Gregorio, fratello minore di San Basilio, fu esperto nella retorica ed in possesso di notevoli conoscenze di scienze naturali, astronomia e medicina. Regolarmente sposato, si dedicò all’insegnamento che abbandonò quando il fratello Basilio lo costrinse ad accettare la sede vescovile di Nissa, in Cappadocia. Andò incontro a notevoli difficoltà, non ultima quella di subire la calunnia di dilapidare i beni della Chiesa, per cui venne deposto da un sinodo, convocato nel 376 a Nissa. Poco dopo, alla morte dell’imperatore Valente (3 78), tornò ad occupare la sua sede vescovile, dove fu accolto con molto entusiasmo. Fu metropolita di Sebaste prima che gli succedesse il fratello Pietro; nel Concilio di Costantinopoli (381) fu salutato come “una colonna dell’ortodossia”. Morì nel 394. Gregorio, di grande capacità speculativa, fu superiore come filosofo e teologo agli altri cappadoci e si distinse per la profondità dell’indagine filosofica sulle verità della fede. La sua opera dogmatica più importante è senz’altro l'”Oratio catechetica magna” nella quale difende i principali dogmi cristiani in una forma adatta a confutare gli eretici, i giudei ed i pagani.
Il commento al Padre nostro è tratto dalle “Horniliae in orationem dominicam “.
Padre nostro che sei nei cieli.
Mosè, prima di salire sul monte, esortò il popolo a lavarsi ed a purificarsi con la continenza affinché gli Israeliti potessero essere degni dì accostarsi a Dio. Ma costoro, presi da grande spavento per il fuoco, il fumo, le tenebre ed il suono delle trombe, non vollero più saperne di salire sul Sinai e chiesero a Mosè di fare da mediatore con Dio al fine di conoscerne la volontà; il terrore, infatti, impediva loro di avvicinare Dio e di sostenerne lo sguardo. Così Mosè; ma non così il nostro Signore Gesù Cristo. Egli, infatti, non ha bisogno dimostrarci il Sinai coperto di tenebre e di fumo ovvero di farci ascoltare il suono delle trombe che seminano il terrore; non purificale anime con la continenza di tre giorni ovvero con le abluzioni di acqua, acconsentendo da ultimo ad uno solo di salire la vetta di un monte. Al contrario: Ci conduce ben più in alto di un monte, in cielo, aprendolo al potere degli uomini a cui concede addirittura di condividere la Sua natura divina. In Gesù Cristo la gloria del Padre viene regalata agli uomini ai quali é insegnata la preghiera per condurli a Dio. Gesù ci esorta a pregare, dicendo: “Padre nostro che sei nei cieli … “. Allo stesso modo di Davide che si domandava: “chi mi darà le ali della colomba?”, anch’io mi chiedo chi mi darà le ali per sollevarmi nello spirito fino all’altezza di queste parole sublimi, per lasciare la terra ed entrare nella magnificenza del cielo. Chi mi concederà di salire fino alle stelle, contemplandone la mera viglia, di superare tutto quanto è mutevole ed in movimento ed arrivare finalmente all’immutabile Essenza, all’incrollabile Potenza che si appoggia solo su se stessa, che dirige tutto ciò che esiste e tutto ciò che dipende dall’imperscrutabile sapienza divina? Chi mi consentirà di abbandonare tutto quanto è mutevole e di fissarmi in tutto ciò che immutabile ed inalterabile? Solo se riuscirò a fare ciò, riconoscerò la paternità di Dio e potrò chiamar Lo con il nome confidenziale ed amorevole di Padre.
Quale cuore occorre avere, di quale intimità si deve godere, da quale coscienza è necessario attingere, per riconoscere che la natura di Dio è bontà, santità, potenza, gloria, purezza, eternità, fino ad osare di chiamarlo “Padre”? Un uomo saggio non userebbe mai il termine “Padre”, se non riconoscesse in sé una rassomiglianza con Lui. È chiaro che colui che per sua natura è Buono; non può generare il male, come chi è Santo, l’impurità; colui che è Immutabile non può generare la precarietà, chi è Padre della vita non genera la morte; colui che è Puro e senza macchia non dà vita alle passioni ed alle turpitudini ed, allo stesso modo, colui che è Benefico non genera avarizia. In conclusione, colui che è Perfetto non può essere Padre di coloro che soggiacciono al peccato.
Quindi da ciò si ricava che se il peccatore, che pur tale si riconosce, si dice imparentato con Dio, che è la purezza stessa, al punto da chiamarlo “Padre” ma senza prima purificarsi dei propri peccati e delle proprie ignominie, è in realtà un presuntuoso ed un bestemmiatore in quanto in pratica ricondurrebbe a Dio l’origine della sua iniquità.
Il Padre, infatti, presuppone un Figli. Se un uomo pieno di peccati chiama Dio, “Padre”, gli attribuisce la responsabilità della propria condotta perversa.
L’Apostolo afferma giustamente che non si può unire la luce alle tenebre: ciò vuol dire che la Luce va associata alla luce, la Giustizia alla giustizia, la Bellezza alla bellezza, l’Integrità all’integrità: “un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni”, conclude Matteo (7, 18). I contrari sono, quindi, imparentati con i contrari loro simili e se qualcuno negasse questa volontà sappia che, ogniqualvolta egli invoca il Padre, non si rivolge al Padre dei cieli ma a quello dell’inferno che è mentitore, e padre della menzogna, peccatore e padre del peccato. E proprio per i questo che quelli che seguono le concupiscenze della carne / sono chiamati da San Paolo (Ef. 2, 3) “meritevoli dell’ira” e j’ colui che si è perduto, “figlio della perdizione”(Gv.17, 12). Coloro, invece; che hanno una coscienza senza macchia sono chiamati “figli del giorno e della luce” e coloro eh~ hanno attinto alla forza di Dio, “figli della forza”. Quando dunque il Signore Gesù ci insegna a pregare Dio Padre è chiaro che vuole, in sostanza, prescriverci una vita degna e perfetta. In tal modo, noi ogni volta che nominiamo il Padre che è Santità, Giustizia e Bontà, dobbiamo dimostrare che una vita santa, giusta e buona la nostra parentela con Lui.
Quale sforzo però comporta ciò! Quale zelo dobbiamo avere per innalzare la nostra anima fino a chiamare Dio, “Padre”! L’avaro o colui che si lascia travolgere dalle seduzioni mondane o che cerca la stima degli uomini o / che segue la concupiscenza della carne e che, tuttavia, -prega Dio Padre con la preghiera del Signore nostro Gesù Cristo, quale risposta credi riceverà da Dio che, non solo ascolta le parole, ma scruta anche il cuore? La risposta sarà questa: la tua vita è sordida e tu osi chiamare “Padre” chi è Santo ed Incorruttibile; tu profani il mio Nome Immacolato con una lingua immonda. Tu chiamandomi Padre dovresti manifestare le mie qualità divine nella tua vita, mentre invece con la tua condotta usurpi il titolo di “figlio” ed insulti la mia santità. Noi due siamo agli antipodi; tra noi non ci può essere unione: Io sono la vita e tu la morte, Io sono la luce e tu le tenebre, Io sono puro e tu immondo. C’è un abisso incolmabile tra l’avaro e colui che è generoso e non si possono conciliare la benevolenza e la durezza del cuore; anzi, si escludono a vicenda. Non sono Io il padre dei tuoi vizi. Il figlio possiede la natura del Padre: se questi è misericordioso, egli lo sarà altrettanto; se il Padre è puro, puro lo sarà anche il figlio. Il figlio del giusto sarà giusto, il figlio del buono sarà buono. Quanto ai peccatori il Signore dice: “…non so di dove siete” (Lc. 13, 25). In conclusione è molto pericoloso pregare Dio con il nome di “Padre”, senza aver corretto prima la propria vita.
Ripetiamo continuamente l’invocazione “Padre nostro che sei nei cieli” in modo da coglierne tutto il senso nascosto. Finora abbiamo mostrato la necessità di una vita virtuosa al fine di riconciliarci con Dio. Ma cogliamo in queste parole un senso ancora più profondo: con esse evochiamo la patria che abbiamo perduto, cioè rimpiangiamo la nostra nobile origine che abbiamo rifiutato.
Nella parabola del giovane che abbandona la casa del padre per vivere una vita autonoma e dissoluta, Gesù Cristo ci rivela la natura umana, tratteggiandola sotto forma di apologo. Il figliol prodigo ritrova la felicità solo al momento del ravvedimento e quando, rientrando in se stesso, pronuncia parole di pentimento. Le parole del figlio sono simili a quelle della nostra preghiera: “Padre ho peccato contro il cielo e contro di te” (Le. 15, 18). Con queste parole egli in pratica riconosce che la sua patria è il cielo e che aveva sbagliato a lasciarla. Questa confessione gli facilita il ritorno presso il padre. Il padre gli corre incontro, lo abbraccia e lo riveste della veste più bella, non con una veste nuova ma con quella che aveva prima e· che aveva perduta per la sua disobbedienza, gustando il frutto proibito e riducendosi nudo. L’anello che il padre · pone al dito del figlio allude al sigillo dell’immagine ritrovata di figlio; così le calzature con le quali vengono protetti i piedi del figlio sono destinate a preservarlo dai morsi del serpente a cui, anzi, nella sua conversione, egli dovrà schiacciare la testa.
Come la benevolenza del padre facilita al giovane il ritorno alla casa paterna – cioè al cielo contro cui ha peccato – così il Signore Gesù, insegnandoci ad invocare il Padre che è nei cieli, vuole farci prendere coscienza della nostra vera patria e, suscitando in noi un bruciante desiderio di essa, ricondurci nel cammino del ritorno. La via che conduce al cielo altro non è che la fuga dal peccato. E quale altro modo c’è di fuggirlo se non diventando simili a Dio? Divenire simili a Dio significa diventare santi, buoni e giusti. Colui che realizzerà la virtù nella propria vita passerà con naturalezza da questa esistenza terrestre alla città del cielo.
Niente separa il divino dall’umano; non sono necessari artifici per trasformare la nostra carne corruttibile e sofferente nella vita spirituale. Come non esiste distanza tra la virtù ed il vizio, così non dipende solo dalla nostra volontà trovarci dove desidereremmo essere. Come non c’è sforzo da fare per distinguere il bene dal male e, una volta scelto il primo, già siamo in possesso del suo oggetto, allo stesso modo, unendoci a Dio, già siamo abitanti del cielo. Perciò se Dio è in cielo (Qo.5, 1) e “nel Signore Dio 11.o posto il mio rifugio” (Sal. 72, 28), è evidente che con l’unione ci troviamo vicino a Dio. Quindi, quando Gesù ci esorta a chiamare nella preghiera Dio con il nome di “Padre”, è chiaro che tale esortazione tende a far sì che la nostra vita rassomigli nella perfezione a quella del Padre celeste. Afferma infatti “siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt. 5; 48).
Se abbiamo dunque compreso il senso e la portata di questa preghiera, sarebbe tempo che predisponessimo le nostre anime a pronunciarne consapevolmente le parole “Padre nostro che sei nei cieli”. Come è manifesta attraverso indizi inequivocabili la natura di Dio nei suoi figli – Egli infatti ha concesso a coloro che l’hanno ricevuto di divenire · figli di Dio e ricevere Dio è ricevere la Sua perfezione – così è facile individuare attraverso segni caratteristici una cattiva natura, propria di coloro che sono esclusi dal novero dei figli di Dio. Quali sono questi segni? L’invidia, l’odio, la calunnia, l’orgoglio, l’avarizia, la cupidigia, l’insaziabilità, l’ambizione … tutto ciò esprime l’opposto dell’immagine divina. Colui che ha dentro di sé questi peccati ed invoca il Padre, da quale Padre sarà ascoltato?
Non certo dal Padre del cielo, ma da quello dell’inferno. Infatti il peccatore sarà riconosciuto dal padre a cui egli assomiglia. La preghiera dell’empio invoca il demonio; quella di colui che fugge il peccato e vive nella virtù invoca, invece, il Padre della carità e della misericordia. Quando preghiamo Dio esaminiamo dunque la nostra vita e solo se vi troviamo l’immagine di Dio potremo proferire queste sante parole. Colui che ci ha insegnato a dire “Padre”, infatti, non ci ha permesso di mentire. Il giusto, figlio di Dio che ha la natura di Dio e quindi fa le opere di Dio, ha gli occhi fissi alla città celeste: chiama il Re del cielo, “Padre” e la felicità del cielo, “sua patria”. È necessario che in noi si incarnino le parole del Vangelo “dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”, nel senso che a Dio dovremo tendere con la nostra esistenza, contemplando senza tregua la sua bellezza e desiderandolo con tutta la nostra anima. Tutto ciò che è di Dio è privo di gelosia, di invidia, di orgoglio e di qualsiasi altra cosa che deturpa la Sua santità. Quando saremo a questo punto di familiarità con Dio, lo potremo chiamare “Padre”. Egli si volgerà a noi con sguardo paterno: ci rivestirà dell’abito divino, ci infilerà l’anello al dito e ci calzerà ai piedi i sandali del Vangelo per dirigerci verso il cielo e ci ricondurrà alla nostra patria originaria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo a cui appartengono la gloria e l’impero per tutti i secoli dei secoli. Amen.