Paolo de Martino – Commento al Vangelo del 20 Marzo 2022

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Ancora un anno, e poi ancora un anno…

Durante la predicazione di Gesù alla folla, mentre è in viaggio verso Gerusalemme, da “alcuni” sono portati alla luce due fatti tragici.
Il primo episodio («quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici») era avvenuto durante la Pasqua quando molti pellegrini andavano a Gerusalemme. Pilato, per prevenire qualche tumulto, aveva ordinato un’esecuzione esemplare compiuta durante il sacrificio al tempio. Un gesto sacrilego. Le fonti dell’epoca di Pilato non ci parlano di un fatto del genere, però la cosa è verosimile, poiché conosciamo la crudeltà con cui agivano i romani nelle terre da loro conquistate.

Il secondo fatto di cronaca riguarda la caduta di una torre situata nella zona di Siloe, che aveva provocato diciotto morti. Un fatto puramente accidentale, e che quindi non prestava il fianco a rivendicazioni politiche. Anche di questo fatto non abbiamo altre notizie.
Gesù com’è suo solito esce dalla casistica e approfitta della notizia mettendola a servizio del suo annuncio. A quel tempo si credeva che il male, le disgrazie, capitassero a causa del peccato dell’uomo. Gesù spezza questa logica. Non è Dio che ha armato la mano di Pilato, che ha abbattuto la torre. La mano di Dio non produce morte; l’asse attorno al quale gira la storia non è il peccato, Dio non punisce chi fa il male.

Interrogativi
“Dov’è Dio?”, ci domandiamo nei giorni della sofferenza. Dio è lì, si coinvolge ma non può frapporsi tra la vittima e il carnefice, è onnipotente, ma solo nell’amore perché Dio è Amore, solo amore. La vita non si svolge nell’aula di un tribunale. Dio non spreca la sua eternità giudicando, condannando e punendo. Quante volte abbiamo sentito dire: “Che cosa ho fatto di male per meritarmi questo?”, quante volte abbiamo avuto l’impressione, nella vita, che Dio fosse indifferente o che addirittura ci “punisse” con qualche disgrazia…
In fondo peccato-punizione, merito-benedizione, sono equazioni che non facciamo fatica a scorgere in noi. Il Dio che premia i buoni e castiga i cattivi, fa parte della logica più arcaica dell’Antico Testamento ma Gesù di Nazareth ha mandato in frantumi questa idea di un Dio troppo umano. Distruggerà l’equazione peccato- castigo, semplicemente perché Dio non può castigare per il male commesso!
L’idea di un Dio che ha il quadro dei bottoni della storia e di ogni singola creatura e che li schiaccia secondo un volere misterioso, può essere addirittura blasfema.

Conversione
Mi piace guardare come Gesù si pone davanti a questi fatti di cronaca. Noi ci saremmo fermati ai luoghi comuni sul destino, la fatalità, Gesù no. Il Maestro legge questi fatti come un invito alla conversione: «Se non vi convertite». Gesù però sembra rimangiarsi quello che ha appena detto: «Se non vi convertite perirete tutti allo stesso modo». Allora Dio punisce? No! Ricorda solo che tutto ciò che facciamo ha delle conseguenze. Non è una condanna, è una conseguenza. La vita è nelle nostre mani e nelle nostre scelte, siamo noi al comando dell’auto della nostra vita che va nella direzione che noi le diamo. Se non cambiamo, se non imbocchiamo altre strade, la terra andrà in rovina perché fondata sulla sabbia della violenza e dell’ingiustizia. Il vangelo è un continuo invito alla conversione, cioè a cambiare il nostro pensiero su noi stessi, sugli altri e su Dio. Le prime parole di Gesù, nel Vangelo di Marco, sono proprio un invito al cambiamento: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo» (1,15). Alla lettera potremmo tradurre “cambiate testa, cambiate modo di pensare e credete alla bella notizia” perché, come diceva Turoldo: «Sbagliarsi su Dio è un dramma, è la cosa peggiore che possa capitarci, perché poi ci sbagliamo sul mondo, sulla storia, sull’uomo, su noi stessi. Sbagliamo la vita». Amico lettore, la fede è cambiamento personale, del tuo modo di sentire, dei tuoi pensieri. Ecco la conversione: se il vangelo non diventa vita è semplicemente inutile, resta solo un bel raccontino.

Frutti
La parabola del fico completa ciò che Gesù sta dicendo (Luca accosta spesso le affermazioni di Gesù al racconto di una parabola).
Nei vigneti della Palestina si lascia crescere l’albero per tre anni e poi inizia a portare i primi frutti. L’albero della parabola, invece, dopo sei anni non ha ancora portato frutto. Il fico non richiede cure particolari, ecco perché il vignaiolo tenta un’ultima possibilità. Amico lettore, sei tu quel fico. Tu puoi portare frutto; tu puoi vivere in maniera feconda, felice.

Che bello vedere Dio che si mette alla ricerca dell’uomo: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti». Per Dio la felicità è stare con i propri figli, ma nonostante le sue premure, il figlio (il fico) non cresce bene.

Sono tre anni che viene a cercare frutti, ma non ne trova. C’è amarezza nelle sue parole: «Sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! ». I tre anni sono gli anni che Gesù ha investito per raccontare Dio, tre anni in cui gli uomini non hanno saputo cogliere la novità. E il padrone chiede di tagliarlo perché il fico sterile non solo non produce, ma rende improduttiva la terra. Ma il vignaiolo chiede ancora un anno di tempo al padrone: “Lascialo”! Cioè, usa misericordia. All’albero è concessa una tregua di un anno e una cura specifica, un’ultima chance. Se porterà frutto in futuro, bene, altrimenti sarà tagliato. Se la nostra vita cristiana ci sembra irrimediabilmente arida, se dopo tutti i buoni propositi non è ancora cambiato nulla, non lasciamoci prendere dallo scoraggiamento, guardiamo al fico della parabola: sono tre anni che non produce nulla, ma il contadino chiede ancora tempo al padrone.
Straordinario l’amore del vignaiolo per il fico: ha pazienza, sa aspettare, gli dedica il suo tempo e il suo lavoro.

Dio è il contadino paziente e fiducioso: “Voglio lavorare ancora un anno attorno a questo fico e forse porterà frutto”. «Quest’anno» è la durata della nostra storia. Ancora un anno, ancora sole, pioggia. Quest’albero (che siamo noi) è buono, darà frutto, ancora un anno. E Poi? Forse ripeterà lo stesso discorso l’anno prossimo, poi il prossimo anno ancora, e così via… semplicemente perché siamo preziosi ai suoi occhi. Dio, come un contadino, si prende cura di quest’albero che sono io e mi lavora, mi pota, mi concima. Amico lettore, non senti le sue mani ogni giorno?

“Forse, l’anno prossimo porterà frutto” pensa il contadino. E’ in quel “forse” il miracolo della misericordia. A Dio è sufficiente per sperare. Ecco la giustizia di Dio, che è sempre misericordia, pazienza, attesa. Il contadino è Gesù, venuto nella vigna di Israele, che dice al Padre: “Lasciala, lasciala ancora, attendi i suoi frutti; io, intanto, me ne prendo cura”.

Amico lettore, la conversione è ancora possibile perché crediamo a questo Dio contadino.
La bella notizia di questo brano? Dio, come un contadino smemorato, continua a scommettere su di noi. Ancora un anno, e poi ancora un anno…

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