La parabola della vigna e dei due figli
Il primo elemento da segnalare a riguardo della pagina odierna del vangelo è che la trasmissione della parabola dei due figli è molto confusa. Alcuni testimoni importanti, come il codice Vaticano, invertono l’ordine dei due figli, mettendo per secondo il figlio che risponde che non sarebbe andato, ma poi va nella vigna. Questo cambiamento potrebbe essere dovuto a una ragione ideologica centrata su una certa visione della storia della salvezza: il primo figlio, che dice di andare ma poi non mette in atto il proposito, sarebbe stato identificato già da alcuni scribi cristiani con gli ebrei, mentre i pagani verrebbero rappresentati dal figlio che dice di non voler andare, ma poi andrà a lavorare. Siccome questa logica però non era supportata dall’ordine in cui sono presentati i protagonisti, l’ordine sarebbe stato invertito. Sul piano della critica testuale è da preferire l’ordine attualmente presente nel testo critico, anche se rimane qualche dubbio.
La parabola è la seconda ad essere ambientata nella vigna (la prima si trovava in Mt 19,30–20,16), e fa parte del materiale proprio del primo evangelista, e quindi non ha paralleli con Marco o Luca. Composta di tre soli versetti, è incorniciata da due domande che provocano l’attenzione dell’interlocutore (v. 28: «Che ve ne pare?», una formula classica rabbinica; v. 31: «Chi dei due…»), ed è seguita da una sua spiegazione che riprende la questione, lasciata in sospeso al v. 27, dell’autorità di Gesù e del battesimo di Giovanni.
L’interpretazione della parabola è terreno delicato, e varia sin dall’antichità a seconda degli autori, che si soffermano soprattutto sulle figure che verrebbero rappresentate dai due figli di cui parla Gesù. Per alcuni Padri della Chiesa, il figlio che non andrà a lavorare nella vigna è Israele. Questa lettura ha veicolato quella teologia detta “della sostituzione” (o supersessionismo), secondo la quale – come conseguenza del fatto che tutti gli ebrei avrebbero respinto Gesù – per il popolo dell’alleanza non vi sarebbe più alcun ruolo nella storia della salvezza, ruolo che verrebbe pertanto assunto dalla Chiesa. Tale teologia non è sostenibile in alcun modo: basterebbe rileggere, per convincersene, i capitoli 9–11 della lettera di Paolo ai Romani.
Quelli a cui Gesù si rivolge – e che sono anche quelli che indagano sulla sua autorità – nel nostro testo, però, non sono tutto Israele, ma solo alcuni dei suoi leader, come è specificato poco prima della parabola (cf. 21,23), e come Matteo dirà anche dopo (cf. 21,45). È a questi che Gesù parla, e solo a questi dirà, poco più avanti, «il regno di Dio sarà tolto a voi e sarà dato a una nazione che produce i suoi frutti» (21,43). Questa interpretazione alternativa si può fondare, oltre a ragioni di tipo filologico, anche sul fatto che l’identificazione del figlio che si rifiuta di andare nella vigna con Israele non è universale: per altri Padri, come, p. es., Ilario di Poitiers, questi sarebbero solo una parte del popolo ebraico (i farisei), o quelli che si lasciano influenzare da loro. A questo proposito però si deve ricordare che Gesù si sta rivolgendo al clero, e non ai farisei (cf. sempre 21,23).
A guardar bene, la parabola sembra però centrata soprattutto su un’altra questione: quella riguardante il rapporto, classico nella tradizione biblica e giudaica, tra il “dire” e il “fare”. Compiere la volontà del padre, per Gesù, non è semplicemente una questione di parole, quanto piuttosto di fatti: «Non chiunque mi dice “Signore, Signore” entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio nei cieli» (7,21). I leader religiosi a cui si rivolge la parabola, e che credono di poter di servire Dio e di essere fedeli alla Torà, di fatto non gli obbediscono. Per questo Gesù li rimprovera di non aver ascoltato il messaggio del Battista, venuto sulla via dell’osservanza «della giustizia» (21,32), mentre paradossalmente l’hanno ascoltato e messo in pratica coloro che sono considerati incapaci di seguire i comandi di Dio (gli esattori delle tasse e le prostitute). Sono questi i figli che coi fatti vanno a lavorare nella vigna e che entreranno per primi nel Regno. Quelli che si pentono (cf. 21,29.32) e sanno di avere bisogno di grazia si apriranno a essa e per questo la riceveranno. Sotto questo aspetto, cioè la relazione tra parole e fatti, la parabola è molto vicina alla concretezza della Lettera di Giacomo, soprattutto quando insiste sulla contraddizione tra l’avere la fede ma non le opere (cf. Gc 2,14-17).
A conclusione della parabola Gesù dice che Giovanni era venuto «sulla via della giustizia» (v. 32), con una metafora che potrebbe riferirsi o alla storia della salvezza nella quale è inserito anche il Battista, in quanto precursore di Gesù, come ritengono alcuni, oppure al comportamento giusto, conforme alla volontà di Dio, che ha connotato la vita di Giovanni. Il concetto di giustizia, come Matteo ha già fatto comprendere attraverso il primo discorso di Gesù, quello della montagna, rispetto ad altre visioni teologiche (come quelle che si trovano nella letteratura paolina) nel contesto del suo vangelo assume un significato specifico e, anzi, diventa quasi il suo “concetto-guida”. Matteo infatti descriverà Gesù – durante la sua passione (cf. 27,19) – allo stesso modo in cui dice ora – se accettiamo la seconda spiegazione di cui sopra – che il Battista è stato giusto. La giustizia è sin dall’inizio del vangelo il programma che Gesù ha deciso di adempiere, e che è stato espresso nelle sue prime parole, pronunciate proprio davanti a Giovanni (cf. 3,15). Per Matteo dunque è importante soprattutto «compiere», praticare la giustizia (6,1), come mostra di fare il figlio della parabola che compie la volontà del padre.
- Fonte del commento – il sito “La Parte Buona”
- Commento a cura di p. Giulio Michelini