queste cose, queste attività, come Chiara ha sottolineato bene, ci rallegriamo quando le cose vanno bene. E questo è buono. Ma c’è anche un’altra trasformazione, che tante volte non si vede, è nascosta e nasce nella vita di ognuno di noi. La missione, l’essere missionari ci porta a imparare a guardare. Sentite bene questo: imparare a guardare. Imparare a guardare con occhi nuovi, perché con la missione gli occhi si rinnovano. Imparare a guardare la città, la nostra vita, la nostra famiglia, tutto quello che è attorno a noi. L’esperienza missionaria ci apre gli occhi e il cuore: imparare a guardare anche con il cuore. E così, noi smettiamo di essere – permettetemi la parola – turisti della vita, per diventare uomini e donne, giovani che amano con impegno nella vita. “Turisti della vita”: voi avete visto questi che fanno fotografie di tutto, quando vengono per turismo, e non guardano nulla. Non sanno guardare… e poi guardano le fotografie a casa! Ma una cosa è guardare la realtà, e un’altra è guardare la fotografia. E se la nostra vita è da turista, noi guarderemo soltanto le fotografie o le cose che pensiamo della realtà. E’ una tentazione, per i giovani, essere turisti. Non dico fare una passeggiata di qua e di là, no, questo è bello! Intendo guardare la vita con occhi da turista, cioè superficialmente, e fare fotografie per guardarle più avanti. Questo vuol dire che io non tocco la realtà, non guardo le cose che succedono. Non guardo le cose come sono. La prima cosa che io risponderei, a proposito della vostra trasformazione, è lasciare questo atteggiamento da turisti per diventare giovani con un impegno serio con la vita, sul serio. Il tempo della missione ci prepara e ci aiuta a essere più sensibili, più attenti e a guardare con attenzione. E a tanta gente che vive con noi, nella vita quotidiana, nei posti dove noi viviamo e che, per non saper guardare, finiamo per ignorare. Quanta gente di cui possiamo dire: “sì, sì, è quello, è quello”, ma non sappiamo guardare il loro cuore, non sappiamo cosa pensano, cosa sentono, perché mai il mio cuore si è avvicinato. Forse ho parlato con loro tante volte, ma con superficialità. La missione può insegnarci a guardare con occhi nuovi, ci avvicina al cuore di tante persone, e questa è una cosa bellissima, è una cosa bellissima!

E distrugge l’ipocrisia. Trovare gente grande, adulti ipocriti è brutto, ma è gente grande, che faccia della propria vita quello che vuole, sa quello che fa… Ma trovare un giovane, una giovane che incomincia la vita con un atteggiamento di ipocrisia, questo è suicida. Avete capito? E’ suicida. E’ non lasciare la strada del turista della vita, è passare facendo finta di, e non guardare il cuore della gente per parlare con autenticità, con trasparenza.

E poi, c’è un’altra cosa: tu hai detto che la missione è bella e avete imparato. Ma quando io vado in missione, non è soltanto la decisione mia, quella che mi fa andare. C’è un altro che mi manda, che mi invia a fare la missione. E non si può fare missione senza essere mandato da Gesù. E’ Gesù stesso che ti invia, è Gesù che ti spinge alla missione ed è lì accanto a te: è proprio Gesù che lavora nel tuo cuore, cambia il tuo sguardo e ti fa guardare la vita con occhi nuovi; non con occhi da turista. Avete capito?

Così si impara che vivere chiusi, anche chiusi nel “turismo”, non serve, non aiuta. Dobbiamo vivere in missione, il che suppone che io ascolti Colui che mi invia, che sempre è Gesù, e vado dalla gente, vado dagli altri a parlare della mia vita, di Gesù e di tante cose ma con una trasformazione della mia personalità che mi fa guardare in un’altra maniera. E anche sentire le cose in un’altra maniera. Pensiamo – per capire bene questo – quando Gesù andava per la strada, sempre fra la gente; una volta (cfr Mc 5,25-34) Gesù si è fermato e ha detto: “Qualcuno mi ha toccato”. E i discepoli: “Ma, Maestro, non vedi che tutta la gente è attorno a te? Tutti ti toccano!” – “Qualcuno mi ha toccato”. Gesù non si era abituato al fatto che lo toccassero. No, non era un “turista”: Lui capiva le intenzioni della gente e aveva capito che c’era una persona che lo aveva toccato per essere guarita. E quella donna diceva a sé stessa: “Se io lo tocco, sarò guarita”. Così noi. Dobbiamo conoscere la gente come è, perché abbiamo il cuore aperto e non siamo turisti tra la gente: siamo inviati e missionari.

La missione aiuta anche a guardarci tra noi, negli occhi, e riconoscere che siamo fratelli tra noi, che non c’è una città e nemmeno una Chiesa dei buoni e una città e una Chiesa dei cattivi. La missione ci aiuta a non essere “catari”. La missione ci purifica dal pensare che c’è una Chiesa dei puri e una degli impuri: tutti siamo peccatori e tutti abbiamo bisogno dell’annuncio di Cristo, e se io quando annuncio nella missione Gesù Cristo non penso, non sento che lo dico a me stesso, mi stacco dalla persona e io mi credo – posso credermi – puro e l’altro come l’impuro che ha bisogno. La missione ci coinvolge tutti, come popolo di Dio, ci trasforma: ci cambia lo sguardo, ci cambia il modo di andare nella vita, da “turista” a coinvolto, e ci toglie dalla testa quell’idea che ci sono gruppi, che ci sono nella Chiesa i puri e gli impuri: tutti siamo figli di Dio. Tutti peccatori e tutti con lo Spirito Santo dentro che ha la capacità di farci santi.

Tu mi chiedevi – anche Emanuele ha chiesto lo stesso – come essere missionari verso i nostri coetanei, specialmente verso quelli che vivono in situazioni difficili, che sono vittime della droga, dell’alcol, della violenza, dell’inganno del maligno? Credo che la prima cosa sia amarli. Non possiamo fare nulla senza amore. Un gesto di amore, uno sguardo di amore… Tu potrai fare programmi per aiutarli, ma senza amore… E amore è dare la vita. Gesù dice: “Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita” (cfr Gv 15,13). Lui ha dato l’esempio, ha dato la vita. Amare. Se tu non te la senti, o almeno tu non hai – e dico “tu” ma dico a tutti, perché lei ha fatto la domanda, ma lo dico a tutti – se tu non hai il cuore disposto ad amare – il Signore ci insegna ad amare – non potrai fare una buona missione. La missione passerà come un’avventura, un turismo. Prepararsi e andare con un cuore disposto ad amare. Aiutarli ad amare. Una delle cose che io domando, non a ogni persona ma quando c’è l’opportunità, nel confessionale, è: “Ma lei aiuta la gente? Lei dà l’elemosina?” – “Sì”, dicono tanti. Sì, perché la gente è buona, la gente vuole aiutare. “E mi dica: quando lei dà l’elemosina, tocca la mano della persona alla quale lei dà l’elemosina, o la ritira subito?”. E lì, alcuni non sanno cosa dire. E di più: “Quando lei dà l’elemosina, guarda negli occhi di quel barbone che ti chiede l’elemosina? O va di fretta?”. Amare. Amare è avere la capacità di stringere la mano sporca e la capacità di guardare gli occhi di quelli che sono in situazione di degrado e dire: “Per me, tu sei Gesù”. E questo è l’inizio di ogni missione, con questo amore io devo andare a parlare. Se io parlo alla gente pensando: “Ah, questi stupidi che non sanno di religione, io darò, insegnerò loro come fare…”. Per favore! Meglio che rimani a casa e preghi un Rosario, ti farà meglio che andare a fare missione. Non so se avete capito la cosa.

E perché devo amare questa gente? Quelle vittime della droga, dell’alcol, della violenza, dell’inganno del Maligno? Dietro tutte queste situazioni che tu hai nominato, c’è una certezza che noi non possiamo dimenticare, una certezza che ci deve rendere  “testardi” nella speranza: per fare missione bisogna essere testardi nella speranza. Non solo l’amore, ma anche la speranza, e testardi. In ognuna di queste persone che sono vittime di situazioni difficili, c’è un’immagine di Dio che per diversi motivi è stata maltrattata, calpestata. C’è una storia di dolore, di ferite che noi non possiamo ignorare. E questa è la pazzia della fede. Quando Gesù ci dice: “Sei venuto in carcere e hai trovato me” – “Ma tu sei un pazzo!”: è la pazzia della fede. La pazzia della croce, di cui parla san Paolo; la pazzia dell’annuncio del Vangelo. Lì c’è Gesù, e questo significa imparare a guardare con gli occhi di Gesù: come guarda Gesù, questa gente. Come li guarda. Se Gesù, quando ci dice – le domande che ci faranno quando andremo dall’alta parte (cfr Mt 25,31-46) – ci dice che Lui era quella gente, è mistero di amore nel cuore di Gesù.

[ads2]Ho avuto l’occasione, una volta – in Argentina ero abituato già a visitare le carceri – e in un’occasione ho salutato uno che aveva più di 50 omicidi. E io sono rimasto a pensare: “Ma tu sei Gesù”, perché Lui ha detto che se tu vieni a trovarmi in carcere, io sono lì, in quell’uomo. Per essere missionari ci vuole questa pazzia della croce, questa pazzia dell’annuncio evangelico: che Gesù fa dei miracoli, che Gesù non è uno stregone guaritore che guarisce. Gesù è in ognuno di noi, in ognuno di noi. E forse qualcuno di voi in questo momento è in una situazione di peccato mortale, è in una situazione di lontananza, lontano da Gesù, forse… Ma Gesù è lì, che aspetta. E’ lì con te. Mai ci lascia. Se io vado con amore, non come turista, e questo mi trasforma, vado come testardo nella speranza e vado sapendo che tocco, vedo, ascolto Gesù che lavora nel cuore di ognuno che io incontro nella missione. Capito? E a proposito di questi che tu hai menzionato, i più scartati della società – è importante – io ho detto di non sentirsi male per stringere la mano sporca di un barbone, di questa gente, per fare un esempio…

Tutti noi siamo sporchi. E se Lui mi ha salvato, dico: grazie Signore, perché anch’io posso essere quella persona… Se io non sono finito drogato, perché Signore? Per la tua volontà. Ma se il Signore mi avesse lasciato la mano, anch’io, tutti [dove saremmo finiti?] E questo è l’amore, la grazia, che noi dobbiamo annunciare: Gesù è in quelle persone. Per favore, non aggettivare le persone! Io vado a fare missione con l’amore, la testardaggine della speranza, per portare un messaggio alla gente con un nome, non con aggettivi. E quante volte la nostra società disprezza e classifica: “No, quello è un ubriaco! No, io non dò l’elemosina a questo perché va a comprarsi un bicchiere di vino e non ha un’altra felicità, pover uomo, nella vita”; “Eh no, questo è un drogato”; “Questo, quello, questo, quello…” Mai aggettivare le persone! Mettere l’aggettivo alle persone può farlo soltanto Dio, soltanto il giudizio di Dio. E lo farà: nel Giudizio finale, definitivamente, su ognuno di voi: “Vieni, benedetto dal mio Padre, vai via maledetto…”. Gli aggettivi: lo fa Lui, ma noi non dobbiamo mai aggettivare: “questo” e “quello”, “questo, quello”. Io vado alla missione per portare grande amore.

Poi in quella trasformazione – mi sono entusiasmato con la tua domanda, l’avevo scritta e ho fatto delle riflessioni – noi siamo abitanti di una cultura del vuoto, di una cultura di solitudine. La gente – noi anche – dentro siamo soli e abbiamo bisogno del chiasso per non sentire questo vuoto, questa solitudine. Questa è la proposta del mondo e questo non ha niente a che fare con la gioia della quale abbiamo parlato. Il vuoto: se c’è qualcosa che distrugge le nostre città è questo isolamento. Andare in missione è aiutare a uscire dagli isolamenti e fare comunità, fraternità. “Ma quello non mi piace…”. “Quello è così…”. Mai aggettivare: Gesù ama tutti. Se io vado in missione devo essere disposto a questo amare tutti. Non c’è quella gioia piena, che era ciò che tu dicevi ti dava la missione. Mentre ci sono tanti nostri fratelli con lo sguardo sfigurato da una società che si difende soltanto con l’esclusione, isolando la gente, ignorando. Mai, se noi vogliamo essere missionari e portare il Vangelo e avere questa gioia, mai escludere, mai isolare nessuno, mai ignorare. Non so se ho risposto a qualcosa.

E grazie Luca per la tua inquietudine. Genova è una città porto, che ha saputo ricevere storicamente tante navi e che ha generato grandi navigatori! Per essere discepolo ci vuole lo stesso cuore di un navigatore; orizzonte e coraggio. Se tu non hai orizzonte e sei incapace di guardarti anche il naso, non sarai mai un buon missionario. Se tu non hai coraggio, mai lo sarai. È la virtù dei navigatori: sanno leggere l’orizzonte, andare, e hanno il coraggio per andare. Pensiamo ai grandi navigatori del XV secolo, tanti sono usciti da qua. Voi avete l’opportunità di conoscere tutto con le nuove tecniche, ma queste tecniche di informazione ci fanno cadere in un tranello tante volte; perché invece di informarci ci saturano, e quando tu sei saturato l’orizzonte si avvicina, si avvicina, e hai davanti a te un muro, hai perso la capacità di orizzonte. State attenti: sempre guardare quello che ti vendono! Anche quello che ti vendono nei media. La contemplazione, la capacità di contemplare l’orizzonte, di farsi un giudizio proprio, non mangiare quello che ti servono nel piatto. Questa è una sfida: è una sfida che credo ci deve portare alla preghiera, e dire al Signore: “Signore, ti chiedo un favore: per favore, non smettere di sfidarmi”. Sfide di orizzonti che richiedono il coraggio. Tu sei genovese? Navigatore: orizzonte e coraggio. E a tutti i genovesi lo dico: avanti! Quella preghiera che io vi proponevo: “Signore, ti chiedo un favore, oggi sfidami”. Sì, “Gesù per favore, vieni, importunami, dammi il coraggio di poter rispondere alla sfida e a te”. A me piace tanto questo Gesù che disturba, che importuna; perché è Gesù vivo, che ti muove dentro con lo Spirito Santo. E che bello un ragazzo o una ragazza che si lascia importunare da Gesù; e il giovane o la giovane che non si lascia tappare la bocca con facilità, impara a non stare con la bocca chiusa, che non è contento di risposte semplicistiche, che cerca la verità, cerca il profondo, va al largo, va avanti, avanti. E ha il coraggio di farsi domande sulla verità e tante cose. Dobbiamo imparare a sfidare il presente. Una vita spirituale sana genera giovani svegli, che davanti ad alcune cose che oggi ci propone questa cultura – “normale” dicono, può essere, non so… – si domandino: “Questo è normale o questo non è normale?”. E tante volte – questo lo dico con tristezza – i giovani sono le prime vittime di questi venditori di fumo; fanno credere loro tante cose, mettono nella loro testa tante cose… Ma una delle prime forme di coraggio che voi dovete avere è domandarvi: “Ma questo è normale o questo non è normale?”. Il coraggio di cercare la verità. È normale che ogni giorno cresca quel senso di indifferenza? Non mi importa quello che succede agli altri; l’indifferenza con gli amici, i vicini, nel quartiere, al lavoro, nella scuola… È normale – come ci invitava a riflettere Francesca – che molti dei nostri coetanei, migranti o provenienti da Paesi lontani, difficili, insanguinati da egoismi che conducono alla morte, vivono nelle nostre città in condizioni veramente difficili? È normale questo? È normale che il Mediterraneo sia diventato un cimitero? È normale questo? È normale che tanti, tanti Paesi – e non lo dico dell’Italia, perché l’Italia è tanto generosa – tanti Paesi chiudono le porte a questa gente che viene piagata e fugge dalla fame, dalla guerra, questa gente sfruttata, che viene a cercare un po’ di sicurezza… è normale? Questa domanda: questo è normale? Se non è normale io devo coinvolgermi perché questo non succeda. Caro, ci vuole coraggio per questo, ci vuole coraggio.

Tornando ai naviganti, Cristoforo Colombo, che dicono che era dei vostri – mai si sa, ma tanti come lui o lui stesso forse sono usciti di qua –, di lui dicevano: “Questo pazzo vuole arrivare di qua andando di là”. Ma quello aveva fatto un ragionamento sulla “normalità” di certe cose e ha fatto una sfida grande: ha avuto il coraggio. È normale che davanti al dolore degli altri il nostro atteggiamento sia chiudere le porte? Se non è normale, coinvolgiti. E se non hai il coraggio di coinvolgerti stai zitto e abbassa la testa e umiliati davanti al Signore, chiedi coraggio. Sfidare il presente è avere il coraggio di dire: “Ci sono cose che sembrano normali ma non sono normali”. E voi, questo dovete pensare: non sono cose volute da Dio e non dovranno essere volute da noi! E questo dirlo con forza! Questo è Gesù: intempestivo, che rompe i nostri sistemi, i nostri progetti. È Gesù che semina nei nostri cuori l’inquietudine di farci questa domanda. E questo è bello: questo è molto bello!

Io sono sicuro che voi genovesi siete capaci di grandi orizzonti e di tanto coraggio, ma dipende da voi se volete farlo: non dipende da me. Io questa sera torno e lascio il seme. A voi lascio la sfida, o, come diciamo nella nostra terra: “Vi butto il guanto in faccia”. Voi vedrete.

Finisco con un suggerimento: ogni mattina, una semplice preghiera: “Signore, ti chiedo per favore oggi non tralasciare di sfidarmi. Sì, Gesù, per favore, vieni a importunarmi un po’ e dammi il coraggio di poterti rispondere”.

Grazie!

Voi siete qui, seduti, all’ombra: qui siamo al fresco [nel Santuario]. Ma lì fuori ci sono – li sentite? questi sanno fare chiasso – tanti che hanno resistito al sole, in piedi… Un applauso a loro! Io li vedevo, li vedevo da qua. Erano tutti zitti perché ascoltavano e hanno seguito tutto. Quelli mi sembra che hanno un po’ di coraggio e di orizzonti: almeno quelli; spero anche voi!

Adesso vi darò la benedizione, ma prima di ricevere la benedizione salutiamo la Madonna:

“Ave o Maria…”

[Benedizione]

SALUTO E BENEDIZIONE AI DETENUTI

Vorrei dare anche un saluto e la benedizione a tutti i detenuti di Genova e della Liguria che hanno seguito questo incontro. Darò – voi in silenzio – la benedizione a loro.

[Benedizione]