Non apparteniamo alla notte
Noi non apparteniamo alla notte, né alla tenebre.
Perciò vegliamo e restiamo sobri. Perciò non ci lasciamo travolgere dalla generale ubriacatura di paura e di violenza cui stiamo assistendo. Perciò non ci lasciamo scoraggiare dalla situazione che si trascina e di cui non si vede una fine.
Noi non apparteniamo alla notte, né alla tenebre.
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Perché siamo stati tratti alla luce dall’infinita tenerezza di Dio.
Perché le nostre tenebre sono state illuminate dallo sguardo di Cristo che ci ha raggiunto. O che ancora attendiamo, dopo averne sentito parlare.
Perché siamo rinati. O stiamo rinascendo. O desideriamo rinascere.
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Noi non apparteniamo alla notte, né alla tenebre, come ci ha ricordato l’apostolo Paolo.
Come ricorda Matteo alla sua comunità divorata dall’inquietudine, dopo avere assistito, impotente, alla totale distruzione del tempio e alla catastrofica rovina di Gerusalemme.
E questa Parola, come un mantra, vogliamo ripeterla giorno dopo giorno, passo dopo passo, senza morire di paura davanti agli eventi ma, come ci suggerisce il Maestro, alzando lo sguardo.
In attesa del ritorno di colui che ci ha consegnato un tesoro infinto da custodire a da far fruttificare.
Talenti
Diversamente dal significato comune, la parabola di oggi non considera i talenti come delle capacità innate ricevute da Dio, ma come i doni che i discepoli devono custodire e vivificare in attesa del ritorno del Signore nella pienezza dei tempi. La parabola è molto chiara, al riguardo, i talenti vengono dati «a ciascuno secondo la sua capacità» (Mt 25,15).
Nel tempo dell’attesa i servi, cioè noi, sono chiamati a custodire e a far fruttare i talenti, le mine, che il Signore ha loro consegnato: il vangelo, lo Spirito, la comunità, il potere di curare, consolare, perdonare, riconciliare…
Non sono cose da poco, quelle che il Signore ci affida, ma molto preziose!
Una mina vale cento denari e un denaro, ricordate?, è la paga di un operaio per una giornata di lavoro. Un talento equivale alla paga di vent’anni. Quindi il servo che ne riceve cinque, di talenti, ha un capitale da gestire di oltre due milioni degli attuali euro. Mica noccioline!
È preziosissimo ciò che ci viene consegnato, in questo tempo di attesa fra la resurrezione del Signore e il suo ritorno nella pienezza dei tempi, abbiamo gli strumenti per rendere presente il regno di Dio, per farlo crescere.
Non siamo qui a guardare il cielo col naso per aria (At 1,11) ma ad annunciare il vangelo ad ogni vivente (Mc 16,15).
Anche in questo tempo indecifrabile.
Noi non apparteniamo alla notte, né alla tenebre.
Abbiamo i talenti necessari per farlo. E con gioia. Ma ad una condizione: darci da fare.
Il cuore della parabola è proprio il contrasto fra operosità e pigrizia, fra intraprendenza e passività.
I due servi che restituiscono il capitale dei talenti raddoppiato e ricevono l’elogio da parte del mercante, nuovi incarichi e responsabilità e, soprattutto, la partecipazione alla gioia del padrone (che bello credere in un Dio che gioisce del successo dei propri figli!) sono quasi un espediente letterario che Matteo usa per soffermarsi sull’azione del servo pigro, sul dialogo che ne segue e sul drammatico epilogo della vicenda.
Il servo che ha ricevuto un talento, invece di impegnarlo, di farlo fruttare, lo seppellisce.
Ma quel che più sconcerta è la ragione di tale azione: ha paura della reazione del padrone.
La sua idea di Dio è tragica: è un duro che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso.
E quel volto temuto, si concretizza, come un incubo.
Il volto di Dio
Ognuno, alla fine, incontra il Dio che si rappresenta. Il Dio che ama. O di cui ha paura.
Se si ostina nel credere in un Dio duro e severo, incontrerà un dio duro e severo, perché il suo cuore gli impedisce di andare oltre al suo pregiudizio distruttivo e cupo.
Gesù ci tiene a farci sapere che non possiamo piacere a Dio e condividere la gioia di far fruttare i talenti del padrone se dimoriamo nella paura.
L’affermazione finale del padrone che toglie il talento al servo pauroso per darlo a quello talentuoso appare come un’ingiustizia, un’inutile azione di forza.
La misteriosa frase conclusiva, forse aggiunta da Matteo, ne svela il senso: il ricco diventa sempre più ricco perché sa far fruttare i suoi denari. Il povero, il pavido, in questo caso, perde anche quel poco che ha perché paralizzato. Non una punizione, quindi, ma la constatazione che ci vuole spirito d’iniziativa e determinazione per far crescere i guadagni. Quanta più iniziativa ci dovrebbe essere, allora, per far crescere una cosa preziosa come il regno di Dio!
La paura
Possiamo rovinarci la vita a causa della paura.
Anche la vita di fede.
Paura di sbagliare, di essere giudicati. Ci sentiamo incapaci di fare qualcosa. A volte questa paura ci viene instillata sin da piccoli, è figlia della nostra disistima, non sappiamo valutare correttamente cosa siamo e quanto valiamo. Altre volte sono le vicende della vita che ci asfaltano, ci rendono sospettosi, prudenti fino alla paralisi.
Altre volte, come quanto stiamo sperimentando, è la paura della guerra, della violenza che alberga nel cuore dell’uomo, nella palese ingiustizia della contrapposizione, della perdita di quanto pensavamo essere definitivamente acquisito, a dominarci.
Anche rispetto a Dio possiamo avere un’idea sbagliata di lui e di noi: egli è colui che ci giudica, che ci definisce, che ci pesa. Dio è buono e bravo, certo, ma sempre pronto a sottolineare cosa in me non funziona. Perciò non osiamo spendere la vita per lui: non ne vale la pena, non si accontenterà mai o, peggio, sono io ad essere sbagliato.
Invece
Dio si fida talmente di te da affidarti il Regno.
Forse è troppo ottimista, forse dovrebbe essere più prudente ma non se ne cura, lo fa e basta.
E affida i talenti, in proporzione, ai servi, in proporzione alle loro capacità.
Non tutti nasciamo imparati, non tutti siamo costanti e capaci, né dei geni della finanza spirituale. Sappiamo bene quanti danni, come comunità e come singoli, siamo stati capaci di fare tradendo il vangelo! Diventando ostacolo e non trasparenza che fa vedere Dio!
E come si vede la differenza fra le comunità cristiane in cui gli appartenenti si danno da fare, collaborano, agiscono, sono presenti con idee e con tempo a disposizione rispetto a quelle che si lasciano vivere, che avanzano per inerzia, che delegano tutto al parroco o al pastore…
Che bello poter dire: oggi do una mano a Dio alla costruzione del Regno!
Senza compiere gesti straordinari ma orientando la vita al progetto di Dio.
Che onore ricevere da Dio il compito, in questo momento, di diventare portatori di speranza, di vivere nella quotidianità l’esperienza di essere figli della luce.
Siamo drammaticamente liberi. Anche di ricevere un talento (ribadisco: vent’anni di stipendio!) e di seppellirlo. Siamo liberi di scegliere di non scegliere, paralizzati dalla paura.
Esiste la paura, fa parte della nostra natura umana. Passare il tempo a lamentarci, a vivere da vittime, ad accusare gli altri.
Oppure accogliere il dono del vangelo, della comunità, della partecipazione all’azione di evangelizzazione, per diventare testimoni di un mondo altro, fa uscire da noi stessi il meglio, ci rende capaci, ci rende persone nuove.
Noi non apparteniamo alla notte, né alla tenebre.
Mt 25,14-30 | Paolo Curtaz 17 kb 36 downloads
33a domenica del tempo ordinario – Pr 31, 10-13.19-20.30-31/1Ts 5,1-6/Mt 25,14-30 …***
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