Tanto
Scrivo sempre con qualche settimana di anticipo, di solito la domenica sera.
Lo faccio all’inizio della mia nuova settimana. Guardo avanti, insomma, non so mai se riuscirò a tenere fede a questo piccolo servizio che procede da più di vent’anni anni senza interruzioni e allora, prima di cena, mi siedo a digitare.
Approfitto dei momenti di relativa calma dal dolore che mi accompagna da nove lunghi mesi, in attesa di un qualche parto. Lo faccio mettendomi in ascolto, lasciando alla Parola il compito di aiutarmi ad attraversare il deserto, di puntare al Tabor, di raggiungere Cristo sorgente e luce e pace.
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Approdo.
Sposo.
E mi chiedo nella mia nuda preghiera, chi sei amico che leggi, che cammino stai facendo, sorella amata. Non lo so. Affido le mie parole al vento dello Spirito.
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Non conosco la tua storia (preziosa agli occhi di Dio) ma sono certo che ha a che fare con il vangelo di oggi. Perché abbiamo urgente bisogno di uscire dai sepolcri. E di toglierci le bende.
Perché siamo tutti Lazzaro. Pensiamo di essere vivi, ma siamo morti e sepolti sotto cumuli di pietre.
Chissà se questo tempo difficile che ha messo a nudo le nostre piccinerie, le nostre paure, i nostri egoismi, la nostra poca fede, non sia la svolta per farci rinascere.
Chissà se avremo il coraggio di ascoltare quel grido che scuote.
Vieni fuori!
Il tuo amico
Gesù si è rifugiato ad Efraim.
Tira una bruttissima aria, per lui, a Gerusalemme. Giovanni struttura il suo vangelo come un gigantesco, infinito processo all’opera di Gesù e Gesù, lo sa, è già stato condannato a morte in contumacia.
Lazzaro, il suo amico Lazzaro, sta male, tanto.
Gesù sa che andare a Betania, a quel punto, equivale ad un vero suicidio.
Sa la morte di un amico, del suo migliore amico, sarà l’occasione di mostrare l’amore che ha per Lazzaro. E per le sue sorelle. E per noi.
Sa che questo amore lo spingerà a fare ciò che nessuno aveva anche solo immaginato si potesse fare: donare la vita per qualcun altro.
La vita di Lazzaro segna la morte di Gesù.
Aspetta qualche giorno e parte. Tutto a Betania, la casa del povero, odora di morte.
La fine prematura di una persona giovane e stimata, ancora oggi, ci getta nel panico totale. Nonostante la fede, nonostante tutto.
È Marta ad uscire per prima. È lei che agisce in casa, lo sappiamo bene.
Le sue parole sono un rimprovero sgomento. Se tu fossi stato qui.
No Marta, non è vero. Se anche Gesù fosse stato presente non avrebbe impedito a Lazzaro di morire.
Anche se Gesù è presente nella nostra vita, anche se siamo suoi amici, se egli ci è amico, non possiamo evitare la morte e il dolore e le prove che egli per primo non ha rifiutato. È normale, istintivo pensare che Gesù ci protegga, ci salvi. E lo fa, ma mai come pensavamo.
Mai come vorremmo.
La vita è mistero, assurdo costringerla nei nostri limitati ragionamenti, nelle nostre legittime ma puerili illusioni. Al discepolo la sofferenza non viene evitata. E la sofferenza e la morte sono passi di una percorso necessario, come il chicco di frumento che deve morire e marcire per portare frutto.
Gesù invita Marta, e noi, a credere. A credere in una resurrezione e in una vita che avvolgono e riempiono questa nostra vita biologica, terrena, che le danno misura e senso, orizzonte e gioia.
Si fida, Marta, e proclama, cuore femminile della comunità, la fede, così come aveva fatto Pietro a Cesarea: io credo che tu sei il Cristo . Anche se stenta a capire, anche se non vede come tutto ciò possa accadere.
Sa, come sappiamo noi, che egli è l’acqua di sorgente, la luce. Ma c’è ancora un passo da affrontare.
Ti chiama
Il maestro è qui e ti chiama.
Così dice Marta a Maria. Così dice Marta a me, oggi.
Maria si alza e, con lei, tutti i famigliari e gli amici. Si ripete la scena, il dolce rimprovero.
Gesù sta per ribattere, come con la sorella. Ma vede le lacrime. Tante. Troppe.
E accade.
Accade l’impensabile. Gesù coppia a piangere. Il Maestro cede.
Come se, per la prima volta, Dio si rendesse conto di quanto dolore possa vivere l’uomo. Di quanto possiamo smarrirci e perderci, deboli e sciocchi che siamo.
Come se Dio, per la prima volta, vedesse quanto dolore ci procura il dolore, quanto smarrimento, quanto disorientamento.
Ci scuote, quel pianto.
Ma non poteva evitare che morisse, invece di piangere? Obiettano alcuni. Ed è l’eterna scelta fra il volto di un Dio garante del quieto vivere o di un Dio appassionato che condivide la nostra vita.
Non ci sono parole per spiegare o per consolare. Solo partecipazione, ora. Gesù chiede dov’è Lazzaro. Vieni a vedere, gli dicono.
Tre anni prima, ai due discepoli del Battista che si erano messi sui suoi passi, aveva usato le stesse parole: venite e vedrete.
Gesù conduce i discepoli a vedere la vita.
I discepoli, ora, gli insegnano a vedere la morte. Dio impara a morire.
E quel dolore, lascia intuire l’evangelista, lo smuove. Darà la sua vita per Lazzaro.
Lazzaro vivrà. Lui, il Signore, ne porterà le conseguenze e ne morirà.
Vieni fuori
Lazzaro, vieni fuori!
Sa bene che quel gesto segnerà la sua fine. Sa bene che alcuni si prenderanno la briga per andare a denunciarlo (per cosa, violazione del regolamento cimiteriale?). Sa bene che le parole non sono più sufficienti.
Ora che ha visto quanto dolore provoca la morte gli resta un ultimo passaggio per poter essere uomo in tutto. Morire.
È piena di gioia e di stupore questa resurrezione.
È pieno di mestizia il cuore del Maestro.
Sì, ora è pronto. Andrà fino in fondo.
Fino all’inimmaginabile.
Lazzaro, noi, io siamo vivi perché Gesù ha donato la sua vita.
E ci invita, ancora e ancora, a vivere da vivi.
Meritiamo la morte di Dio. Tanto valiamo. Tanto vali.
Tanto sei amato, come Lazzaro.
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