Alle ore 9 di questa mattina, nella Cappella Redemptoris Mater, il Predicatore della Casa Pontificia, Rev.do P. Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., ha tenuto la seconda Predica di Quaresima.
Tema delle meditazioni quaresimali è il seguente:
“Rivestitevi del Signore Gesù Cristo” (Romani 13,14).
Le successive prediche di Quaresima avranno luogo venerdì 9, 16 e 23 marzo.
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...Testo della predica
- Alle fonti della santità cristiana
Insieme con l’universale chiamata alla santità”, il Concilio Vaticano II ha dato anche precise indicazioni su che cosa si intende per santità, in che cosa essa consiste. Nella Lumen gentium si legge:
“Il Signore Gesù, maestro e modello divino di ogni perfezione, a tutti e a ciascuno dei suoi discepoli di qualsiasi condizione ha predicato quella santità di vita, di cui egli stesso è autore e perfezionatore: «Siate dunque perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste» (Mt 5,48). Mandò infatti a tutti lo Spirito Santo, che li muova internamente ad amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, con tutte le forze (cfr Mc 12,30), e ad amarsi a vicenda come Cristo ha amato loro (cfr. Gv 13,34; 15,12). I seguaci di Cristo, chiamati da Dio, non a titolo delle loro opere, ma a titolo del suo disegno e della grazia, giustificati in Gesù nostro Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere e perfezionare con la loro vita la santità che hanno ricevuto” (LG 40).
Tutto ciò viene riassunto nella formula: “la santità è la perfetta unione con Cristo” (LG, 50). Questa visione riflette la preoccupazione generale del Concilio di tornare alle fonti bibliche e patristiche, superando, anche in questo campo, l’impostazione scolastica dominante per secoli. Si tratta ora di prendere coscienza di questa visione rinnovata della santità e farla passare nella pratica della Chiesa, cioè nella predicazione, nella catechesi, nella formazione spirituale dei candidati al sacerdozio e alla vita religiosa e –perché no? – anche nella visione teologica a cui si ispira la prassi della Congregazione dei Santi .
Una delle differenze maggiori tra la visione biblica della santità e quella scolastica sta nel fatto che le virtù non vengono fondate tanto sulla “retta ragione” (la recta ratio aristotelica), quanto sul kerygma; essere santo non significa seguire la ragione (spesso comporta il contrario!), ma seguire Cristo. La santità cristiana è essenzialmente cristologica: consiste nell’imitazione di Cristo e, al suo vertice – come dice il concilio – nella “perfetta unione con Cristo”.
La sintesi biblica più completa e più compatta di una santità fondata sul kerygma è quella tracciata da san Paolo nella parte parenetica della Lettera ai Romani (capp. 12-15). All’inizio di essa l’Apostolo da una visione riassuntiva del cammino di santificazione del credente, del suo contenuto essenziale e del suo scopo:
“Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. 2Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rom 12,1-2).
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Abbiamo meditato la volta scorsa su questi versetti. Nelle prossime meditazioni, partendo da ciò che segue nel testo paolino e completandolo con ciò che l’Apostolo dice altrove sullo stesso argomento, cercheremo di mettere in luce i tratti salienti della santità, quelle che oggi si chiamano le “virtù cristiane” e che il Nuovo Testamento definisce i “frutti dello Spirito”, le “opere della luce”, o anche “i sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2, 5).
A partire dal capitolo 12 della Lettera ai Romani tutte le principali virtù cristiane, o frutti dello Spirito, sono elencati: il servizio, la carità, l’umiltà, l’obbedienza, la purezza. Non come virtù da coltivare per se stesse, ma come necessarie conseguenze dell’opera di Cristo e del battesimo. La sezione inizia con una congiunzione che da sola vale un trattato: “Vi esorto dunque…”. Quel “dunque” significa che tutto ciò che l’Apostolo dirà da questo momento in poi non è che la conseguenza di quello che ha scritto nei capitoli precedenti sulla fede in Cristo e sull’opera dello Spirito. Rifletteremo su quattro di queste virtù: carità, umiltà, obbedienza e purezza, cominciando dalla prima.
- Un amore sincero
L’agape, o carità cristiana, non è una delle virtù, fosse pure la prima; è la forma di tutte le virtù, quella da cui “dipendono tutta la legge e i profeti” (Mt 22, 40; Rom 13,10) . Tra i frutti dello Spirito che l’Apostolo elenca in Galati 5, 22, al primo posto troviamo l’amore: “Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace…”. Ed è con esso che, coerentemente, inizia anche la parenesi sulle virtù nella Lettera ai Romani. Tutto il capitolo dodicesimo è un susseguirsi di esortazioni alla carità:
“La carità non abbia finzioni […];
amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno,
gareggiate nello stimarvi a vicenda…” (Rm 12, 9 ss).
Per cogliere l’anima che unifica tutte queste raccomandazioni, l’idea di fondo, o, meglio, il “sentimento” che Paolo ha della carità bisogna partire da quella parola iniziale: “La carità non abbia finzioni!”. Essa non è una delle tante esortazioni, ma la matrice da cui derivano tutte le altre. Contiene il segreto della carità.
Il termine originale usato da san Paolo e che viene tradotto “senza finzioni”, è anhypòkritos, cioè senza ipocrisia. Questo vocabolo è una specie di luce-spia; è, infatti, un termine raro che troviamo impiegato, nel Nuovo Testamento, quasi esclusivamente per definire l’amore cristiano. L’espressione “amore sincero” (anhypòkritos) ritorna ancora in 2 Cor 6, 6 e in 1 Pt 1, 22. Quest’ultimo testo permette di cogliere, con tutta certezza, il significato del termine in questione, perché lo spiega con una perifrasi; l’amore sincero – dice – consiste nell’amarsi intensamente “di vero cuore”.
San Paolo, dunque, con quella semplice affermazione: “la carità sia senza finzioni!”, porta il discorso alla radice stessa della carità, al cuore. Quello che si richiede dall’amore è che sia vero, autentico, non finto. Anche in ciò l’Apostolo è l’eco fedele del pensiero di Gesù; egli, infatti, aveva indicato, ripetutamente e con forza, il cuore, come il “luogo” in cui si decide il valore di ciò che l’uomo fa (cf. Mt 15, 19).
Possiamo parlare di un’intuizione paolina, a riguardo della carità; essa consiste nel rivelare, dietro l’universo visibile ed esteriore della carità, fatto di opere e di parole, un altro universo tutto interiore, che è, nei confronti del primo, ciò che è l’anima per il corpo. Ritroviamo questa intuizione nell’altro grande testo sulla carità, che è 1 Cor 13. Ciò che san Paolo dice lì, a osservare bene, si riferisce tutto a questa carità interiore, alle disposizioni e ai sentimenti di carità: la carità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non si adira, tutto copre, tutto crede, tutto spera… Nulla che riguardi, per sé e direttamente, il fare del bene, o le opere di carità, ma tutto è ricondotto alla radice del volere bene. La benevolenza viene prima della beneficenza.
È l’Apostolo stesso che esplicita la differenza tra le due sfere della carità. Dice che il più grande atto di carità esteriore (il distribuire ai poveri tutte le proprie sostanze) non gioverebbe a nulla, senza la carità interiore (cf. 1 Cor 13,3). Sarebbe l’opposto della carità “sincera”. La carità ipocrita, infatti, è proprio quella che fa del bene, senza voler bene, che mostra all’esterno qualcosa che non ha un corrispettivo nel cuore. In questo caso, si ha una parvenza di carità, che può, al limite, nascondere egoismo, ricerca di sé, strumentalizzazione del fratello, o anche semplice rimorso di coscienza.
Sarebbe un errore fatale contrapporre tra di loro carità del cuore e carità dei fatti, o rifugiarsi nella carità interiore, per trovare in essa una specie di alibi alla mancanza di carità fattiva. Sappiamo con quanto vigore la parola di Gesù (Mt 25), di san Giacomo (2, 16 s) e di san Giovanni (1 Gv 3, 18) spingono alla carità dei fatti. Sappiamo l’importanza che san Paolo stesso dava alle collette a favore dei poveri di Gerusalemme.
Del resto, dire che, senza la carità, “a ninte mi giova” anche il dare tutto ai poveri, non significa dire che ciò non serve a nessuno e che è inutile; significa piuttosto dire che non giova “a me”, mentre può giovare al povero che la riceve. Non si tratta, dunque, di attenuare l’importanza delle opere di carità, quanto di assicurare a esse un fondamento sicuro contro l’egoismo e le sue infinite astuzie. San Paolo vuole che i cristiani siano “radicati e fondati nella carità” (Ef 3, 17), cioè che la carità sia la radice e il fondamento di tutto.
Quando noi amiamo “dal cuore”, è l’amore stesso di Dio “effuso nel nostro cuore dallo Spirito Santo” (Rom 5,5) che passa attraverso di noi. L’agire umano è veramente deificato. Diventare “partecipi della natura divina” (2 Pt 1, 4) significa, infatti, diventare partecipi dell’azione divina, l’azione divina di amare, dal momento che Dio è amore!
Noi amiamo gli uomini non soltanto perché Dio li ama, o perché egli vuole che noi li amiamo, ma perché, donandoci il suo Spirito, egli ha messo nei nostri cuori il suo stesso amore per essi. Si spiega così perché l’Apostolo afferma subito dopo: “Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole, perché chi ama il suo simile ha adempiuto alla legge” (Rm 13, 8).
Perché, ci chiediamo, un “debito”? Perché abbiamo ricevuto una misura infinita d’amore da distribuire a suo tempo tra i conservi (cf Lc 12, 42; Mt 24, 45 s.). Se non lo facciamo defraudiamo il fratello di qualcosa che gli è dovuto. Il fratello che si presenta alla tua porta forse ti chiede qualcosa che non sei in grado di dargli; ma se non puoi dargli quello che ti chiede, bada di non rimandarlo senza quello che gli devi, e cioè l’amore.
- Carità con quelli di fuori
Dopo averci spiegato in che consiste la vera carità cristiana, l’Apostolo, nel seguito della sua parenesi, mostra come questo ”amore sincero” deve tradursi in atto nelle situazioni di vita della comunità. Due sono le situazioni sulle quali l’Apostolo si sofferma: la prima riguarda i rapporti ad extra della comunità, cioè con quelli di fuori; la seconda, i rapporti ad intra, tra i membri della stessa comunità. Ascoltiamo alcune sue raccomandazioni che si riferiscono al primo rapporto, quello con il mondo esterno:
“Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite […]. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti. Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina […]. Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere […]. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene” (Rom 12, 14 – 21).
Mai, come in questo punto, la morale del Vangelo appare originale e diversa da ogni altro modello etico, e mai la parenesi apostolica appare più fedele e in continuità con quella del Vangelo. Quello che rende tutto ciò particolarmente attuale per noi è la situazione e il contesto in cui questa esortazione viene rivolta ai credenti. La comunità cristiana di Roma è un corpo estraneo in un organismo che – nella misura in cui si accorge della sua presenza – lo rigetta. È una minuscola isola nel mare ostile della società pagana. Sappiamo quanto, simili circostanze, sia forte la tentazione di chiudersi in se stessi, sviluppando il sentimento elitario e arcigno di una minoranza di salvati in un mondo di perduti. Con questo sentimento viveva, in quello stesso momento storico, la comunità essena di Qumran.
La situazione della comunità di Roma descritta da Paolo rappresenta, in miniatura, la situazione attuale di tutta la Chiesa. Non parlo delle persecuzioni e del martirio a cui sono esposti i nostri fratelli di fede in tante parti del mondo; parlo dell’ostilità, del rifiuto e spesso del profondo disprezzo con cui non solo i cristiani, ma tutti i credenti in Dio sono guardati in vasti strati della società, specie in quelli più influenti e che determinano il sentire comune. Essi sono considerati appunto dei corpi estranei in una società evoluta ed emancipata.
L’esortazione di Paolo non ci permette di perderci un solo istante in astiose recriminazioni e in sterili polemiche. Non si esclude naturalmente di dare ragione della speranza che è in noi “con dolcezza e rispetto”, come raccomandava san Pietro (1 Pt 3, 15-16). Si tratta di capire qual è l’atteggiamento del cuore da coltivare nei confronti di una umanità che, nel suo insieme, rifiuta Cristo e vive nelle tenebre anziché nella luce (cf. Gv 3,19). Tale atteggiamento è quello di una profonda compassione e tristezza spirituale che porta ad amarli e soffrire per loro; a farsene carico davanti a Dio, come Gesú si è fatto carico di tutti noi davanti al Padre.
È questo uno dei tratti più belli della santità di alcuni monaci ortodossi. Penso a san Silvano del Monte Athos. Egli diceva:
“Vi sono uomini i quali augurano ai loro nemici e ai nemici della Chiesa la rovina e i tormenti del fuoco della dannazione. Essi pensano in tal modo perché non sono stati istruiti dallo Spirito Santo nell’amore di Dio. Colui invece che veramente lo ha imparato versa lacrime per il mondo intero. Tu dici: ‘È malvagio e possa quindi bruciare nel fuoco dell’inferno’. Ma io ti domando: ‘Se Dio ti desse un bel posto in Paradiso e tu vedessi gettato nelle fiamme colui al quale tu lo auguravi, forse che neanche allora ti addoloreresti per lui, chiunque egli fosse, anche se nemico della Chiesa” .
Al tempo di questo santo monaco, i nemici erano soprattutto i bolscevichi che perseguitavano la Chiesa della sua amata patria russa. Oggi il fronte si è allargato e non esiste “cortina di ferro” al riguardo. Nella misura in cui un cristiano scopre la bellezza infinita, l’amore e l’umiltà di Cristo, non può fare a meno di sentire una profonda compassione e sofferenza per chi volontariamente si priva del bene più grande della vita. L’amore diventa in lui più forte di ogni risentimento. In una situazione simile, Paolo arriva a dirsi disposto a essere lui stesso “anatema, separato da Cristo”, se ciò poteva servire a farlo accettare da quelli del suo popolo rimasti fuori (cf. Rom 9, 3).
- La carità ad intra
Il secondo grande campo di esercizio della carità riguarda, si diceva, i rapporti all’interno della comunità: in pratica, come gestire i conflitti di opinioni che emergono tra le diverse sue componenti. A questo tema l’Apostolo dedica l’intero capitolo 14 della Lettera.
Il conflitto allora in atto nella comunità romana era tra quelli che l’Apostolo chiama “ i deboli” e quelli che chiama “i forti”, tra i quali pone se stesso (“Noi che siamo i forti…”) (Rom 15,1). I primi erano coloro che si sentivano moralmente tenuti a osservare alcune prescrizioni ereditate dalla Legge o da precedenti credenze pagane, come il non mangiare carne (in quanto c’era il sospetto che fosse stata immolata agli idoli) e il distinguere un giorno dall’altro. I secondi, i forti, erano quelli che, in nome della libertà del Vangelo, avevano superato questi tabù e non distinguevano cibo da cibo o giorno da giorno. La conclusione del discorso (cf. Rom 15, 7-12) fa capire che sullo sfondo c’è il solito problema del rapporto tra credenti provenienti dal giudaismo e credenti provenienti dai gentili.
Le esigenze della carità che l’Apostolo inculca in questo caso ci interessano in sommo grado perché sono le stesse che si impongono in ogni tipo di conflitto intraecclesiale, compresi quelli che viviamo oggi, sia a livello di Chiesa universale che della comunità particolare in cui ognuno vive.
I criteri che l’Apostolo suggerisce sono tre. Il primo è seguire la propria coscienza. Se uno è convinto in coscienza di fare peccato facendo una certa cosa, non deve farla. “Tutto ciò, infatti, che non viene dalla coscienza – scrive l’Apostolo – è peccato” (Rom 14, 23). Il secondo criterio è rispettare la coscienza altrui e astenersi dal giudicare il fratello:
“Ma tu, perché giudichi il tuo fratello? E tu, perché disprezzi il tuo fratello? […] D’ora in poi non giudichiamoci più gli uni gli altri; piuttosto fate in modo di non essere causa di inciampo o di scandalo per il fratello” (Rom 14, 10.13).
Il terzo criterio riguarda soprattutto “i forti” ed è di evitare di dare scandalo:
”Io so, e ne sono persuaso nel Signore Gesú – prosegue l’Apostolo – che nulla è impuro in se stesso; ma se uno ritiene qualcosa come impuro, per lui è impuro. Ora se per un cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti più secondo carità. Non mandare in rovina con il tuo cibo colui per il quale Cristo è morto! […] Cerchiamo dunque ciò che porta alla pace e alla edificazione vicendevole.” (Rom 14, 14-19).
Tutti questi criteri sono però particolari e relativi, rispetto a un altro che è invece universale e assoluto, quello della signoria di Cristo. Sentiamo come lo formula l’Apostolo:
”Chi si preoccupa dei giorni, lo fa per il Signore; chi mangia d
tutto, mangia per il Signore, dal momento che rende grazie a Dio; chi non mangia di tutto, non mangia per il Signore e rende grazie a Dio. Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, 8perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore. 9Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi” (Rom 14, 6-9).
Ognuno è invitato a esaminare se stesso per vedere cosa c’è al fondo della propria scelta: se c’è la signoria di Cristo, la sua gloria, il suo interesse, o non invece, più o meno larvatamente, la propria affermazione, il proprio “io” e il proprio potere; se la sua scelta è di natura veramente spirituale ed evangelica, o se non dipende invece dalla propria inclinazione psicologica, o, peggio, dalla propria opzione politica. Questo vale nell’uno e nell’altro senso, cioè sia per i cosiddetti forti che per i cosiddetti deboli; sia, diremmo noi oggi, per chi sta dalla parte della libertà e novità dello Spirito, sia per chi sta dalla parte della continuità e della tradizione.
C’è una cosa di cui si deve tener conto per non vedere, nell’atteggiamento di Paolo su questo argomento, una certa incoerenza rispetto al suo insegnamento precedente. Nella Lettera ai Galati egli sembra assai meno disponibile al compromesso e a tratti si mostra addirittura adirato. (Se avesse dovuto subire il processo di canonizzazione oggi, difficilmente Paolo sarebbe diventato santo perché sarebbe stato piuttosto difficile dimostrare la “eroicità” della sua pazienza! Egli a volte “sbotta”, però poteva dire: “Non sono più io che vivo, Cristo vive in me” (Gal 2, 20), e questa, si è visto, è l’essenza della santità cristiana).
Nella Lettera ai Galati, Paolo rimprovera a Pietro quello che qui sembra raccomandare a tutti, e cioè di astenersi dal mostrare la propria convinzione per non dare scandalo ai semplici. Pietro infatti, ad Antiochia, era persuaso che mangiare con i gentili non contaminasse un giudeo (era già stato in casa di Cornelio!), ma si astiene dal farlo per non dare scandalo ai giudei presenti (cf. Gal 2, 11-14). Paolo stesso, in altre circostanze, agirà allo stesso modo (cf. At 16, 3; 1 Cor 8,13).
La spiegazione non sta naturalmente solo nel temperamento di Paolo. Anzitutto, la posta in gioco ad Antiochia era molto più chiaramente legata all’essenziale della fede e alla libertà del Vangelo di quanto pare che si trattasse a Roma. In secondo luogo –ed è il motivo principale – ai Galati Paolo parla come fondatore della Chiesa, con l’autorità e la responsabilità del pastore; ai Romani parla a titolo di maestro e fratello nella fede: per contribuire, dice, alla comune edificazione (cf. Rom 1, 11-12). C’è differenza tra il ruolo del pastore a cui è dovuta l’obbedienza e quello del maestro a cui sono dovuti soltanto il rispetto e l’ascolto.
Questo ci fa capire che ai criteri di discernimento menzionati se ne deve aggiungere un altro, e cioè il criterio dell’autorità e dell’obbedienza. Di essa l’Apostolo ci parlerà nel seguito della sua parenesi con le ben note parole: “Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio“ (Rom 13, 1).
Nel frattempo ascoltiamo come rivolta noi, negli inevitabili conflitti che sorgono in seno alla comunità locale o universale, l’esortazione conclusiva che l’Apostolo rivolgeva alla comunità romana di allora: “Accoglietevi dunque gli uni gli altri, come anche Cristo accolse voi per la gloria di Dio” (Rom 15,7).
1.Cf. Le cause dei santi. Sussidio per lo Studium, a cura della Congregazione delle Cause dei Santi, Libreria Editrice Vaticana, 3a ed. 2014, pp. 13-81.
2.Archimandrita Sofronio, Silvano del Monte Athos. La vita, la dottrina, gli scritti, Torino 1978, pp. 255 s.