La formula della felicità
I settantadue discepoli sono tornati dalla predicazione pieni di entusiasmo. Gesù esulta e dice loro: «Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete». In questo dialogo tra Gesù e i suoi discepoli, interviene un dottore della Legge. «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Ecco la domanda che risuona in questa scena. La potremmo anche tradurre così: “Che cosa devo fare per essere felice?
Uno dei modi con il quale ci si avvicina alla fede è quello del dottore della Legge. E’ l’uomo delle regole, sa con esattezza cosa fare e cosa non fare, cosa è giusto e cosa è sbagliato. Le sue intenzioni sembrano buone ma a guardare bene non è così. Innanzitutto parla in piedi, come solo i maestri facevano, è una sfida tra teologi. La domanda è posta per screditare Gesù non per amore della verità. Infine lo chiama “maestro”, quasi per prenderlo in giro, perché gli chiede qualcosa che lui sapeva bene. Gli pone la domanda che da sempre l’uomo religioso si fa: “Che cosa devo fare per andare in Paradiso?”. Oggi diremmo: “Come devo comportarmi per essere un buon cristiano?”.
Nei secoli, abbiamo immaginato Dio come un grande genitore, obbedendo a norme assurde pur di essere in “regola con Lui”. Generazioni di cristiani sono vissuti terrorizzati dalla paura di sbagliare, di non meritarsi il Paradiso. Lo scopo della vita non era amare ma essere in regola. La domanda del dottore della Legge, in fondo, nasconde un problema reale. I dieci comandamenti, al tempo di Gesù, si erano tradotti in seicentotredici precetti: impossibile anche solo ricordarli, figuriamoci osservarli. La domanda ha un senso: cosa è più importante?
Domande
Secondo lo stile rabbinico, Gesù risponde a una domanda con un’altra domanda: in questo modo provoca il dottore della Legge esattamente sul terreno di sua competenza. Il dottore della Legge è smascherato. Gesù sembra dirgli: “Perché mi fai una domanda se sai già la risposta? Poiché sai la risposta, fallo!”. Il dottore ha dimostrato di conoscere la Torah, deve solo viverla. La risposta di Gesù è semplice: “Ama! Ama te stesso, la gente intorno a te e Dio”. L’unica cosa che ci rende felici è imparare ad amare.
Il dottore della Legge cerca di rimettersi in piedi facendo a Gesù un’altra domanda: «Chi è il mio prossimo?» cioè “chi devo amare?”. Domanda insidiosa perché per un ebreo “il prossimo” era un altro ebreo, al massimo un convertito. Un bravo ebreo era tenuto ad amare solo altri ebrei. Il dottore della Legge non può comprendere, per questo Gesù gli racconta una parabola, uno dei suoi racconti più famosi.
Personaggi
C’è un uomo che scende da Gerusalemme a Gerico: ventisette chilometri e un dislivello di mille metri. Di lui non si sa nulla, se non il suo cammino. Una strada famosa per la sua pericolosità e, infatti, cade vittima dei banditi che gli portano via tutto, lasciandolo mezzo morto sul ciglio della strada. Amico lettore, Luca ti sta dicendo che nella vita prima o poi qualcuno ti bastonerà, ti spoglierà, ti lascerà mezzo morto… e ti ritroverai solo. E’ chiaro: se qualcuno non interviene, l’uomo della parabola muore.
«Per caso», passano tre personaggi. I primi due sono un sacerdote (il prete di oggi) e un levita (il nostro sacrestano). Sono il fior fiore della società israelita, eppure passano oltre. Non si spiega il motivo per cui proseguono il cammino senza fermarsi. A proposito dei motivi che hanno spinto il sacerdote e il levita a quella scelta, si sono versati fiumi d’inchiostro: il sangue li avrebbe resi impuri (però non stanno andando al tempio ma scendono verso Gerico); il malcapitato non era annoverato nella categoria del “prossimo”; il povero disgraziato stava per morire e i sacerdoti non potevano toccare i morti secondo Levitico 21,1-4. Tuttavia nessuna ragione regge dinanzi all’urgenza della situazione. I due rappresentanti della religione ufficiale sono così identificati nel proprio ruolo che avevano perso contatto con se stessi, con il proprio sentire: il ruolo aveva ucciso la loro anima.
A dire il vero c’è anche un terzo personaggio, spesso ignorato, che non fa una bella figura: l’albergatore. Anche il suo ruolo gli impedisce di provare amore, compassione. Il ruolo, amici, può uccidere il cuore. Questi personaggi sono simbolo di coloro che evitando l’uomo non troveranno mai Dio. «Percorri l’uomo e raggiungerai Dio» (sant’Agostino). L’uomo è la via maestra verso l’Assoluto.
Samaritano
Alcuni testi giudaici usano nominare tre categorie di persone: sacerdoti, leviti e israeliti. Ci si attende, quindi, che dopo il sacerdote e il levita, Gesù faccia entrare in scena un israelita.
Ma ecco la sorpresa: fa il suo ingresso nella parabola, come personaggio chiave, un samaritano, un eretico, un peccatore, odiato dagli ebrei ma un uomo libero.
Solo lui ne ha compassione. In greco l’espressione è addirittura violenta: “esplanchnisthai” (al samaritano “si spezzano le viscere” a quella vista). Vede, si avvicina, tocca, ascolta. La misericordia è quell’emozione che ti tocca, che ti fa vibrare perché scopri che l’altro è semplicemente come te. Il sacerdote e il levita non hanno sentito nulla.
Non è normale che un samaritano soccorra un ebreo e questo il dottore della Legge lo sa. Il samaritano sceglie di seguire il cuore e non l’istinto, sceglie di sporcarsi le mani con il sangue dello straniero, forse pensando, semplicemente, che avrebbe potuto esserci lui al suo posto. Non si preoccupa dell’identità del malcapitato, gli si avvicina, si prende cura di lui e lo accompagna alla locanda. Mi piace l’accuratezza con cui Luca descrive le cure e l’attenzione del samaritano. Dieci verbi che racchiudono il nuovo decalogo: lo vide, si mosse a pietà, si avvicinò, scese, versò, fasciò, caricò, lo portò, si prese cura, pagò (i due denari, che il samaritano paga al locandiere, erano sufficienti per alloggiare almeno due settimane). Sono i dieci verbi dell’amore, quanta bellezza in quei piccoli gesti.
Prossimo
Gesù conclude: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo?». Ecco il ribaltamento. Dice al dottore, e a te amico lettore: quanto sei disposto a metterti in gioco? Ma soprattutto: non chiederti chi è il tuo prossimo ma “fatti prossimo”. Il samaritano ha capito che “gli altri” non li scegliamo a tavolino ma sono quelli realmente presenti davanti ai nostri occhi. Amico lettore, non chiederti chi aiutare e chi no. Non chiederti chi è il tuo prossimo oggi. Ciò che conta non è delimitare il confine con chi è prossimo e chi non lo è perché il prossimo non è etichettabile. Semplicemente fatti prossimo, abbi cura di chi hai vicino senza stabilire chi può essere escluso. Non ci si sceglie il prossimo, si diventa prossimi di Dio che ama nascondersi nella realtà. Ciò che salva non è l’appartenenza a una religione ma il farsi prossimi, fermarsi dinanzi all’uomo che grida aiuto.
«Va e anche tu fa’ lo stesso», dice Gesù. Anche tu diventa samaritano, fatti prossimo, mostra misericordia. Lo dice al dottore della Legge ma anche a te che stai leggendo: come il buon samaritano prenditi a cuore le ferite di chi ti sta vicino. Non passare oltre, non fare finta di non vedere, non dirti che non è compito tuo.
La bella notizia di questa domenica? La mia è solo una goccia nell’oceano, ma questa non è una buona ragione per non farla cadere nell’acqua.
Fonte: il blog di Paolo de Martino | CANALE YOUTUBE | PAGINA FACEBOOK