Paolo Curtaz – Commento al Vangelo di domenica 25 Settembre 2022

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Abissi

Ci siamo scoperti agapetoi, amati. O forse ci stiamo scoprendo amati.

Non facile, con tutto il caos che abita le nostre vite, le nostre menti, le nostre emozioni.

Ma possibile: il cristianesimo è esattamente, un percorso alla ricerca di Dio sulle orme di Gesù.

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E, con fatica, da stagisti vogliamo imparare ad amare.

A non essere il centro dell’Universo, storditi e affamati di like o spenti sotto il macigno del vittimismo. Vogliamo (vorremmo) diventare liberi seguendo la verità che è Cristo.

Per non essere spazzati via, travolti dal nulla, anche se pieno.

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Per non inseguire l’illusione che la fama, la ricchezza, il consenso, riempiano il cuore.

Come il racconto stordente e aspro del vangelo di oggi.

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NN

Il ricco della parabola non ha un nome, è definito da ciò che mangia, da ciò che possiede, dal suo palazzo, dalle sue vesti.  Il racconto lo dipinge con tre pennellate: è ricco, veste di porpora e bisso, banchetta lautamente tutti i giorni.

Sapere cosa mettere sotto i denti, giorno per giorno, per arrivare al giorno successivo, era il problema principale. Raramente la gente mangiava fino a saziarsi. 

Il ricco, invece, festeggia tutti i santi giorni. È lui la misura del calendario. Lui decide che è festa.

Ogni giorno per lui è festivo, e organizza un lauto banchetto. 

Questa cosa ha talmente colpito l’immaginazione delle prime, affamate comunità cristiane che il banchetto, epulæ in latino, è diventato il carattere distintivo del ricco: epulone, cioè banchettatore, vorace, mangiatore, gaudente.

È tragicamente sazio, si compiace del fatto che è il Signore della sua vita. Non viene descritto come una persona malvagia, non è un brigante, è solo solo. Al centro di tutto. 

È ricco: una condizione rara, allora come oggi. Ma il testo non si sofferma sulla sua condotta morale: non si dice se sia un credente o meno, né se sia una persona corretta, se abbia fatto i denari col malaffare. Forse sale al tempio qualche volta durante l’anno, versa una lauta offerta facendosi ammirare e ricevendo le lodi dei sacerdoti di turno. Veste di porpora e di bisso, che è un lino egiziano pregiato. 

La porpora è una tintura che si otteneva grazie a dei molluschi che vivono nel mar Rosso e nell’oceano indiano. Ne servono migliaia per tingere la stoffa e l’uso della preziosissima porpora era inizialmente riservato agli imperatori, ai sacerdoti e, solo in età imperiale, ai ricchi per sfoggiare le loro possibilità economiche. Il ricco, banchettando, ostenta tutta la sua opulenza.

È imperatore del suo mondo. Come a volte accade anche a noi.

Invece

Invece un mendicante di nome Lazzaro, era gettato alla sua porta.

Così, letteralmente, scrive Luca per sottolineare il contrasto, lo stridore, la totale opposizione: invece.

Lazzaro è privo di tutto, non ha casa, non ha vestito, non ha salute. È gettato alla porta del ricco, è coperto di piaghe, di ulcere, è passivo, non riesce nemmeno ad allontanare i cani che gli si avvicinano per leccargli le ferite. Gesto di compassione o anticamera della morte, scegliete voi.

Possiede solo due cose.

Possiede il desiderio di sfamarsi di ciò che cadeva dalla tavola del ricco. 

L’ultima cosa che resta di lui, annichilito come persona, una “cosa” gettata (bàllo scrive Luca) è il desiderio. Ha molto desiderato. Desidera. È ciò che resta di noi, quando tutto il resto scompare.

Tace, Lazzaro. Desidera ma non dice. Forse non ha nemmeno più la forza di parlare. Forse non osa. Forse vuole solo lasciarsi andare. Desidera cibarsi delle briciole cadute dalla tavola del ricco.

Possiede un nome. È l’unico personaggio in tutte le parabole, di tutte!, che ha un nome.

Il nome, in Israele, indica l’identità profonda, ciò che sei dentro, nella tua anima, nella tua essenza, ciò che Dio rivela a te stesso e che sei chiamato a scoprire.

Si chiama Lazzaro. Dio aiuta.

Funerali

Lazzaro è il primo a morire, bella forza. E la morte, per lui, è stata una liberazione.

Nessun funerale, immaginiamo. Gettato in una fossa comune.

A quel punto diventa affare di Dio che manda un corteo di angeli a prelevarlo per portarlo direttamente nell’abbraccio di Abramo. Abramo! Lazzaro passa direttamente al vertice di tutti i giusti, ha scalato in un solo colpo la scala gerarchica. 

Al tempo di Gesù i rabbini dibattevano: si pensava che la parola di Abramo potesse liberare un ebreo anche dalle fiamme dello Sheol. No, sembra ribattere Gesù, non basta essere ebreo. Bisogna essere vigile. E solidale.

Muore anche il ricco e, semplicemente, viene sepolto.

Nessuna processione angelica per lui, nessun abbraccio. Solo la comune esperienza della terra che copre il suo corpo e inizia a decomporlo. Mentre la sua anima scende anch’essa nello Sheol, nell’Ade, scrive Luca in greco, la lingua dei vangeli. Il luogo dove si pensava, al tempo di Gesù, finissero i morti.

Finisce fra i tormenti, fra le fiamme. Brucia come una scoria.

Vede Abramo, sì, ma da lontano. Un’enorme distanza li separa. Un abisso che lui, il ricco, ha scavato.

Dialoghi

Nello Sheol ci si vede, secondo la dottrina del giudaismo.

Il ricco vede il povero Lazzaro, ancora silente, ma abbracciato. 

Abbracciato teneramente. Ottiene l’attenzione dal padre di Israele, da Abramo, il primo fra i cercatori di Dio. Nessuno lo aveva abbracciato, in vita. Ora Abramo se lo tiene vicino.

Il ricco è tormentato dalla sete, osa parlare al padre Abramo. 

Chiede di poter avere una sola goccia d’acqua da parte di Lazzaro, tanta è la sua arsura, o di avvisare i famigliari.

No, non è possibile, dice Abramo. Fra noi e voi c’è un abisso.

Il ricco non è condannato perché ha oppresso il povero. Ma perché lo ha ignorato.

Empietà e durezza di cuore vengono puniti, pietà e rassegnazione, compensati.

Esiste una parola-chiave nel racconto. Efficace e drammatica. Abisso.

Un abisso separa Abramo, Lazzaro e il ricco. Un abisso invalicabile, che non permette comunicazione, passaggio, salvezza. Un abisso che il ricco ha scavato, giorno dopo giorno, con la sua indifferenza. 

Abramo quasi si scusa, in imbarazzo. Potrebbe anche aiutarlo, inviargli Lazzaro con un po’ d’acqua. Ma l’abisso impedisce ogni azione.

Siamo

Dio è fuoco.

Se siamo carta moneta, incontrandolo bruceremo. Se siamo oro, incontrandolo ci fonderemo in lui.

Se siamo cera, ci accenderemo.

Non costruiamo abissi di indifferenza, in questa vita. Non diventiamo imperatori della nostra vita o ci destiniamo ad un’eterna solitudine.

Perché anche Dio fa quel che può.

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