Il sogno di Dio? La tua felicità!
All’inizio della vita pubblica di Gesù, gli evangelisti palano di una grande riunione di folle venute dal mondo ebraico e dai territori pagani. Luca fa di questa riunione la cornice di un discorso nel quale Gesù traccia i primi orientamenti del suo insegnamento: è il grande discorso della pianura.
Pietro, Andrea e gli altri hanno iniziato a seguire Gesù. Non più pescatori di pesci ma pescatori di umanità. E dopo qualche mese, sempre sulle sponde del lago, Gesù parla a loro (e a noi) del segreto della felicità. Qual è il senso profondo del nostro esistere? Essere felici. Cerchiamo e sogniamo solo questo. Siamo mendicanti di felicità. Il mondo ci ricorda ogni giorno che per essere felici, bisogna essere in salute, ricchi, meglio se famosi e stimati. Il Maestro indica ai dodici (e a noi) un’altra strada.
Beatitudini
Le beatitudini «sono le parole più alte del pensiero umano» (Gandhi), parole di cui non vedi il fondo. Parole difficili da mettere in pratica, utopistiche, eppure trasmettono pace perché sono la bella notizia che Dio dona gioia a chi produce amore. Se un uomo si fa carico della felicità di un’altra persona, Dio si fa carico della sua felicità. Amico lettore, se tu lasci tutto per Dio, Lui si prende cura di te. Tu sarai felice, perché avrai Dio come custode.
Mentre Matteo riferisce otto beatitudini pronunciate da Gesù, Luca ne racconta solo quattro. In compenso, però, Luca rafforza le quattro beatitudini, opponendo a ognuna di esse una corrispondente maledizione, introdotta da un “guai” («Beati voi… guai a voi»).
Partendo dalla stessa fonte i due autori ci offrono testi differenti perché gli evangelisti, infatti, non sono semplici cronisti, interessati solo a trasmettere fatti e parole ma testimoni.
Luca è meno completo nel numero delle Beatitudini, ma ne coglie il significato essenziale. Insegnare con immagini contrastanti, parallele e ripetitive, era una prassi comune per facilitare l’apprendimento a persone cresciute in una cultura orale. Gesù traccia due modi di concepire la vita, due mondi: o “per il regno di Dio”, o “per la propria consolazione”, o “in funzione di questa vita”, o “in funzione della vita eterna”.
La folla è entusiasta, la felicità sta a cuore a tutti. Loro vogliono sapere proprio quello: cosa devono fare per essere felici?
Gesù si rivolge ai discepoli che lo seguono e non alla folla in generale, si rivolge cioè a quelli che hanno lasciato tutto per Lui e dice: “Felici voi”.
Poveri
«Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio», è questa la beatitudine fondamentale. Non beata la povertà, ma le persone, i poveri. Povero, in greco, traduce un termine ebraico che significa “piegato”. Il povero ha bisogno, perché è vulnerabile, da solo non ce la fa. Probabilmente Gesù ha pronunciato solo questa beatitudine mentre le altre sono state dette in altre circostanze o sono rielaborazioni di Luca.
Un particolare: la prima beatitudine è al presente («vostro è il regno di Dio») mentre le altre sono al futuro (sarete saziati, riderete, avrete la ricompensa nei cieli). Probabilmente Gesù le intendeva come realtà attuali, da costruire ora. Nel corso degli anni, forse, i primi cristiani, di fronte all’apparente impossibilità di realizzare “oggi” il piano di Dio, hanno spostato il loro accento sul futuro. Gesù voleva cambiare il mondo. Da questo punto di vista le beatitudini sono una rivoluzione politica: nel tempo le abbiamo un po’ addolcite. I poveri sono felici qui, ora, perché è con loro che Dio cambia la storia, non con i potenti. I poveri hanno il cuore al di là delle cose.
Felici
«Beati» dice il Signore. Cioè “sarete pienamente felici se sarete poveri, piangerete, se sarete perseguitati e insultati”. Immagino la reazione dei presenti: “Non è che il Maestro si sarà confuso? Felice è chi soffre?”. No amico lettore, non è un inno alla sofferenza ma sono le condizioni ideali per fare esperienza di Dio. Chi assomiglia a Gesù (povero, mite, misericordioso) fa esperienza di Dio. Che bello!
Non dobbiamo cercare la povertà o il dolore ma porre la nostra fiducia in Dio. Si tratta di sapere su che cosa fondiamo la nostra sicurezza, su quale terreno stiamo costruendo l’edificio della nostra vita: se su ciò che passa, o su ciò che non passa. L’ha detto subito Gesù di chi sarebbe stata la felicità, raccontando un Dio che ha un debole per gli ultimi, per i disgraziati.
Gesù proclama felici i poveri perché Dio ama ciascuno secondo il suo bisogno, e il povero è chi ha più bisogno. Siamo chiamati ad aiutare i poveri a imitazione di Gesù. La storia umana è lo spazio d’azione del credente, se vuole essere anche credibile. Chi piange è felice, non perché Dio ama il dolore, ma perché è con loro contro il dolore. Dio è più vicino a chi ha il cuore ferito. Dio non salva l’uomo “dalle” lacrime, ma “nelle” lacrime; non lo protegge “dal” pianto, ma “nel” pianto.
Guai
Diversamente da Matteo, Luca aggiunge quattro durissime ammonizioni: «Guai a voi…», un’apparente stranezza per lo “scriba della mansuetudine”. C’è solo un problema: Gesù non usa la parola “Guai!”. L’espressione greca “Ouai” si rifà a un termine ebraico “Hôi”, il lamento funebre. Potremmo tradurre con “ahimè” che esprime dispiacere, rimpianto, rammarico. Gesù non minaccia, ma piange come già morti coloro che non si lasciano amare.
Speranze
Essere felice, nella Bibbia, significa porre Dio “prima” di ogni altra cosa, davanti a tutto e a tutti. Per noi occidentali la felicità è un obiettivo, una meta e ci affanniamo da mattina a sera nel tentativo di raggiungerla. Corriamo sempre in cerca di qualcosa che non raggiungeremo mai e che ci sfuggirà sempre, ci illudiamo che quando avremo un bel lavoro, una solidità economica, una bella casa saremo felici. Chi raggiunge questi obiettivi, invece, avrà un’amara sorpresa: non basteranno! E così inizierà una nuova rincorsa alla ricerca di altri traguardi. Un uomo dalla cultura occidentale, dinanzi ad una montagna, la deve scalare: un orientale, invece, si ferma, la guarda, e magari prega davanti a lei. Di fronte ad un tramonto, un occidentale cerca di fotografarlo per catturare l’attimo: un orientale, invece, si siede e lo guarda, lascia che queste immagini gli entrino dentro. Per noi occidentali la felicità è la meta, per gli orientali è la strada.
Felicità è una parola ebraica (“ascer”) che vuol dire “avanzare, guidato”. La felicità non è la meta ma la strada che mi porta alla meta. La felicità è oggi o non è mai; è saper godere di questo presente o non sarà in nessun futuro: La felicità non è solo “stare bene” ma vivere tutto ciò che c’è da vivere. Non ci sarà nessun paradiso per chi non sa vivere sulla terra, nessuna felicità senza fine, per chi non vive la felicità che finisce.
Un’ultima annotazione: Gesù le ha vissute le beatitudini, sono il suo ritratto. Abbiamo davanti ai nostri occhi il modello di ogni beatitudine.
La bella notizia di questa domenica? Se accogliamo le beatitudini, la loro logica ci cambia il cuore sulla misura di quello di Dio. E possono cambiare il mondo.
Fonte: il blog di Paolo de Martino | CANALE YOUTUBE | PAGINA FACEBOOK