Come un piolo
Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente.
Così Paolo parla a Timoteo, cui ha affidato una delle nascenti comunità.
È affaticato Timoteo, è preso fra mille fuochi, fra mille esigenze.
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E Paolo gli indica il percorso: deve tenere duro, tornare a meditare la Parola annunciata, esortare in ogni modo.
Oggi forse scriverebbe le stesse parole.
Alle nostre comunità che si assottigliano, che devono fare i conti con le nuove (fragili) soluzioni pastorali, che fanno i conti con una mentalità mondana che corrode la vita bella del Vangelo, che sbandano davanti alla modernità che chiede idee nuove, parole nuove per dire lo stesso Dio.
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Ai nostri cuori che fremono, spaventati dalla crisi, dai venti di guerra, passando da una paura all’altra.
Tu rimani saldo in quello che hai imparato, ripete a noi discepoli.
Rimani saldo come un piolo conficcato nel terreno. Un piolo infiammato che fa luce.
E scriverebbe le stesse parole ai tanti preti stanchi, strattonati da mille impegni, svuotati finanche, arresi ad una pastorale sempre più di conservazione. Preti belli, che amano il loro Signore e che, pure, vedono intorno a loro un modello di organizzazione che sta implodendo, velocemente, e che faticano a custodire il loro cuore nell’abbraccio del Signore.
Tu rimani saldo in quello che hai imparato, ripete ai fratelli preti.
È un tempo difficile e prezioso, quello che stiamo vivendo.
In cui sentiamo il bisogno di qualcuno che, sul monte, preghi per noi che combattiamo interiormente con i mille amaleciti. E se siamo uomini e donne di preghiera sentiamo le mani che pesano.
Eppure, amici, questo tempo è di grazia.
Perché Dio fa nuove tutte le cose.
Giudice ingiusto
Il giudice della parabola di oggi non è Dio, non scherziamo, ma il mondo insensibile alla legittime richieste della vedova, vedova che è la sposa di Cristo, la Chiesa.
Luca scrive il suo vangelo quando le comunità cristiane nascenti sono travolte dalla follia dell’Imperatore che chiede di essere venerato come un Dio, e sono sconfortate e scoraggiate. E Gesù dice a loro e a noi: continuate a pregare, tenete legato il filo che vi unisce all’interiorità.
E tanto più il mondo sbraita e si agita tanto più siamo chiamati a dimorare, a insistere, a tenere duro.
Siamo chiamati ad insistere.
Non per convincere Dio, ma per convertire il nostro cuore.
Insistere per purificare il nostro cuore e scoprire che Dio non è un giudice, né giusto né ingiusto, ma un padre tenerissimo.
Insistere non per cambiare radicalmente le cose, neppure per cambiare noi stessi, ma per vedere nel mondo il cuore di Dio che pulsa.
Insistere nella battaglia che, quotidianamente, dobbiamo affrontare, come Mosè che prega per vincere.
Insistere.
Coltivando il mondo interiore, nutrendo l’anima, scrutando e meditando la Parola, luce ai nostri passi.
E se questi tempi cupi ci fossero donati esattamente per tornare all’essenziale?
Per scrollare dal nostro cristianesimo sociale tutte le incrostazioni che lo appesantiscono?
Per evidenziare – di più e meglio – ciò che è il cristianesimo: un percorso spirituale di conoscenza del vero volto di Dio?
Diventare preghiera
Pregare è entrare nel proprio spazio sacro, intimo ed inviolabile.
E lasciare che sia la Parola ad illuminarne l’intelligenza e l’emozione. Sprofondare nel mistero di Dio che è accessibile, che si dona, ma solo a chi ha il coraggio di osare, di insistere, di tacere, di arrendersi alla brezza sottile che ci accarezza l’anima.
Spesso per noi la preghiera è fatica, impegno, lavoro.
Certo: non è facile fare spazio in noi stessi, ritagliarsi uno spazio quotidiano di ascolto, lo vedo per me e per la mia piccola vita di discepolo irrequieto.
Ma quando scopriamo la bellezza della Parola, la sua vastità, la sua attualità, la sua forza, allora n restiamo affascinati. Impariamo a pregare, da soli, in comunità, nella grande preghiera che è la Liturgia.
La preghiera è il santuario in cui scopriamo il vero volto di Dio, il luogo dove l’anima incontra la nostra vita frammentata e sconclusionata. Conservare e coltivare una vita interiore in questo tempo feroce, in un occidente che ha smarrito l’anima, ha un che di eroico.
Domande inquietanti
Non è scontata la fede. Né la presenza di noi cristiani.
Il cristianesimo non si trasmette come il colore degli occhi. Né identifica una nazione, con buona pace per i nostalgici.
È fuoco. O non è.
Allora Gesù, dopo avere raccomandato di insistere, di tenere duro, di praticare e chiedere la giustizia, ammonisce: quando tornerà ci sarà ancora la fede sulla terra?
Non dice: “Ci sarà ancora un’organizzazione ecclesiale? Una vita etica derivante dal cristianesimo? Delle belle e buone opere sociali?” Non chiede: “La gente andrà a Messa, i cristiani saranno ancora visibili, professeranno ancora i valori del vangelo?”.
La fede chiede il Signore. Non l’efficacia, non l’organizzazione, non la coerenza, non la struttura.
Tutte cose essenziali. Se portano e coltivano la fede.
Ma inutili e pericolose, se autoreferenziali, se auto-celebrative.
Altrimenti rischiamo di confondere i piani, di lasciare che le cose penultime e terzultime prendano il posto delle cose ultime.
Lasciamola riecheggiare, questa Parola.
Così, scomoda com’è. Senza sprofondare nel vittimismo e nella lamentazione.
Per poter risponde, durante le nostre assemblee, con la nostra presenza, la nostra vita, il nostro desiderio: sì, Signore, Maestro, se oggi verrai, se ora è la pienezza, troverai ancora la fede bruciare.
La mia.
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