Paolo Curtaz – Commento al Vangelo di domenica 23 Aprile 2023

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Santi schiaffoni

Gesù è nella nostra vita, giusto.

Lo abbiamo conosciuto, lo ascoltiamo, lo amiamo e, in qualche modo, lo seguiamo. Sì: siamo discepoli, o vorremmo esserlo. Anche in questi tempi di discernimento e di prova per la nostra Chiesa europea, anche in questo mondo che ci stordisce con la sua violenza.

Gesù c’è, assolutamente. E sappiamo che è risorto, ci crediamo, ci credo.

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Eppure nonostante la sua presenza, nonostante i mille segni e le consolazioni, ci sono tempi e momenti in cui ci sembra di affogare, travolti dalle troppe contraddizioni, dalle tante cose da fare, dai problemi che via l’uno arriva l’altro, con l’esperienza e la consapevolezza dei nostri limiti.

Allora prevale la tristezza e lo sconforto, nonostante tutto. Allora scivoliamo nel vittimismo e abbiamo mille e mille ragioni per dirci insoddisfatti.

Qualcuno come noi lo troviamo sempre e parlare delle proprie disgrazie, chissà perché, sembra una buona idea. Come per avere conferma che (sospiro) non ci sono vie d’uscite. E la vita è una croce da portare, altro che.

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Non ditelo ai discepoli Emmaus.

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Non si vede che soffro?

Ci vuole del tempo per convertirsi alla gioia del Nazareno, siamo onesti.

Ci è più connaturale il pianto, la lamentazione, lo sconforto. Tutti abbiamo migliaia di ragioni per sentirci perseguitati, incompresi, a credito verso Dio e il mondo.

Allora, certo, sentiamo una certa affinità con la croce. Ci piace, tutto sommato. 

Perché, in fondo, proiettiamo la nostra frustrazione addosso a Dio.

Come a dire: non sono l’unico a tribolare, lo ha fatto anche Gesù, lo ha fatto anche Dio.

E via a crogiolarci nella nostra sfortuna, dicendo pure che dobbiamo portare la croce, sentendoci autorizzati a piangerci addosso nei secoli eterni. Sfigati e benedetti.

Allora il risorto si rimbocca le maniche e ci viene a pizzicare uno ad uno.

E ci scuote, ci sveglia, ci accompagna fuori dal sepolcro.

Lui il sepolcro l’ha abbandonato.

Noi no.

Ecco perché il risorto si prende la briga di rincorrerci sulle strade del mondo.

Aria

Meglio lasciare Gerusalemme, tira una bruttissima aria. 

I discepoli sono tutti fuggiti o rintanati nel sepolcro. 

Due fra questi hanno preso la strada verso casa. È lì che si affianca uno sconosciuto, un viandante come loro. Attacca bottone chiedendo ragione dei loro discorsi.

Si fermano, i discepoli, quasi offesi: non si vede a sufficienza che stanno male? Che sono tristi? Che sono meritevoli di commiserazione? Ma dove viene questo zotico, buzzurro, insensibile? Ma dove vive? Non sa le cose spaventevoli che sono successe a Gerusalemme?

Gesù sorride: che cosa?

Parlano della sua morte, del suo strazio, della sua croce. Nemmeno se ne ricorda.

Sono tristi, i discepoli, e pronunciano la madre di tutte le frasi tristi del Vangelo: noi speravamo che fosse lui. Invece. Certo: alcune donne, delle nostre, ci hanno detto della tomba vuota, e hanno anche parlato di angeli, ma sai, le donne… Sono talmente ripiegati sul loro dolore da non credere alla testimonianza delle loro sorelle.

Noi speravamo.

La speranza declinata al passato. Una speranza morta e sepolta. Una speranza finita.

Gesù no, è già oltre. Altrove.

Il suo presente è infarcito di futuro.

Deficienti

Gesù lascia dire. Poi passa al contrattacco. 

Volano sonori ceffoni (non sempre chi ti accarezza ti vuole bene e chi ti scuote ti vuole male, anzi).

Idioti. Ritardati nel sincronizzare il loro cuore con il tempo di Dio. Deficienti, cioè manchevoli di prospettiva. Come noi.

Mica conoscono le Scritture, macché. Le ascoltano devotamente a Messa e poi le mettono nel cassetto delle devozioni. La vita è un’altra roba.

Se imparassimo, invece!, a lasciare che la Parola ribalti le nostre vite! E le rianimi! E le smuova! E le frantumi, se necessario! Se lasciassimo Dio ribaltare i tavoli dei nostri templi! Scuote, irrompere, smuovere, ribaltare! 

Le pietre sono rotolate, ma i cuori dei discepoli no.

Si scaldano però. Riescono a distogliere lo sguardo dal loro ombelico. Era l’ora.

Resta con noi, Signore.

Segni

Resta. Si ferma.

Non tira diritto il Signore, se appena accenniamo al cambiamento (non dico alla conversione). Resta, sì. Perché la Parola ha incrinato la loro granitica disperazione, la loro feconda autocommiserazione.

E accade.

Il segno del pane. Lo conoscono bene

Resta il pane, lui non c’è più, ora.

Dietrofront

Tornano a Gerusalemme.

Dagli altri tardi di cuore. Dagli altri manchevoli di prospettiva, dagli altri deficienti. 

Quante volte dovrà apparire il Signore per convertirli?

Raccontano e tutti sono in fibrillazione. Veniamo a sapere che il risorto è apparso anche a Simone, non più Pietro. Non dev’essere andata molto bene quella apparizione, nessuno ne parla.

E mentre parlano, appare anche fra loro.

Quando raccontiamo di come abbiamo incontrato il risorto, il risorto viene.

Eccoci. Ancora.

Deficienti e tardi e tristi. 

Saremmo da prendere tutti a calci nel sedere. Fino a cadere esausti.

Il Signore no, non lo fa. Ancora pazienta, scuote, racconta, spiega, spezza il pane.

Perché ci ama. Perché mi ama.

Immenso Dio.

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