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Paolo Curtaz – Commento al Vangelo di domenica 7 aprile 2024

Commento al brano del Vangelo di: Gv 20, 19-31

Beato me

Metti qui il tuo dito
Guarda le mie mani
Tendi la tua mani
Mettila nel mio fianco.

È perentorio il Risorto, con Tommaso. 

Non discute. Sorride, mentre parla. È venuto apposta per lui, otto giorni dopo la sua resurrezione.

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Non era presente, Tommaso, in quella sera piena di meraviglia. Non era con gli altri quando il loro Maestro era apparso dal nulla, mentre ancora, stupiti, commentavano il racconto dei due di Emmaus.

Ma non si era lasciato prendere dall’entusiasmo, Tommaso, una volta tornato nella stanza al piano superiore. 

Non aveva creduto alle loro parole, non al Risorto. 

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Poco credibili, tutti: Andrea, Pietro, Filippo, tutti era fuggiti. E anche lui, Tommaso, era stato travolto dalla paura.

E ora erano lì a dirgli, lo sguardo trasfigurato, luminoso, raggiante, che Gesù era venuto a trovarli, vivo.

Sì, certo, come no.

Non ha creduto ai suoi compagni. Troppo incoerenti, troppo deboli, troppo fragili.

Come noi, poco credibili. Assolutamente poco credibili. I peggiori testimoni del risorto che si possano immaginare. Noi. Noi Chiesa claudicante troppe volte muro e non vetro, troppe volte ostacolo e non epifania, così pesantemente ancorata al limite, alla paura, al calcolo, alla finzione.

Non crede ai suoi amici perché, onestamente, non sono credibili.

Ma resta. Diversamente da noi che, a volte, ci sentiamo, se non migliori, almeno non peggiori di questi cattolici di abitudine. 

Non fugge. Non alza il saopracciglio, infastidito da questi quattro topoloni.

Non fa il superiore, Tommaso. Rimane. E fa bene, perché viene il Signore. Apposta per lui.

Metti, guarda, tendi

Non lo rimprovera, non discute, non argomenta.

Non lo fa sentire in colpa, non rimarca la sua (presunta) poca fede.

Si ricorda bene, il Maestro, di quando Tommaso disse ai compagni pavidi, spinti da Gesù a tornare da Lazzaro nella Gerusalemme che uccide i profeti: andiamo a morire con lui! E della domanda colma di tenerezza del suo Tommaso quando gli chiese: non sappiamo dove vai, come possiamo seguirti? Lo conosce bene, come conosce bene ognuno di noi.

Come conosce te, i tuoi entusiasmi, le tue paure, le tue fragilità, i tuoi punti di forza.

Mostra le sue ferite e invita Tommaso a fare esperienza, a fare memoria, a guardare la concretezza, lo spessore, la ruvidezza della fede. Lo invita a tornare ai piedi di quella croce che ha denudato Dio. che ne ha svelato la potente forza d’amore.

Totale, assoluta, ostesa, donata, pacificata.

Che ha svelato un infinito amore libero. Libero. Libero. Libero.

Metti, tocca, tendi. 

Deve immergersi in quella passione, non fuggirla. Deve andare oltre i segni dei chiodi e la ferite del costato, deve andare dentro, oltre, a fondo. Per coglierne la portata assoluta e devastante. Per attraversare il dolore, per superarlo.

Come se Gesù dicesse: Tommaso, so che hai molto sofferto. Anch’io, guarda.

Guarda, Tommaso.

Guarda quanto sei amato. Guarda come quel dolore sia già superato, abbandonato, fiorito, risorto.

Tommaso sperimenta il più tortuoso dei percorsi: passare dal dolore alla fede.

Anche le ferite, a volte, sono segno per manifestare il risorto. 

Perché condivise dal Maestro.

Mio Signore e mio Dio

Crede, ora, Tommaso.

Lui che, superficialmente, definiamo incredulo, è il primo, davanti all’uomo Gesù, a riconoscerlo Signore e Dio. L’incredulo diventa il più grande fra i credenti, il primo ad usare quel termine assoluto, Dio, riferito a Gesù. Sì, Gesù è Dio.

Ma non è solo il Signore e Dio.

È mio Signore e mio Dio. 

Ora, per Tommaso, la fede diventa un’esperienza personale, unica, assoluta. È sua.

Come Giobbe che non fa teologia sul dolore ma lo sperimenta e, alla fine del suo percorso, vede Dio faccia a faccia.

Ora Tommaso è dentro il mondo divino. Ora non sta più alla porta. Il risorto non è più qualcuno che gli sta accanto, ma di fronte, come Maria di Migdal che dice al giardiniere hanno portato via il mio Signore.

Tu sei mio, Signore. Come io sono tuo.

Perché risorto, fuori dal tempo, fuori dallo spazio, puoi essere di tutti e di ciascuno.

Sì, risorto, tu sei mio.

Beati coloro

Che crederanno senza avere visto.

Beati voi, beati noi che siamo qui a meditare queste parole, a lasciarci invadere dalla compassione e della misericordia. Beati noi che raggiungiamo quelle ferite redente, che proclamiamo Signore e Dio Gesù il Nazareno, risorto per sempre.

Beati noi che crediamo senza avere visto.

È l’unica beatitudine in cui mi riconosco pienamente.

Tanto più in questo tempo di fede incerta, di inaridimento dei cuori, di rabbie guerreggianti.

Le altre beatitudini, lo ammetto, mi lasciano sempre un po’ a disagio perché in esse vedo quella santità che non riesco a far fiorire veramente nella mia vita.

Ma questa sì. Questa è la mia beatitudine.

Io credo anche se non ho visto quelle ferite. Anche se non ho toccato. Anche se non ho, trepidante, sfiorato quelle piaghe trasformate. Anche se non ho guardato lo sguardo ricolmo di luce del risorto.

Credo perché ho visto quanto quelle ferite abbiano cambiato le vite di milioni di persone.

Credo perché l’aroma del risorto è arrivato fino a me, oggi, ancora.

Credo perché oggi tutta la mia anima vibra e so bene quale diga si è spalancata nel cuore di Tommaso.

Didimo, mio gemello. Credo perché so.

Sì, beato me.

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