Non sappiamo pregare, no. Ci proviamo, ci forziamo finanche, ma quando gli apostoli vedono l’intensità della preghiera di Gesù, il suo ritirarsi in solitudine, senza ostentare, senza apparire, quando vedono la forza che scaturisce in lui dopo ogni momento di preghiera, capiscono di non essere capaci.
Gli apostoli, come noi, erano dei ferventi devoti, avevano imparato le preghiere da recitare a memoria e i salmi da recitare in sinagoga. Ma davanti alla preghiera di Gesù si rendono conto di non essere capaci, semplicemente. E chiedono. Insegnaci a pregare, Maestro. Sì, Signore, insegnaci a pregare perché non sappiamo da dove partire, non sappiamo che parole usare, a chi rivolgerci.
E il Signore, come Giovanni Battista, ci insegna e ci consegna la preghiera. La preghiera dei figli che si affidano e si fidano, che chiedono e si impegnano, che leggono la propria vita alla luce dell’immenso amore del Padre. Ed è proprio da questa consapevolezza, che Dio non è un giudice severo o un monarca assoluto, svogliato e scostante, ma un padre/madre attento e premuroso che scaturisce il nostro desiderio di pregare.
La preghiera imparata alla scuola di Gesù ci svela l’identità di un Dio felice che ci vuole felici, che non ce l’ha con noi, che ci ama talmente da lasciarci liberi. Proprio come fanno i padri e le madri che non obbligano i propri figli a prendere delle decisioni, li incoraggiano, li osservano senza essere ingombranti. Così è il Dio di Gesù, libero e liberante, in cui possiamo crescere e fiorire e portare frutto.
Ogni volta che recitiamo questa preziosissima preghiera, ogni giorno ci rendiamo conto di essere figli del gran re. Da questa consapevolezza scaturisce la nostra autostima e la nostra dignità. Da questa consapevolezza nasce il rispetto verso gli altri, come figli di Dio. Da questa consapevolezza nasce il desiderio di costruire relazioni significative e in armonia con gli altri.
Così la preghiera ci conduce a vedere noi stessi e gli altri in una prospettiva diversa.
FONTE: Amen – La Parola che salva