Possiamo sprecarne, di parole, quando preghiamo. Fiumi di parole che cercano, invano, di attirare l’attenzione di un Dio distratto, che cercano di scuoterlo dalla sua divina indifferenza, dalla sua affettata lontananza, di stordirlo con le nostre giaculatorie. Parole che abbiamo mandato a memoria, formule che ci provengono dal passato, ricordi dell’infanzia quando alla sera ci si chiedeva: hai recitato le preghiere?
Parole speciali, di nicchia, riservate, immaginiamo, al mondo del sacro, pronunciate con qualche sfumatura di superstizione, recitate frettolosamente, spesso, senza nemmeno ascoltare quanto stiamo dicendo… E poi ci sono le parole.
Quelle che Gesù ci ha consegnato per andare dritti al cuore di Dio. Quelle dei figli che riconoscono in Dio un padre premuroso e nascosto. Che vorrebbero che altri lo conoscessero, che il suo Regno di giustizia si manifestasse, convinti che la sua è una volontà di bene. Quelle che chiedono il pane giorno per giorno, fidandosi, il perdono e la capacità di perdonare, e la capacità di resistere nella prova.
Sono le parole che Gesù ci ha insegnato perché le ha vissute e le ha pregate, perché mai si è rivolto ad un despota da convincere o a un potente da corrompere per ottenere qualche favore speciale, ma ad un padre che conosce ciò di cui abbiamo bisogno, ciò che ci fa crescere e fiorire. Sono le parole che compongono la preghiera, l’unica che ci è stata affidata, la prima e la più importante che ci aiuta a conoscere chi siamo noi e chi è Dio.
Perché la preghiera del Padre Nostro dovrebbe davvero intessere le nostre giornate, aprirle e concluderle, per ricordarci sempre cosa caratterizza la nostra fede. Per fare memoria di cosa siamo chiamati a sperimentare in questa vita, a realizzare nel quotidiano, per ricordarci che siamo amati e che siamo chiamati ad amare.
Noi non crediamo in un Dio lontano, ostile, burbero, lunatico, ma in una padre/madre felice che ci vuole felici. Anche oggi.
✝️ Commento al brano del Vangelo di: ✝ Mt 6,7-15
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