Questo vangelo è il seguito di quello di domenica scorsa.
Simone il pescatore di Cafarnao ha appena professato che Gesù di Nazareth è il Messia.
Sarebbe stato così bello tagliare qui la scena. Ma c’è una seconda parte del vangelo di domenica scorsa: quella meno poetica e piuttosto sconcertante di oggi. Una pagina talmente dura da convincermi ancora una volta che il vangelo è autentico: nessuno scriverebbe un libro in cui racconta le sue pessime figure.
Gesù mostra la necessità dell’amore: «doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto… e venire ucciso».
La via della felicità è il “dovere dell’amore”.
L’amore ti chiederà, prima o poi, di soffrire molto, conoscendo la morte del proprio io.
Non vi è altra via alla felicità, se non quella scaturita dall’amore che sa andare “fino alla fine”.
Gesù, ora, parla apertamente ai suoi discepoli del rischio che sta correndo e del fatto che la sua missione potrebbe portarlo al dono totale, alla consumazione, alla morte. Afferma che il suo non è un messianismo spettacolare, mirabile, stupefacente.
Gesù dice di essere disposto a morire piuttosto che rinnegare il volto di Dio che egli è venuto a raccontare. Di più: amare come egli sta facendo richiede una buona dose di sopportazione alla sofferenza.
Il sorriso dei Dodici si spegne, si respira imbarazzo, tutti si guardano sconcertati. “Sofferenza?”, “Morte?”, ma di cosa sta parlando il Rabbi?
Pietro interviene (è appena stato nominato Papa!), prende da parte Gesù: meglio non fare questo discorso, scoraggia il morale dei tuoi.
Il primo discorso da Papa di Simone resterà nella storia: Pietro vuole insegnare a Dio come deve salvare il mondo!
Pietro sta impedendo alla vita di vivere, alla luce di risplendere, alla via di giungere alla meta. Sta chiedendo all’Amore di funzionare in altro modo, di percorrere un’altra strada, insomma di non essere Amore.
Questo tentativo di impedire all’altro di essere se stesso, Pietro lo porrà in atto un’altra volta nell’ultima cena, quando dirà a Gesù: «tu non mi laverai mai i piedi». Ma come si può dire alla luce di non illuminare, all’acqua di non bagnare, al fuoco di non scaldare? All’Amore di non amare? L’amore se non ama… muore!
Abitudine molto diffusa tra noi umani, diffusissima tra i cattolici: pensiamo sinceramente di saperne più di Dio, crediamo di essere capaci, in fondo, di dirigere l’azienda meglio di Lui. Siamo onesti: al posto di Dio non faremmo meno ingiustizie? Non ci sarebbe qualche cattivo di meno sulla terra? E qualche ricco sfondato che si converte?
La reazione di Gesù nei confronti Pietro è durissima: tu ragioni come il mondo, non sei ancora discepolo, il tuo parlare è demoniaco.
Satana è quella mentalità che pensa che vi possano essere altre strade per la trasfigurazione, il compimento, la realizzazione della propria vita. Gesù stesso ebbe a combattere con quella mentalità satanica che promette di diventare figlio senza la necessità di farsi fratello.
Per la precisione, l’ammonimento che Gesù rivolge a Pietro è «passa dietro di me, Satana», cioè segui i miei passi, la mia logica, converti il tuo pensiero demoniaco.
Il Vangelo è continuo invito a cambiare il nostro pensiero su ciò che riteniamo necessario per giungere alla felicità.
Gesù ama Pietro, l’ha appena investito di un compito fondamentale. Eppure lo richiama, lo rimprovera duramente, perché amare significa, talvolta, tirare fuori le unghie, come in questo caso.
Pietro, primo Papa, fa la prima di una lunga serie di stupidaggini: dovrà percorrere ancora molta strada, abbandonare la sua idea di discepolo per essere, davvero, una “roccia”.
Pietro ci assomiglia, e tanto.
Non ci piace un Dio che soffre. Noi vogliamo un Dio trionfante e glorioso. Ma come, lui può evitare la sofferenza e invece lo abbraccia?
Povero Pietro, poveri noi. Quando capiremo la terribile semplicità dell’amore di Dio? Quando passeremo dall’idea che la sofferenza è male all’idea che, a volte, la vita è dono e donare chiede sofferenza?
Dio non ama la sofferenza, sia chiaro. Ma, talora, compiamo gesti che comportano una rinuncia, una morte, e la sofferenza diventa misura dell’amore. Così è il dolore del parto necessario a dare luce a un bimbo, il corpo affaticato che arrampica la vetta, la notte insonne della madre che allatta il neonato.
Gesù sa che non saranno mai i potenti a risolvere le lacrime del mondo o gli errori del singolo. Il male si risolve solo portandolo. Sulla croce.
Da allora il centro dell’intera storia umana è il volto di un Dio crocefisso.
Questo è lo scandalo del cristianesimo.
Accettare Gesù come Messia è ancora ammissibile. Ma che il Messia debba terminare la sua vita con una morte orrenda, ecco ciò che è davvero inammissibile.
Con Pietro, anche noi ripetiamo a Gesù: «Ma tu vuoi salvare questa storia lasciandoti uccidere? Ma non servirà. Il mondo ha problemi enormi, bisogna risolverli; e tu pensi di farlo finendo in croce? Sei un illuso! Il mondo non sarà salvo per un crocefisso in più fra i milioni di crocefissi della storia. È una follia. Usa altri mezzi, il potere, la sacralità, il miracolo, l’autorità».
Ed è proprio questo che Gesù rifiuta.
Che cos’è la Croce, se non l’affermazione alta che Dio ama altri, e me fra questi, più della propria vita?
La Croce è l’abisso dove Dio diviene l’amante. È il segnale massimo lanciato da Dio all’uomo.
E la croce che il discepolo deve prendere? Per capire che cosa intenda Gesù forse basta sostituire la parola «croce» con la parola «amore»: «Se qualcuno vuol venire con me, prenda su di sé tutto l’amore di cui è capace».
La croce del discepolo non sono i disappunti quotidiani, le fatiche o le malattie: cose solo da sopportare. La croce vera, dice Gesù, è da «prendere», non da sopportare. Da scegliere, come riassunto di un destino e di un amore.
La bella notizia di questa domenica? Gesù ci fa intravedere che esiste una possibilità nuova, che è possibile cambiare. Si può, per davvero. Bisogna solo volerlo con tutto il cuore, allentare la presa su se stessi, lasciarsi guidare dallo Spirito e allenare lo sguardo per non perdere di vista i passi del Rabbi.
AUTORE: Paolo di Martino
FONTE: Sito web
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