AUTORE: Paolo di Martino FONTE: Sito web SITO WEB CANALE YOUTUBE PAGINA FACEBOOK
Il contesto è quello della terza e ultima Pasqua vissuta da Gesù a Gerusalemme.
Gesù è entrato nella città santa acclamato dalla folla e ormai i sommi sacerdoti hanno deciso di condannarlo a morte. Come in occasione di ogni grande festa, erano saliti a Gerusalemme anche dei greci, dunque dei pagani, i quali avevano sentito parlare di Gesù. Avvicinano Filippo (discepolo dal nome greco) e gli chiedono: “Vogliamo vedere Gesù”.
Giovanni utilizza un termine che non indica un semplice “vedere”, ma un andare al di là delle apparenze, un vedere per conoscere e per capire. Non basta desiderare di “vedere” Gesù, ma essere pronti ad accogliere le modalità sorprendenti con le quali Dio (ieri come oggi) si fa presente nella storia.
I greci (ma anche gli ebrei) si aspettavano una rivelazione trionfale, invece Gesù si presenta come il seme che deve marcire e portare frutto. Come la potenza di vita nascosta nel seme è sottratta agli occhi, così la fecondità della Croce è scambiata per follia da chi non entra nella logica dell’amore.
Gesù è dinanzi al momento cruciale della sua vita: deve decidere se andare fino in fondo o fermarsi. Aveva predicato al nord, in Galilea, ma sapeva che non era in pericolo finché predicava in periferia. Il suo messaggio non toccava direttamente gli interessi religiosi e politici che erano a Gerusalemme.
Lui sapeva che la decisione di andare a Gerusalemme sarebbe stata una scelta senza ritorno. Nulla sarebbe mai stato più come prima.
La vita, lo sappiamo, ci pone davanti ogni giorno delle scelte: a volte semplici, a volte complicate. Qualche volta la vita ci obbliga a scelte senza ritorno, a scelte coraggiose, difficili sapendo che non si potrà tornare indietro. Sono queste scelte che ci fanno paura.
Lo sappiamo: alcune direzioni vanno prese in un preciso momento: non prima e non dopo. Certe scelte vanno compiute in quel momento o mai più. Gesù sa che deve andare a Gerusalemme adesso, ora, e lo fa.
Gesù usa più volte il termine “gloria” (doxa). Non pensate subito alla fama, all’essere famosi. Per Giovanni la “gloria” è quando Dio si manifesta, si rende visibile, trasparente.
Il culmine della gloria, di dove cioè noi possiamo vedere Dio in Gesù, è la croce. Nella croce noi vediamo chi è davvero Dio: amore, solo amore!
Gesù utilizza la metafora del chicco di grano.
In ebraico “bar” è il “chicco di grano” ma è anche il “figlio”.
Non solo noi possiamo tradurre che il chicco di grano deve morire per portare molto frutto, ma anche che il Figlio deve morire per portare molto frutto. Occhio: il centro della frase non è il morire, ma il “molto frutto”. Il centro è la fecondità, non il sacrificio.
A volte sembra di seminare tanto e con fatica, ma di raccogliere poco o nulla. Abbiamo fretta, incapaci di attendere e guardare oltre, di cambiare il nostro sguardo sulla realtà.
Il seme va piantato, ma bisogna aspettare che muoia per portare frutto. E a volte questi germogli spuntano davanti agl’occhi nei luoghi e nei tempi più insospettabili…
La metafora utilizzata da Gesù descrive sia una legge universale che la propria vita.
Ecco la legge universale: Dio è in me come un seme. Il seme contiene in sé il principio di morte e di vita perché deve morire, venir meno, per poter vivere. E’ la legge dell’evoluzione spirituale: perché Lui nasca bisogna che io (che l’io) muoia.
Paradossalmente chi non vuole morire (cioè trasformarsi, cambiare) morirà veramente. Cioè: non si può vivere e pensare di non soffrire mai, di evitarsi il dolore, le difficoltà, i conflitti. Morire vuol dire cadere a terra, scontrarsi con la realtà della vita e rialzarsi, ritornare con i piedi per terra.
Tutto questo naturalmente ci fa male perché è come morire ma nulla di fruttuoso può nascere, se non cadiamo a terra!
In quella frase è rinchiuso però anche il segreto della vita: solo se è spesa per qualcosa di grande ha senso. Sarà capitato a tutti di incontrare persone che vivono per sé: sono un seme caduto in terra ma che non porta frutto. La loro vita non è di nessun aiuto a nessuno. Passano ma non lasciano tracce dietro di sé.
Nella seconda parte del brano, invece, Giovanni lascia intuire l’angoscia di Gesù.
Giovanni non racconterà il dramma del Getsemani, lo fa qui. Qui c’è tutto il turbamento di Gesù.
Gesù voleva annunciare agli uomini il vero volto di Dio e adesso si trova ad un bivio. O salvare la propria vita, tradendo la sua missione oppure perdere la propria vita e proseguire fino in fondo.
Gesù non ha paura della morte, ha paura del rischio dell’insignificanza. E’ l’angoscia di finire nel nulla. L’angoscia di sentirsi tradito. La paura del fallimento.
Non sono bastati i segni, le belle parole. Gli uomini non hanno capito. Preferiscono credere in un Dio che premia i buoni e punisce i cattivi, un Dio che si può tenere a bada con qualche sacrificio. Insomma, un Dio che ama alla follia i giusti e gli ingiusti, che sa solo amare e che non aspetta il pentimento dell’uomo per concedergli il perdono, proprio non va giù.
Era un Dio troppo diverso da come se lo aspettavano, un Dio troppo diverso da come ce lo aspettiamo.
Ora non rimane che giocare l’ultima carta: la morte di Dio! Immagino l’angoscia di Gesù: “capiranno finalmente gli uomini? E se non dovessero comprendere? I miei cari apostoli non hanno capito nulla nonostante siano rimasti con me notte e giorno. Saranno capaci di rischiare la vita per me?”.
Gesù di Nazareth, insomma, avverte tutta l’angoscia di essere dimenticato insieme ai tanti crocifissi anonimi della storia.
Un chicco di grano è il “quasi niente”, come l’uomo. Nessuno di noi ha cose importanti da dare, ma Dio riesce a prendere questo “quasi niente” e ne ricava molto frutto.
La bella notizia di questa Domenica? Ogni uomo è un “quasi niente” che però contiene invisibili e impensate energie, un cuore pronto a spargere i suoi frutti.
Fonte: il blog di Paolo de Martino