Paolo Curtaz – Commento al Vangelo di domenica 20 Marzo 2022

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A partire da me

Caino si scaglia contro Abele, ancora.

E muoiono i civili. E i bambini. E assedi come nel Medioevo, la gente spinta alla fame e al freddo. E incubo nucleare. E le centrali attaccate. E minacce e spettri.

Dov’è la bellezza del Tabor? Dove il Dio bellissimo raccontato da Gesù?

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Dove, santoiddio, se uomini che si professano cristiani uccidono fratelli nella fede?

Quaresima straziante, la nostra. Di nuove paure, di durissima messa alla prova.

Stavamo uscendo dallo spettro della pandemia. Un mostro, certo, ma legato alla logica della biologia, del mondo in evoluzione, della dinamica della Creazione. Qui no. Si distrugge tutto per affermare principi, per mostrare i muscoli, rissa fra maschi alpha.

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Ma dov’è Dio, alla fine?

Come credere ancora nella salvezza?

Come sperare?

Sia, dai.

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Se

Se Dio è buono perché la sofferenza?

Se fosse una carogna, un Moloch bizzoso e irritabile, allora potrei capire. Ma poiché credo in un Dio buono e misericordioso, perché devo fare i conti col dolore? Soprattutto quando, infine, dirigo la mia vita verso il Tabor, apro squarci di conversione e quindi, in qualche modo, mi aspetterei un po’ più di strada diritta?

È un sadico, Dio? 

Tanto bravo e buono ma non facciamolo innervosire?

O sa e non fa, e allora è malvagio. O non sa quindi non c’è. O sa e non può e quindi è inutile, argomentavano i filosofi greci. 

Lungo la storia gli autori biblici hanno dato diverse risposte che cercavano, in qualche modo, di salvaguardare Dio. Finendo col massacrare l’uomo.

La sintesi del ragionamento era: se soffri è perché hai trasgredito alle indicazioni divine. Insomma: è colpa tua. E il dolore dell’innocente, allora?

I rabbini avevano sentenziato: gli innocenti pagano gli errori dei genitori.

Il ragionamento fila via liscio ma Dio ne esce proprio male! Poi era arrivato Giobbe che aveva sentenziato che anche il giusto soffre e non sappiamo il perché.

Però, dai che risposte del cavolo.

Come se Dio non avesse parlato nella magnifica pagina dell’Esodo: conosco la sofferenza del popolo. 

E invia Mosè. Che pessimo affare. Sta a noi costruire la pace. A me.

Infine Gesù

L’idea che il dolore, la disgrazia, alla fine vada ricondotta a Dio in fondo ci tormenta. E, alla fine, pensiamo che se uno subisce una disgrazia in qualche modo sia una punizione divina, o un avviso bello chiaro. 

Di chi è la colpa per la morte di quei tali sepolti dal crollo della torre di Siloe? E di quei poveracci uccisi durante il culto dai soldati romani?

La risposta di Gesù è destabilizzante: non i loro peccati sono la ragione della loro morte. Ma l’imperizia del costruttore e la violenza dei romani. Ci sono ragioni semplici di causa ed effetto che giustificano gran parte del dolore che viviamo. Come in questa assurda guerra. 

Le nostre scelte, i nostri giri di testa, la prevaricazione degli esseri umani, la bramosia, la caducità dell’essere, il fatto che siamo creatura fragili.

Giusto ci sta.

Ma, aggiunge Gesù, approfittate di questi episodi per farvi i conti in tasca, per capire che la vita è breve e instabile, che è essenziale trovare l’essenziale. Per convertivi. Non offre risposte, ma indica un percorso, vede nella sofferenza una opportunità.

Capisco

Mi ribello in me stesso, io vorrei non soffrire, altro che storie! Ma, alla fine mi arrendo: non ho in me tutte le risposte, non so la ragione del dolore, almeno di quello dell’innocente (molta della sofferenza che vivo me la sono creata io!). Ma mi fido.

Sì, Signore, cerco di prendere le inevitabili fatiche della vita non come una punizione ma come un’opportunità. E no, non ce l’hai affatto con me, non scherziamo.

Io, spesso, ce l’ho con me, e gli altri, più raramente.

E tu non sei l’assicuratore della mia vita, non sono eterodiretto, non sono una marionetta.

Sono io a dover costruire un metro quadrato di pace (nei pensieri, nelle azioni, nelle parole) a partire dal mio cuore pacificato perché scopertosi amato.

Quanto vola alto Gesù! Quanta dignità ritrovo in me stesso!

Di più

L’evangelista Luca osa andare oltre.

Dio è come il padrone che sa pazientare anche se il fico è sterile, anche se si aspetta un abbondante raccolto e non trova nulla. Invece di tagliare il fico e di piantarne un altro, come faremmo noi, gli zappa intorno e lo concima, sperando che porti frutto.

Ha pazienza Dio, è un inguaribile ottimista, spera sempre che riusciamo a cambiare, a dare il meglio di noi, a fiorire e portare frutti. Quante vite aride incontro! E quanto anche la mia vita, nonostante tutte le cure che ho sperimentato in questo lunghi anni, rischia di inaridirsi!

La quaresima mi è data come opportunità per guardare onestamente a me stesso, per vedere se i frutti che produco sono gustosi o acerbi. Per vedere se la cura che Dio rivolge nei miei confronti mi fa crescere rigoglioso o se, piuttosto, rischio di richiudermi in me stesso, nutrendomi della linfa solo per vegetare.

È così bello sperimentare le attenzioni di Dio! 

Ma lo riusciamo a fare solo se, come dicevamo domenica scorsa, il nostro sguardo si spalanca oltre l’ovvio, oltre il quotidiano.

Anche il dolore, allora, può essere letto in una prospettiva diversa.

Nonostante la sofferenza, il Dio che Gesù è venuto a raccontare è buono.

E ha un solo desiderio: che fioriamo.

Allora la sofferenza che sperimentiamo può trasformarsi in un concime che ci nutre dell’essenziale.

E per convertire il mondo. A partire da me.

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