Dopo i volumi sui vizi capitali (2013), le opere di misericordia (2014), i doni dello Spirito Santo (2015), le beatitudini (2016) che raccolgono la singolare e felice esperienza delle prediche al «Festival dei Due Mondi» di Spoleto ecco il quinto sul Padre nostro. Ripercorrere le parole di questa preghiera con attenzione conduce a scoprire che cosa significhi pregare, se sia possibile parlare con Dio, se non si tratti di una illusione, se gli possiamo domandare effettivamente qualcosa. Perché per pregare è indispensabile trovare il cammino del cuore, centro della persona, punto preciso in cui l’uomo si conosce in verità.
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Introduzione
I discepoli hanno poche occasioni di vedere Gesù in preghiera, perché abitualmente si ritira in solitudine, al calar della sera, in luoghi isolati. La sua preghiera richiede discrezione e pudore e non desidera testimoni se non Dio solo. Perché non si rende pubblico quanto di profondo si vive con l’Altissimo. Ma se non lo hanno visto spesso pregare, hanno però scoperto gli effetti della sua preghiera. Quando li raggiunge all’alba, il suo volto risplende dell’amore di Dio, le sue parole e i suoi atti si iscrivono chiaramente nella volontà del Padre suo.
Non si sa se Gesù pronunciasse qualche parola o rimanesse in silenzio, ma da lui, dopo la preghiera, sprigionava una tale forza, un tale fascino che i discepoli non potevano avere che il desiderio di saperne di più: «Signore, come fai?». La risposta di Gesù è sorprendente: «Quando pregate dite: Padre…». Essi si aspettavano probabilmente un insegnamento sulla preghiera: quale deve essere l’atteggiamento del corpo? Con il capo coperto o no? Le mani alzate verso il cielo? Mettersi in ginocchio? Niente di tutto ciò. Gesù affida loro semplicemente una preghiera, ma nella quale è detto tutto.
Padre. È la parola che Gesù usava nei momenti più forti: quando era pieno di gioia, di emozione: «Padre, ti rendo lode, perché tu riveli queste cose ai bambini». Oppure piangendo, davanti alla tomba del suo amico Lazzaro: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato». E ancora, nell’angoscia, nei momenti finali della sua vita: «Padre, se è possibile questo calice si allontani da me». Poi, quando tutto è finito, dice:
«Padre, nelle tue mani consegno il mio Spirito». Nei momenti più forti Gesù dice «Padre», è la parola che più usa1.
Il Padre nostro è il dialogo di un figlio con suo padre. Cristo ci introduce così nella tenerezza di Dio, di un Dio che ci accoglie tra le sue braccia:
Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato (Is 49,15-16).
Preghiera sublime ed esigente, giacché ci impegna a vivere in coerenza con ciò che desideriamo per Dio e ciò che gli domandiamo: la venuta del regno e l’impegno a vivere come popolo salvato, testimone della sua santità; la forza di costruire quaggiù il suo regno di giustizia e di pace; l’alimento (la sua Parola e il pane di vita) per nutrire la nostra vita e custodirci nella speranza; la grazia di saper amare gli altri come lui ci ama, superando la fredda giustizia per giungere al perdono; la grazia di custodire intatta la nostra fede e la nostra relazione con lui nelle prove della vita; la protezione di fronte al male che minaccia il suo progetto d’amore.
1 Francesco, Meditazione mattutina nella Cappella della Casa Santa Marta (16 giugno 2016).
Leggi il primo capitolo del libro
«Padre nostro che sei nei cieli»
di Giuseppe Betori
«Padre nostro che sei nei cieli», possiamo incontrarti sulla terra?
Questa domanda può essere il punto di partenza della nostra riflessione sulla prima parola della preghiera che Gesù ha insegnato ai suoi discepoli. Che ci sia un Padre nei cieli può essere un’interessante rivelazione fatta alla nostra conoscenza, ma che questo Padre sia da noi raggiungibile e lo sia non solo nel futuro, ma fin da questo momento, significa poter colmare la nostra esistenza di una presenza amorosa, di cui il nostro cuore sente ardentemente l’esigenza. Eppure, se il cuore manifesta questo desiderio, per altri versi il mondo attorno a noi registra quella che potremmo definire una dolorosa assenza.
Padre nostro…
L’enfasi sulla «morte del padre» accompagna la retorica della nostra epoca, almeno dal sorgere della psicoanalisi. La riflessione di Freud, di Lacan, come anche del meno citato Alexander Mitscherlich1, ci rende consapevoli della scomparsa dell’immagine del padre consegnataci dalla tradizione, il pater familias, il padre a cui Kafka scriveva la Lettera pubblicata postuma nel 19522, la figura paterna che aveva dominato la scena familiare per secoli.
Ma se il padre scompare dalla terra, che senso ha parlare del «Padre nostro», che è nei cieli? La domanda serve a preparare una riflessione biblica e teologica, a leggere creativamente quei testi che la tradizione consegna al nostro affetto.
Una prima considerazione si impone. Quando ci rivolgiamo a Dio con il titolo di «Padre», diciamo qualcosa di preciso. Anzi, la rivelazione cristiana, parlandoci di un Padre, non solo dice come dobbiamo intendere correttamente Dio, ma a ben vedere ci dà anche un punto di vista nuovo sul reale. Se Dio fosse solo un principio ordinatore, qualcosa di simile al Dio di cui possono parlare i filosofi, lo si potrebbe raggiungere mediante il ragionamento. Lo stesso Tommaso d’Aquino introduce una piccola distanza, quando sottolinea come il principio del reale, raggiunto in ciascuna delle vie della conoscenza di Dio, «lo chiamiamo Dio», «viene chiamato Dio» (Sum. Theol., I, q. 2, art. 3).
Dio, ci dice la rivelazione cristiana, non è solamente un Dio ordinatore: egli è Padre. E questa affermazione, come dicevamo, porta con sé la conseguenza che anche il reale è visto totalmente sotto un altro punto di vista; in particolare per quanto riguarda la creatura dotata di libertà e di intelligenza. In altri termini, la parola «Padre» porta con sé un modo ben determinato di guardare e pensare Dio e un modo altrettanto preciso di guardare e pensare l’uomo, che ha Dio come Padre. È la rivelazione di Gesù che provoca questa «conversione paterna» della nostra immagine di Dio. Gesù ci invita a fermare lo sguardo sul fatto che siamo chiamati a rivolgerci a Dio come a un Padre. Qui possiamo anche immaginare che il bambino Gesù abbia avuto una scuola di paternità nella testimonianza di san Giuseppe. La famiglia di Nazaret fu per lui il luogo in cui fare esperienza concreta e quotidiana della sollecitudine amorosa di un padre. In quella dimora umile e dignitosa, alla presenza discreta e appassionata di san Giuseppe, egli «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). Come ricordava papa Francesco, san Giuseppe è il custode di Maria, di Gesù e della Chiesa, e svolge questo compito con attenzione a Dio:
il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza. Nei Vangeli, san Giuseppe appare come un uomo forte, coraggioso, lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del debole; anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all’altro, capacità di amore3.
Alla scuola di san Giuseppe4, Gesù impara in che modo un uomo può unire dovere e passione, forza e tenerezza. È la dimensione della testimonianza paterna, che aiuta ogni giovane a diventare adulto, su cui ha richiamato l’attenzione a più riprese Massimo Recalcati. Ma Gesù, nel suo continuo richiamarsi al Padre, ci permette di rovesciare un’altra prospettiva, oggi sempre più diffusa. Come fa notare Marcel Gauchet:
Se il XX secolo è stato quello della scoperta del bambino reale, il XXI secolo si apre nel segno della sacralizzazione del bambino immaginario5.
Così oggi siamo sempre più proiettati nel guardare i figli come a oggetti del desiderio, come prolungamento narcisistico del nostro sguardo. Al contrario, fa notare Recalcati, occorre recuperare il senso di un debito simbolico, rendersi conto che siamo anzitutto figli. Solo a partire dall’assunzione consapevole dell’essere figli possiamo diventare adulti e generare, a nostra volta, dei figli: altrimenti ci troviamo a essere in competizione con i nostri figli per gli stessi spazi (adulti che si vestono e si comportano come ragazzini) oppure pretendiamo che essi siano sempre felici e pieni di successo (e siamo incapaci di sostenerli negli inevitabili fallimenti della vita).
Recalcati si richiama a Telemaco come esempio del figlio che ha bisogno del padre e lo cerca, che vuole ereditare qualcosa dal padre. Chi non accetta questo debito simbolico fa come i vignaioli omicidi della parabola evangelica: nelle parole di Recalcati, i vignaioli rigettano «la filiazione simbolica nel nome di un fantasma di autogenerazione» (Il complesso di Telemaco, Feltrinelli 2014). È l’inganno del serpente che nel paradiso terrestre suggerisce ad Adamo ed Eva che saranno come Dio, cioè in grado di autogenerarsi (cfr. Gen 3,5). Non possiamo dimenticare che invece siamo tutti generati dal Padre.
Ma che vuol dire allora che Dio è Padre? Dobbiamo ancora una volta rifarci a colui che ci parla di Dio in questo modo: dobbiamo ancora una volta rivolgerci a Gesù. Gesù ha incontrato in Giuseppe la testimonianza di un amore paterno, la casa paterna è stata per lui un luogo di sollecitudine e custodia, di tenerezza e passione. Ma se Gesù parla di Dio come un Padre, è perché ha una testimonianza ancora più profonda, ancora più radicale; della quale la vita di Giuseppe può considerarsi solo come l’immagine.
Se nelle parole di Gesù Dio ha i tratti del Padre, è perché ha su questo un’attestazione ancora più intima e veritiera. Vale a dire che Gesù non si è creato l’immagine di Dio come un Padre, non si è fatto un concetto del Creatore, adattandolo a una figura a tutti familiare, che trasmette il senso della protezione e dell’affetto. Gesù ha vissuto realmente l’esperienza di Dio Padre: se Gesù può rivelare agli uomini che questo è il volto di Dio, è perché sperimenta continuamente questo nel proprio cuore. Gesù chiama il Padre Abbà, babbo, svelando un’intimità con Lui che scombina il modo con cui nella storia gli uomini hanno guardato a Dio. Per Gesù Dio è Abbà, perché Lui, Gesù è il Figlio. Gesù ci dice che Dio non è solo il Creatore, l’Onnipotente, l’Altissimo: è Babbo, la persona che ogni figlio ha bisogno di avere per sentirsi sicuro, per aprirsi al mondo con la fiducia necessaria. L’intimità che Gesù ha con il Padre apre a un affetto nutrito di tenerezza.
C’è una cosa che forse non si nota a sufficienza, ma che è piena di significato. A ben vedere, nel Vangelo Gesù distingue il suo rapporto con il Padre da quello che abbiamo noi. Nel giorno della Risurrezione, mentre dice a Maria di Magdala di andare ad annunciare ai discepoli la sua ascesa al Padre, lo fa con queste parole: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”» ( Gv 20,17). E anche quando insegna la preghiera che dà il titolo a questa conferenza non dice: «quando preghiamo, dobbiamo dire: Padre nostro », ma dice: «Voi dunque pregate così: Padre nostro…» ( Mt 6,9).
In un commento al passo di Matteo in cui Gesù parla del Padre nostro, Papa Francesco sottolinea che «se lo spazio della preghiera è dire “Padre”, l’atmosfera della preghiera è dire “nostro”: siamo fratelli, siamo famiglia» (Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae, 16 giugno 2016). Ecco perché la preghiera che Gesù insegna comincia con queste parole: in questo modo ci ricordiamo che siamo fratelli e che il mondo in cui siamo non è nostro, ma ci è stato donato da un Padre sovrabbondante di amore per l’uomo.
- 1 Cf. a. MitscheRlich, Verso una società senza padre. Idee per una psicologia sociale, Feltrinelli, Milano 19776.
- 2 Cf. F. KaFKa, Lettera al padre, Garzanti, Milano 2016.
- 3 FRancesco, Omelia per l’inizio del ministero petrino (19 marzo 2013).
- 4 Cf. Giovanni paolo ii, Esortazione apostolica Redemptoris custos (15 agosto 1989), n. 1.
- 5 M. Gauchet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, Vita e Pensiero, Milano 2010, 3 (cors. or.).