Padre Raniero Cantalamessa – Omelia del Venerdì Santo – 30 Marzo 2018

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Celebrazione della Passione del Signore

“CHI HA VISTO NE DA TESTIMONIANZA” – Predica del Venerdì Santo 2018, nella Basilica di San Pietro

Venuti da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate (Gv 19, 33-35).

Nessuno potrà mai convincerci che questa solenne attestazione non corrisponda alla verità storica, che chi dice di essere stato lì e di aver visto, in realtà non era presente e non ha visto. Ne va di mezzo, in questo caso, dell’onestà dell’autore. Sul Calvario, ai piedi della croce, c’era la madre di Gesù e, accanto a lei, “il discepolo che Gesú amava”. Abbiamo un testimone oculare!

Egli “ha visto” non solo quello che accadeva sotto lo sguardo di tutti. Nella luce dello Spirito Santo, dopo la Pasqua, ha visto anche il senso di quello che era accaduto: cioè che in quel momento veniva immolato il vero Agnello di Dio e si compiva il senso della Pasqua antica; che Cristo sulla croce era il nuovo tempio di Dio, dal cui fianco, come aveva predetto il profeta Ezechiele (47, 1 ss.), sgorga l’acqua della vita; che lo spirito che egli emette al momento della morte da inizio alla nuova creazione, come “lo spirito di Dio”, aleggiando sulle acque, aveva trasformato all’inizio il caos nel cosmo. Giovanni, ha capito il senso delle ultime parole di Gesú: “Tutto è compiuto” (Gv 19, 30).
Ma perché, ci domandiamo, questa illimitata concentrazione di significato sulla croce di Cristo? Perché questa onnipresenza del Crocifisso nelle nostre chiese, sugli altari e in ogni luogo frequentato da cristiani? Qualcuno ha suggerito una chiave di lettura del mistero cristiano, dicendo che Dio si rivela “sub contraria specie”, sotto il contrario di quello che egli è in realtà: rivela la sua potenza nella debolezza, la sua sapienza nella stoltezza, la sua ricchezza nella povertà…

Questa chiave di lettura non si applica alla croce. Sulla croce Dio si rivela “sub propria specie”, per quello che egli è, nella sua realtà più intima e più vera. “Dio è amore”, scrive Giovanni (1Gv 4,10), amore oblativo, agape, e soltanto sulla croce diviene manifesto fin dove si spinge questa infinita capacità di auto-donazione di Dio. “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1); “Dio ha tanto amato il mondo da dare (alla morte!) il Figlio unigenito” (Gv 3, 16); “Mi ha amato e ha consegnato (alla morte!) se stesso per me” (Gal 2, 20).

Nell’anno in cui la Chiesa celebra un sinodo sui giovani e vuole metterli al centro della propria preoccupazione pastorale, la presenza sul Calvario del discepolo che Gesù amava racchiude uno speciale messaggio. Abbiamo tutti i motivi per credere che Giovanni aderì a Gesù quando era ancora assai giovane. Fu un vero e proprio innamoramento. Tutto il resto passò, di colpo, in seconda linea. Fu un incontro “personale”, esistenziale. Se al centro del pensiero di Paolo c’è l’operato di Gesú, il suo mistero pasquale di morte e risurrezione, al centro del pensiero di Giovanni c’è l’essere, la persona di Gesú. Di qui tutti quei “Io sono” dalle risonanze eterne che punteggiano il Quarto Vangelo: “Io sono la via, la verità e la vita”, “Io sono la luce”, “Io sono la porta”, semplicemente “Io sono”.

Giovanni era quasi certamente uno dei due discepoli del Battista che, al comparire sulla scena di Gesú, andarono dietro a lui. Alla loro domanda: “Rabbì, dove abiti?”, Gesú rispose : “Venite e vedete”. “Andarono dunque e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio” (Gv 1, 35-39). Quell’ora aveva deciso della sua vita e non l’aveva più dimenticata.

Giustamente ci si sforzerà, in questo anno, di scoprire che cosa Cristo si aspetta dai giovani, cosa essi possono dare alla Chiesa e alla società. La cosa più importante, però, è un’altra: è far conoscere ai giovani ciò che Gesù può dare ad essi, e cioè “gioia piena” e “vita in abbondanza”. E’ quello che Giovanni scoprì stando con lui.

Facciamo in modo che in tutti i discorsi sui giovani e ai giovani risuoni in sottofondo l’accorato invito del Santo Padre nella Evangelii gaudium:

“Invito ogni cristiano, [in questo caso, ogni giovane e ogni ragazza] in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui” (EG, nr. 3).

Incontrare personalmente Cristo è possibile anche oggi perché egli è risorto; è una persona viva, non un personaggio. Tutto è possibile dopo questo incontro personale; nulla senza di esso cambierà veramente nella vita.

Oltre l’esempio della sua vita, l’evangelista Giovanni ha lasciato anche un messaggio scritto ai giovani. Nella sua Prima Lettera leggiamo queste commoventi parole di un anziano ai giovani delle chiese da lui fondate:
“Scrivo a voi, giovani, perché siete forti e la parola di Dio rimane in voi e avete vinto il Maligno. Non amate il mondo, né le cose del mondo!” (1 Gv 2, 14-15)

Il mondo che non dobbiamo amare e al quale non dobbiamo conformarci non è il mondo creato e amato da Dio, non sono gli uomini del mondo ai quali, anzi, dobbiamo andare sempre incontro, specialmente ai poveri, agli ultimi. Il “mescolarsi” con questo mondo della sofferenza e dell’emarginazione è, parados¬salmente, il miglior modo di “separarsi” dal mondo, perché è andare là, da dove il mondo rifugge con tutte le sue forze. È separarsi dal principio stesso che regge il mondo, che è l’egoismo.

No, il mondo da non amare è un altro; è il mondo come esso è diventato sotto il dominio di satana e del peccato, “lo spirito che è nell’aria” lo chiama San Paolo (Ef 2,1-2). Un ruolo decisivo svolge in esso l’opinione pubblica, oggi anche letteralmente spirito “che è nell’aria” perché si diffonde via etere attraverso le infinite possibilità della tecnica. “Si determina uno spirito di grande intensità storica, a cui il singolo difficilmente può sottrarsi. Ci si attiene allo spirito generale, lo si reputa ovvio. Agire o pensare o dire qualcosa contro di esso è considerato cosa insensata o addirittura un’ingiustizia o un delitto. Allora non si osa più porsi di fronte alle cose e alle situazione in modo diverso da come esso le presenta” .

È quello che chiamiamo adattamento allo spirito dei tempi, conformismo. Un grande poeta credente del secolo scorso, T.S. Eliot, ha scritto tre versi che dicono più di interi libri: “In un mondo di fuggitivi, la persona che prende la direzione opposta sembrerà un disertore”:” . Cari giovani cristiani, se è permesso a un anziano come Giovanni rivolgersi direttamente a voi, vi esorto: siate di quelli che prendono la direzione opposta! Abbiate il coraggio di andare contro corrente! La direzione opposta, per noi credenti, non è un luogo, è una persona, è Gesù nostro Dio e nostro Salvatore.

Un compito è affidato in modo particolare a voi giovani: salvare l’amore umano dalla deriva tragica nella quale è finito: l’amore che non è più dono di sé, ma solo possesso – spesso violento e tirannico – dell’altro. Sulla croce Dio si è rivelato come agape, l’amore che si dona. Ma l’agape non è mai disgiunta dall’eros, dall’amore di ricerca, dal desiderio e dalla gioia di essere riamato. Dio non ci fa solo la “carità” di amarci; ci desidera, in tutta la Bibbia si rivela come sposo innamorato e geloso. Anche il suo è un amore “erotico”, nel senso nobile di questo termine. È quello che ha spiegato Benedetto XVI nell’enciclica “Deus caritas est”.

“Eros e agape, – amore ascendente e amore discendente – non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro […]. La fede biblica non costruisce un mondo parallelo o un mondo contrapposto rispetto a quell’originario fenomeno umano che è l’amore, ma accetta tutto l’uomo intervenendo nella sua ricerca di amore per purificarla, dischiudendogli al contempo nuove dimensioni” (nr. 7-8).

Non si tratta dunque di rinunciare alle gioie dell’amore, all’attrazione e all’eros, ma di sapere unire all’eros l’agape, al desiderio dell’altro, la capacità di donarsi all’altro, ricordando quello che san Paolo riferisce come un detto di Gesú: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35).

È una capacità però che non si inventa in un giorno. È necessario prepararsi a far dono totale di se stessi a un’altra creatura nel matrimonio, o a Dio nella vita consacrata, cominciando a far dono del proprio tempo, del proprio sorriso e della propria giovinezza in famiglia, nella parrocchia, nel volontariato. Ciò che tanti di voi silenziosamente fa.

Gesú sulla croce non ci ha dato solo l’esempio di un amore di donazione spinto fino all’estremo; ci ha meritato la grazia di poterlo attuare, in piccola parte, nella nostra vita. L’acqua e il sangue sgorgati dal suo costato arrivano a noi oggi nei sacramenti della Chiesa, nella Parola, anche solo guardando con fede il Crocifisso.
Un’ultima cosa Giovanni ha visto profeticamente sotto la croce: uomini e donne di ogni tempo e di ogni luogo che volgevano lo sguardo a “colui che è stato trafitto” e piangevano di pentimento e di consolazione (cf. Gv 19, 37; Zac 12,10). Uniamoci anche noi a questo immenso corteo che attraversa i secoli e diciamo dal profondo del cuore: Adoramus te Christe et benedicimus tibi, quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum. Ti adoriamo e ti benediciamo, o Cristo, perché con la tua santa c croce hai redento il mondo”.