Il cristiano è chiamato a perdonare quando si rende conto di quanto a lui è stato perdonato. L’accentuata sproporzione del debito nella parabola rivela il divario fra il gesto di Dio e il nostro. Siamo chiamati a perdonare perché perdonati, non perché più buoni.
Troppe volte dimentichiamo un’offesa subita perché, tutto sommato, ci sentiamo migliori. Non ti perdono per dimostrare qualcosa, ma perché ne ho un bisogno assoluto, perché il rancore fa male a me prima che a te, perché ho bisogno di abbandonare la rabbia che avvelena la mia vita…
Siamo chiamati a perdonare gratis, non sperando che il nostro perdono cambi l’atteggiamento di chi ci ha offeso: come Gesù, rischiamo di essere ridicolizzati per il nostro gesto, di vedercelo rinfacciare come debolezza. Poco importa: chi ha incontrato il grande perdono non può fare a meno di guardare all’altro con uno sguardo di comprensione e verità. E concretezza.
Perdonare non è un’amnesia: ti perdono ma non riesco a dimenticare, non ci penso, prevale la volontà all’emozione. Se anche ti incontro, tu che mi hai ferito, continuo ad essere turbato ma voglio augurarti la conversione, voglio che il dolore che mi hai fatto finisca di infettare la mia fragile vita. Ti perdono perché il perdono guarisce chi lo esercita, non colui a cui viene destinato.
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