Paolo Curtaz – Commento al Vangelo di domenica 19 Febbraio 2023

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Una storia nuova

Tutto è nostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro.

Papa Francesco, o Papa Benedetto, il movimento che mi ha accompagnato a Cristo, quel maestro di vita spirituale, quella straordinaria esperienza in parrocchia, il mio cammino di fede, diremmo oggi.

Tutto è nostro, ma noi siamo di Cristo e Cristo è di Dio.

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Questo possiamo fare per tornare ad essere credenti credibili.

Discepoli. Cioè seguire gli insegnamenti del Maestro. Senza infingimenti, senza glosse, senza “ma”, senza annacquare, senza ridurre l’incontro a dottrina, a etica, a ragionamento, a politica.

E Cristo, a conclusione dell’immenso discorso delle Beatitudini, dopo avere chiesto a chi cerca la felicità di fidarsi, di crederci, alza il tiro.

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Ha ragione, il Signore: se facciamo quello che fanno tutti, se amiamo chi ci ama, se perdoniamo chi poi ci perdona, se prestiamo a chi sappiamo di restituirà, che facciamo di straordinario?

Se il cristianesimo diventa una scipita ricetta per fare i bravi ragazzi, chi mai ne sarà sedotto?

Il mondo è pieno di buon senso. Più o meno.

Il cristiano, quindi, sarebbe solo un brav’uomo più ragionevole degli altri?

In cosa consiste, se esiste, la differenza cristiana?

Non basta il buon senso. Non mi basta il buon senso.

il mondo ha bisogno (urgente) di santità.

Della santità di Dio che si rifletta nel nostro sguardo, nelle nostre parole, nei nostri gesti.

Di diventare santi perché il Signore nostro Dio è il Santo (Lv 19,1).

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Il taglione

Diversamente da come appare, la cosiddetta legge del taglione era una forma di giustizia primitiva ma efficace. Contenuta anche nel Codice di Hammurabi, è una limite alla barbarie, alla vendetta privata. La troviamo nella Torà (Es 21): Ma se segue una disgrazia, allora pagherai vita per vita: occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido.

L’idea era quella della proporzione e al tempo di Gesù era previsto un risarcimento (come scrive il rabbino medievale Rashi di Troyes: Non si intende che si deve privarlo a sua volta dell’organo menomato). 

Alla vecchia legge del taglione Gesù ne contrappone una inversa: invece della vendetta suggerisce di accettare un altro torto maggiore di quello ricevuto. 

Di porre la guancia destra, quindi ad un manrovescio, più brutale del solo schiaffo, a chi ti schiaffeggia.

Alla Torà (Es 22,25-26) che afferma che alla sera occorre restituire il mantello, la sopravveste, Gesù dice di lasciargli anche quello, restando in mutande.

Di ascoltare gli angari, da cui viene angheria, i corrieri del re che avevano il potere di costringere chiunque a mettersi a loro servizio, percorrendo più strada di quanta richiesta. 

Di concedere prestiti a vuoto.

Sul serio?

Paradosso

In questo brano Gesù raggiunge certamente il vertice del linguaggio paradossale. Ma, come fanno notare gli esegeti, non dobbiamo prendere alla lettera le parole del Signore, quanto capirne l’intenzione profonda. 

Non occorre presentare materialmente l’altra guancia ai persecutori ma dare possibilità al malvagio di riflettere sui suoi errori. Non si tratta di subire passivamente i soprusi, di rimanere inerti davanti alle ingiustizie ma di rinunciare ad ogni rivincita, anche a qualche diritto pur di cercare di salvare chi ci perseguita.

Gesù propone un’ascesi paradossale, che disarma l’avversario.

“Gesù non offriva l’altra guancia quando lo schiaffeggiavano, però morì in croce per i malvagi, un sacrificio immensamente superiore. I santi del cristianesimo, salvo casi aneddotici, non si sono esercitati in ingenuità nel regalare il proprio vestito ad un mendicante o nel raddoppiare il tempo del servizio militare, ma in ben più ardue rinunce a favore dei perseguitati e dei nemici” (I.Goma).

La logica del paradosso è sempre presente nell’annuncio evangelico, anche nel nostro, non è certo tenendo le porte della canonica aperte ai poveri che risolveremo la questione dell’immigrazione ma i segni che proponiamo sono credibili e profetici. Questa carica di sovversione evangelica ha caratterizzato la storia della Chiesa anche se, a dire il vero, a volte la Chiesa si è piegata alla logica comune, tradendo il Vangelo.

Non violenza

Rispetto alla non-violenza il cristiano proclama la possibilità del dialogo, lo esercita fino in fondo ma, alla fine, pone il bene della vita altrui prima di ogni altra cosa, ammettendo la difesa personale e di chi sia ha intorno. 

Da qui è nata la querelle dell’intervento umanitario, anche violento. Da qui la guerra giusta di agostiniana memoria, che tentava di porre un freno alla violenza (De Civitate Dei, IV, 6).

Per quel che mi riguarda voglio affrontare l’origine della rabbia e della volenza che trovo in me, che pongo nei miei piccoli gesti quotidiani, che avvelenano le relazioni.

Per amare il prossimo, come chiede il Levitico, devo anzitutto imparare ad amare me stesso.

Costruire attorno a me un metro quadrato di sguardo e di parole pacificate, in questa settimana, qui e ora. Non ci sono soluzioni semplici, non scherziamo, ma solo la potente soluzione della conversione, del cambiamento radicale, dell’osare crederci.

Anche per questo la Chiesa si sta interrogando nel Sinodo, per capire quanto il camminare insieme possa portare ad un cambiamento nel modo di esercitare l’autorevolezza che, in questo momento, si è incartata in una autorità poco credibile.

La perfezione dell’amore

Alla fine capitolo delle Beatitudini, Gesù pone un’autentica rivoluzione: invita ad amare i nemici (agàpe) con l’amore che ci proviene da Dio, non per simpatia, non per folle idealità. 

Ed esemplifica il modo di amare: pregare per quelli che ci perseguitano (Matteo sta scrivendo ad una comunità di perseguitati!). 

E motiva: questo è possibile perché imitiamo l’atteggiamento di Dio che fa piovere sui giusti e i malvagi. E invita noi discepoli a riflettere: in cosa i nostri atteggiamenti non diversi rispetto a chi non crede? 

L’amore resta un vertice ma corriamo il rischio di interpretarla come se fosse il risultato di uno sforzo. È possibile sforzarsi di amare? Non è solo un sentimento? No, certo, l’amore ha anche una componente di volontà soprattutto nei confronti dei nemici, di chi ci ha fatto del male. 

Non un amore di affetto, o mieloso, ma una scelta consapevole, dettata dalla nostra vicinanza a Cristo. Questo amore nasce come imitativo (fare come il Padre che fa sorgere il sole e fa piovere) ma, in Giovanni, diventa contagioso: sono capace di amare con l’amore con cui il Padre mi ama!

Scoprendomi amato lascio che il mio cuore si riempia di amore e tracimi. Così facendo sono in grado di amare (desiderare il bene) per coloro che mi hanno fatto del male. E iniziare una storia nuova.

Mamma mia se mi piace questa cosa!

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