Marco conclude in maniera curiosa il suo vangelo: con le donne intimorite che tornano in città senza dire nulla. Hanno le loro ragioni, ovviamente: chi crederebbe alla testimonianza di una donna?
Infatti così accade: i discepoli di Emmaus (discepoli, non sconosciuti!) raccontano al pellegrino che li ha raggiunti di una testimonianza di alcune donne, delle loro cui, da bravi maschilisti, non hanno creduto.
Le donne erano rimaste sotto la croce dopo che anche gli apostoli, tutti, erano fuggiti a gambe levate. E invece nemmeno loro si mostrano affidabili con quella fuga tumultuosa al sepolcro. L’unico a rimanere in scena è un giovane vestito di vesti bianche.
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Non un angelo, badate bene, ma un giovane, come quello fuggito a gambe levate al Getsemani durante il tumultuoso arresto del Signore. Così Marco, grandioso, manda a noi il messaggio: sei tu che hai partecipato intimamente alla passione del Signore a dover raccontare la resurrezione di Cristo. Sei tu, cioè noi lettori del ventesimo secolo.
Così Marco chiude il suo scritto con questa nota di timore e silenzio. Ma questo silenzio si è evidentemente interrotto visto tutto quello che è accaduto in seguito. Ecco, allora, che qualcuno sente l’esigenza di aggiungere un finale nel primo vangelo, riassuntivo delle diverse apparizioni del risorto raccontate dagli altri evangelisti.
Mi ha sempre stupito il fatto che Marco non concludesse il vangelo. Forse perché la risurrezione è evento di fede: se è evidente e sperimentabile la crocefissione, nessuno ha assistito alla risurrezione e nessuno, mai, potrà dimostrarla.
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È evento storico, certo, ma richiede adesione interiore: la fede inizia là dove l’esperienza si ferma. Ancora oggi la risurrezione di Cristo è legata al nostro cammino interiore, ci “costringe” a schierarci e a interrogarci. E, se vogliamo, a diventare testimoni del risorto.
FONTE: Amen – La Parola che salva – Il blog di Paolo
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